venerdì, maggio 29, 2009

Tentato suicidio, crescono i casi a Milano

I medici: alla fine dell'anno potrebbero essere più di 200, il 30% in più rispetto al 2008

PeaceReporter - Ogni 37 ore al pronto soccorso dell'Ospedale S. Carlo di Milano arriva una persona che ha tentato di suicidarsi. Il doppio di quanto avveniva negli anni scorsi. Tanto che nei primi cinque mesi di quest'anno i tentativi di suicidio sono stati 93 (54 donne e 39 uomini). Se il trend continuerà così, alla fine dell'anno i ricoveri per tentato suicidio potrebbero arrivare a più di 200, con un incremento intorno al 30% rispetto al 2008, che ne ha registrati 175 (nel 2007 sono stati 167 e nel 2006 155). "Non è possibile per ora capire il perché di questo aumento - spiega Giuseppe Biffi, psichiatra e responsabile del dipartimento di salute mentale del San Carlo. Certo il tentato suicidio è una richiesta di aiuto". Le fasce di età più a rischio, dai dati di questi primi mesi del 2009, sono quelle under 25 con 13 casi pari ad un amento rispetto al 2008 (9 casi) del 9% e 25-44 anni con 50 casi (92 nel 2008, +1,7%). Dai 45 ai 64 anni i tentati suicidi sono stati per ora 18 e negli over 65 12.


Per monitorare la situazione, l'Ospedale San Carlo, che ha un bacino d'utenza di circa 400mila persone, adotterà dal 1° di giugno una scheda informatizzata di registrazione dei tentativi di suicidio, elaborata dall'Istituto Mario Negri e già usata da alcuni mesi negli ospedali di Lazio, Trentino, Biella e Vicenza, dal S. Anna di Como e dall'ospedale di Cinisello Balsamo (Mi). "È necessario studiare il fenomeno -aggiunge Giuseppe Biffi- perché molti di quelli che ci provano una volta poi ritentato". Una preoccupazione confermata anche dalla gravità delle lesioni che si procurano. "Sono in aumento i codici rossi (imminente pericolo di vita, ndr) e gialli (grave pericolo di vita, ndr) -spiega Maurizio Mardegalli, direttore del Pronto soccorso del San Carlo-. Quest'anno sono già 5 quelli rossi mentre in tutto il 2008 era stati 3 e nel 2007 solo 1. I gialli per ora sono 47, l'anno scorso 59". I codici verde sono invece in diminuzione: da gennaio a maggio ne hanno registrati 41 (pari al 44% dei tentati suicidi), nel 2008 erano stati 113 (pari al 64,6%). "Sui tentativi di suicidio sappiamo poco, sia a livello statistico che sui fattori di rischio -sostiene Barbara D'Avanzo-. Per questo è necessario adottare negli ospedali una scheda di registrazione che raccolga in modo standardizzato le informazioni che lo psichiatra già ottiene nel colloquio col paziente".
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venerdì, maggio 29, 2009

Questa è una crisi dei diritti umani!

Intervento del portavoce di Amnesty Italia

PeaceReporter - Nel 2008, anno in cui è stato celebrato il 60mo anniversario della Dichiarazione universale dei diritti umani, i diritti umani sono stati messi in secondo piano, se non addirittura traditi. È difficile trovare più di una manciata di eventi positivi: l'arresto di Radovan Karadzic e la sua consegna al Tribunale per la ex Jugoslavia; la quasi scomparsa delle esecuzioni capitali in Africa; le battaglie giudiziarie per il possesso della terra vinte da comunità indigene dell'America del Sud. Ma questo anno è iniziato con la crisi in Kenya, con oltre un migliaio di morti nelle violenze seguite alle contestate elezioni politiche e si è concluso con un tributo di sangue di civili palestinesi, uccisi a Gaza nel corso dell'operazione "Piombo fuso". Per la prima volta dopo quasi 10 anni la guerra è tornata in Europa con lo scontro tra Russia e Georgia. Conflitti dimenticati, in Sudan, in Congo, in Somalia e nello Sri Lanka, hanno continuato a fare migliaia di vittime.

Rimpatri e torture. Il Rapporto Annuale 2009 di Amnesty International propone un quadro mondiale decisamente preoccupante e i dati che emergono sull'Italia sono altrettanto inquietanti. L'Italia è ormai precipitata in una spirale di disprezzo dei diritti umani, con un accanimento discriminatorio verso le minoranze: dagli sgomberi delle comunità rom e sinti, a norme sull'immigrazione palesemente discriminatorie, dal rinvio forzato in Libia di migranti giunti sulle nostre coste, ai discutibili accordi di cooperazione con il paese africano, dal rimpatriato di due cittadini tunisini in spregio delle decisioni della Corte europea dei diritti umani, alla mancanza di parole di condanna da parte degli ultimi tre governi sul caso della rendition di Abu Omar. In Italia, inoltre, la tortura non è ancora reato e per chi ne cade vittima le leggi non hanno parole da usare per condannare in modo adeguato i responsabili, come nel caso Bolzaneto.

Insicurezza e repressione. Negli Stati Uniti l'ultimo anno della presidenza Bush è trascorso in continuità con i precedenti, con la rivendicazione di una politica di sicurezza basata sulle violazioni dei diritti umani. La nuova amministrazione ha intrapreso un cammino diverso, anche se il percorso da seguire appare ancora incerto e ricco di ostacoli. Nella seconda parte dell'anno sullo scenario mondiale si è affacciato un nuovo tema: la crisi economica. I diritti umani, già sacrificati in nome della "guerra al terrore", sono stati nuovamente messi in secondo piano da questa nuova emergenza. La recessione, oltre a peggiorare le condizioni di vita, ha alimentato l'instabilità politica e la violenza di massa ed è stata usata per giustificare una dura repressione del dissenso: dall'Iran allo Zimbabwe, dal Guatemala alla Siria, dalla Turchia alla Cina. Il clima di insicurezza ha reso ancora più vulnerabili paesi che già vivevano gravi difficoltà, dall'Afghanistan, dove il clima di instabilità ha pregiudicato l'accesso al cibo, alle cure mediche e all'istruzione, al Pakistan, precipitato in una spirale di violenza. Dobbiamo essere consapevoli che la povertà non è un accidente inevitabile ma il frutto di decisioni e politiche reversibili. La crisi che stiamo vivendo non è solo finanziaria, è una crisi dei diritti umani ed è proprio dai diritti umani che dobbiamo ripartire, nei diritti umani dobbiamo cercare la soluzione. Per queste ragioni abbiamo lanciato la nuova campagna "Io pretendo dignità", per ridare dignità ai prigionieri della povertà, affinché possano cambiare la loro vita e diventare loro stessi attori di questo cambiamento.
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venerdì, maggio 29, 2009

La lettera di Suor Marcella

Suor Marcella Catozza dell'associazione "Kay La" scrive una lettera da Haiti dove svolge la sua opera missionaria tra i poveri.

Suor Marcella è una missionaria che in questo momento opera ad Haiti presso la baraccopoli di Wharf Jeremy, che in creolo, la lingua haitiana, significa "Porto per Jeremy". E' una baraccopoli di 30mila abitanti, in cui le condizioni di vita sono estremamente difficili: non ci sono strade asfaltate, fognature, acqua potabile, luce e scuole.

Carissimi amici, eccomi a condividere con voi la bellezza che continua ad accadere nella mia vita e che mi rende sempre più certa della vocazione e quindi del compito. Intanto vi racconto come sono andate le cose da queste parti durante i mesi di marzo ed aprile. Il nostro programma per bambini denutriti ha visto entrare 32 bambini nuovi che piano piano stanno portando a termine il loro programma ed hanno già raggiunto tutti il peso forma. Abbiamo notato tempi di recupero più veloci il che è certamente dovuto al parziale miglioramento delle condizioni igienico-sanitarie della baraccopoli che ha visto arrivare l’energia elettrica anche se precaria e non continuativa, l’asfalto della strada principale e di alcune delle secondarie il che ha permesso l’ingresso più in profondità dei camion di acqua potabile, l’impiantarsi di un programma di posizionamento di filtri di acqua in luoghi comuni in modo tale da rendere bevibile ogni tipo di acqua (uno di questi grossi filtri è stato messo anche nel nostro ambulatorio e quindi la gente può portare a casa acqua potabile o filtrarsi quella che si porta da casa)… insomma tanti piccoli interventi che stanno aiutando la situazione a cambiare. Oltre a questi bimbi nuovi hanno raggiunto il peso forma anche alcuni dei nostri “vecchi” amici, Dieunise, Libenson, Dieulinson, Bickenlove, Claudine, Yovesterline, Jamesley, Jamesley, Wachnique, Ischnaider, Herdy, Magrelita, Daniel, Ducarmarie, Venol Alexis che è passato dal programma latte a quello mamba ed ha concluso anche quest’ultimo, Merlineda, Francia, Mikenson, Sedlen.
Hanno invece abbandonato il programma Esteevenson, Christina, Geraldson, Ruthania e Kervens. Abbiamo quindi portato a termine tutti i bambini accolti che sono stati in totale 256, e siamo contente dei risultati ottenuti soprattutto perché se quando abbiamo iniziato nell’ottobre 2007 l’80% dei bambini che venivano in ambulatorio erano in condizione di denutrizione grave (circa 50 al giorno ne vedevo in queste condizioni), adesso, dopo un anno e mezzo di programma, mi capita di avere due bambini a settimana al di sotto del -3…. Questo indica che il lavoro svolto ha portato i suoi frutti di cura e di prevenzione
perché sostenendo le famiglie con riso, fagioli e biscotti per gli altri bimbi e mamba per il denutrito grave, si è evitato che tutti i bimbi della famiglia raggiungessero in tempi più o meno brevi la soglia della denutrizione grave. Quindi si è arginato il problema denutrizione oltre che recuperando i casi gravi, prevenendo quelli che avrebbero potuto diventarlo e di questo ringrazio gli amici dell’Associazione KAYLA che con tanta pazienza e volontà mi hanno accompagnato e sostenuto in tutti questi mesi e ringrazio ognuno di voi che avete reso possibile questo intervento o meglio avete reso possibile che questa gente non fosse sola di fronte alla fatica della vita ma trovasse una mano a cui aggrapparsi per uscire dal fango.
Oggi 30 aprile 2009, dichiaro definitivamente chiuso i Programmi “Una speranza per Job” e “Donna non piangere”, chiusi per quanto ci riguarda perché sto proseguendo nelle trattative di affidare l’ambulatorio ad una ONG italiana che punterà soprattutto ad un lavoro di formazione con le mamme e vedrà come dare un seguito al programma per i
bambini denutriti.
Grazie quindi a tutti voi che avete reso possibile l’accadere della speranza tra i poveri di Waf Jeremie.
Ma ora il cammino prosegue…spostandosi di pochi chilometri direi… dalla prossima settimana sarò infatti nella vicina REPUBBLICA DOMINICANA, a San Pedro de Marcoris,dove il vescovo mi ha chiesto di inventarmi qualcosa per gli haitiani che arrivano clandestinamente e che finiscono a tagliare canna da zucchero negli sterminati campi domenicani. L’esperienza di tre anni in Haiti, il parlare la lingua creola haitiana ed il capire perché questa gente scappa, mi facilita l’approccio ad una realtà difficile perché gli haitiani clandestini vivono nei bateyas, agglomerati di casupole senza acqua né luce, né servizi, né scuole per i figli… in gruppi di 30-40 famiglie generalmente unite dalla parentela. Cinque quintali di canna tagliata per 5 dollari: mi raccontavano che un uomo robusto e sano taglia 5 quintali di canna lavorando dalle 5 del mattino alle 21 se la canna non è bagnata dalla pioggia. Il vescovo, monsignor Francisco Ozoria, mi affiderebbe il progetto di una clinica mobile che collegata all’ospedale della diocesi, visiterebbe ogni giorno alcune di queste bateyas con un’equipe socio-sanitaria e piano piano diventasse una presenza di Cristo tra i poveri.
Non so ancora cosa faremo, come ci muoveremo, cosa troveremo… so solo che stiamo partendo per un’altra avventura che come sempre ha il sapore dell’Eterno perché è indicata dalla Chiesa. Prima tappa sarà quindi il rendere utilizzabile una vecchia ambulanza donata alla diocesi ma completamente da attrezzare e poi… mettersi in marcia sui sentieri polverosi verso le bateyas portando una Speranza che non è nostra e che per questo è anche loro.

Spero salirete con me su questa ambulanza per il progetto:
“AIN KAREM: NEL SERVIZIO PORTARE CRISTO AI POVERI”

Vi chiederete cosa significhi…..presto fatto… Ain Karem è l’odierno nome di BEIT HA KAREM, il villaggio dove abitava santa Elisabetta che Maria va a visitare subito dopo l’annuncio dell’Angelo. Maria va dall’anziana cugina gravida per aiutarla e mettersi al suo servizio, ma andando porta Cristo nel ventre…. è la baldanzosa pretesa che abbiamo: metterci ai servizio dei più poveri ma portando loro Cristo.
I passi successivi…..che come sempre ho già in testa….. aspettano di trovare conferma nella realtà e quindi ve li racconterò nella prossima lettera.

Un caro abbraccio a tutti
Suor Marcella
Port au Prince, 30 aprile 2009
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giovedì, maggio 28, 2009

La fiaccola paolina è arrivata a Roma da Gerusalemme

Si è concluso il 27 maggio a Roma con l’ingresso in San Pietro e la benedizione del Papa il lungo viaggio della fiaccola paolina, accesa in Terra Santa da Mons. Clemens lo scorso 23 aprile

CITTA' DEL VATICANO (PapaBoys) - Correre sulle orme di San Paolo, l’evento promosso dalla “Fondazione Giovanni Paolo II per lo Sport” per onorare con spirito sportivo il Bimillenario dalle nascita dell’Apostolo delle Genti ha raggiunto così la meta, avendo collegato le due capitali della cristianità. Da Gerusalemme gli sportivi hanno raggiunto la Grecia, toccando Malta e approdando in Sicilia ai primi di maggio. Tratti sudati in bici, quindi lo Stretto di Messina attraversato a nuoto, e poi la risalita lungo Calabria, Basilicata, Campania ed il Lazio fino alla Città Eterna. Domenica scorsa l’arrivo presso la Basilica di San Paolo, antipasto dell’ultima staffetta, partita ieri da Via della Conciliazione, sede storica del Centro Sportivo Italiano, fino al Vaticano per gli ultimi 100 metri dei 1300 km percorsi. Accanto ai primi tedofori, già presenti in quel di Betlemme al momento del via ufficiale - Mons. Claudio Paganini, Demetrio Albertini, Andrea Zorzi, Andrea Cardinaletti, Padre Kevin Lixey, Massimo Achini, Edio Costantini - ieri la fiaccola è stata portata al Santo Padre anche dall’On. Rocco Crimi, sottosegretario con delega allo sport e dall’ex cappellano olimpico oggi vescovo di Fidenza, Mons. Carlo Mazza.
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giovedì, maggio 28, 2009

Venezuela e Bolivia vendono uranio all'Iran. Parola d'Israele

Un documento dell'intelligenge accusa Caracas e La Paz, che smentiscono

"Abbiamo informazioni secondo le quali La Paz e Caracas forniscono uranio all'Iran per il suo programma nucleare". Queste le parole contenute all'interno di un documento diffuso dalla stampa e prodotto dal ministero degli Esteri israeliano.


PeaceReporter - "Non avremmo voluto che questo documento uscisse allo scoperto e fosse diffuso" dice il portavoce del ministero Igal Palmor che ha aggiunto: "Ci dispiace che alcune informazioni siano venute alla luce". Il documento, diffuso come detto dalla stampa israeliana è il frutto di un lavoro dei servizi segreti di Tel Aviv e come scopo potrebbe avere quello di bloccare il processo di avvicinamento fra Washington e Teheran, passando dai rapporti fra Ahmadinejad, Chavez e Morales. Dalla Bolivia nessuna conferma alla notizia della somministrazione di uranio all'Iran. I due paesi godono di ottimi rapporti bilaterali rafforzati nel 2007 con una serie di accordi economici. Uno di questi riguarda anche "il diritto di tutti i paesi a sviluppare programmi nucleari a fini pacifici nell'ambito di un programma di non proliferazione delle armi nucleari ma come mezzo di sviluppo socio economico e tecnologico del suo popolo". Ma in Israele la pensano in modo differente. Anche le rassicurazioni iraniane sul fine esclusivamente pacifico del proprio progetto nucleare non fanno cambiare idea a Tel Aviv.


Nel frattempo dalla Bolivia il ministro de Mineria, Alberto Echazù fa sapere che nel paese non si produce uranio. Esiste un'azienda privata nella provincia di Santa Cruz che estrae un minerale, la tantalite, al cui interno si trovano minime percentuali di uranio. Echazù è stato anche più categorico sottolineando che la Bolivia non ha mai prodotto, e per il momento non ha intenzione di produrre uranio. Ci si chiede come faccia a esportarlo in Iran.
"Se esiste un'informativa di un'agenzia di sicurezza israeliana che segnala questa cosa, semplicemente sospettiamo che i servizi d'intelligence israeliani soffrono di una severa crisi di capacità" dice il cancelliere boliviano Juan Ramon Quintana.

Il documento israeliano, però, mette in mezzo anche il Venezuela dell'istrionico presidente Hugo Chavez. "Le relazioni fra Venezuela e Iran sono particolarmente strette" dice ancora la documentazione israeliana che continua:"Caracas aiuta Teheran a schivare le sanzioni concedendo salvacondotti di viaggio a cittadini iraniani, permettendo loro di spostarsi con la più totale impunità in tutti gli Stati dell'America Latina". Non solo. Forse per dare maggiore eco alla notizia gli israeliani sostengono che Chavez stia aiutando la nascita di gruppi Hezbollah nel nord del Venezuela e nella prestigiosa e turistica Isla Margarita. Da Caracas al momento le bocche sono cucite. E c'è anche chi giura che Venezuela e Bolivia possano solo essere i tramiti di questa operazione commerciale. E allora chi ci sarebbe dietro l'estrazione e la vendita di uranio a Ahmadinejad? La risposta è difficile e nemmeno gli israeliani sanno da che parte iniziare. "Non siamo in grado di confermare l'indiscrezione" dicono i portavoce del ministero degli Esteri di Israele. Però intanto mettono le mani avanti. Non si sa mai.

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giovedì, maggio 28, 2009

La polizia spara sulla folla, gravi sei donne tibetane

Nella contea di Tawu è in progetto una grandiosa diga idroelettrica, ma dovranno essere trasferiti decine di migliaia di tibetani. Quando la folla protesta, la polizia apre il fuoco. Intanto continuano le condanne al carcere a vita per chi ha protestato nel marzo 2008.

Dharamsala, Tibet (AsiaNews) – La polizia cinese apre il fuoco contro un gruppo di tibetani che nella contea di Tawu (prefettura di Karze nel Sichuan) protesta in modo pacifico contro la costruzione di una diga e ferisce in modo grave sei donne. Le autorità vogliono costruire un’imponente diga idroelettrica tra le contee di Tawu e Nyagchu, che prevede lo spostamento di decine di migliaia di residenti. I locali non vogliono lasciare la terra abitata dagli avi e denunciano che le autorità all’inizio del 2008 li hanno costretti con la forza a firmare un atto di assenso.Per "trattare" con gli oppositori, il 5 maggio le autorità hanno inviato un forte contingente di poliziotti, che ha distrutto diverse case.

Urgen Tenzin, direttore esecutivo del Tibetan Centre for Human Rights and Democracy (Tchrd), spiega ad AsiaNews che la mattina del 24 maggio le autorità cinesi hanno organizzato un incontro con i residenti per parlare della diga e “nel corso dell’incontro hanno detto agli abitanti che sarebbero stati spostati in un’altra zona. Questa notizia ha provocato proteste spontanee e molti hanno urlato che si rifiutavano di andare via. Subito la polizia ha aperto il fuoco contro i dimostranti non violenti e disarmati e ha ferito sei donne”. Le donne, identificate per Tsering Lhamo, Rigzin Lhamo, Dolma, Kelsang, Dolkar e Khaying, sono state portate via dalla polizia e se ne ignorano le attuali condizioni.

Tenzin commenta che “uno sviluppo [economico] deve portare benefici alla popolazione, non costringerla a lasciare le case e alienarla dalle proprie radici e minacciarne il sistema di vita. Queste misure contro una protesta verbale è una palese violazione dei diritti umani”. (continua a leggere)

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giovedì, maggio 28, 2009

Bangladesh, donna frustata a sangue per una fatwa del villaggio

Chiedeva il riconoscimento della paternità; il figlio è nato in seguito a una relazione extraconiugale. I giudici del villaggio definiscono giusta la punizione perché in accordo con i dettami del Corano. Attivisti per i diritti umani definiscono la vicenda “un sordido esempio di discriminazione sociale” e chiedono norme a tutela della donna.

Dhaka, Bangladesh (Asia News) – Frustata a sangue fino a svenire per aver chiesto il riconoscimento della paternità del proprio figlio, il cui padre sarebbe un uomo già sposato e con prole. È quanto accaduto a una ragazza-madre in un villaggio del Bangladesh, condannata da una fatwa emessa dal capo tribù per “falsa testimonianza”. Un’attivista per i diritti umani definisce il caso “un sordido esempio di discriminazione sociale” causato dalla mancanza di leggi a tutela della donna e di "un’evidente disparità nei diritti”. Rahima Akter è ricoverata al Medical College Hospital di Dhaka dopo essere stata punita pubblicamente, in base a una sentenza emessa da un giudice islamico che l’ha condannata a 100 frustate. Il fatto è avvenuto nel villaggio di Noagon, situato nel sottodistretto di Daudkandi, nel Bangladesh orientale.


In un’intervista ad AsiaNews, Rasheda Begum – madre di Rahima – racconta la vicenda: “Alle 8 di sera del 22 maggio – riferisce la donna – è iniziato il processo contro mia figlia, presieduto dal mullah del villaggio. Mia figlia ha spiegato di aver intrapreso una relazione extraconiugale con Abdul Karim, sposato e padre di tre figli, in seguito alla quale è nato mio nipote, Ramzan”. In precedenza la giovane madre aveva rivendicato la paternità, senza mai ottenere il riconoscimento del figlio.

Rasheda (nella foto) spiega che il processo si è tenuto nella scuola islamica del villaggio e ad assistere vi erano “fra le 200 e le 400 persone”. “Mia figlia – continua la donna – ha giurato sul Corano che il padre era Karim, ma l’uomo ha negato con forza, giurando anch’egli”. I giudici hanno dato ragione all’uomo – secondo l’islam la testimonianza di un maschio vale più di quella di una femmina – condannando Rahima a cento frustate. Dopo 39 colpi la ragazza ha perso conoscenza; in un primo momento i genitori hanno portato a casa la figlia, ma le gravi ferite subite hanno reso necessario il ricovero in ospedale. I leader del villaggio hanno intimato alla famiglia di non sporgee denuncia alla polizia, minacciando ritorsioni.

Il medico curante – interpellato da AsiaNews – riferisce che “le condizioni della ragazza sono apparse fin dall’inizio serie: ero scioccato da tanta brutalità”. Il 26 maggio tutta la famiglia è stata trasferita al policlinico di Dhaka per effettuare il test del Dna; le autorità sanitarie hanno impedito l’ingresso a estranei “per ragioni di sicurezza”. La polizia assicura indagini approfondite e ha già arrestato “tre delle sei persone incriminate per il fatto”. Essi sono: Moulana Abul Kashem, 55 anni, Abdul Karim, il presunto padre 35enne e Shah Alam, 50 anni. Le forze dell’ordine sono sulle tracce degli altri tre indagati, ma il caso presenta diverse difficoltà perché l’ordinamento giuridico non prevede leggi specifiche in materia di fatwa emesse dai dottori islamici.

Attivisti per i diritti umani definiscono vergognosa la vicenda. Khushi Kabir, coordinatrice di una organizzazione per i diritti umani che aiuta le famiglie povere, sottolinea che “non vi sono leggi che regolano le sentenze emesse dai tribunali islamici” e vi è anche “carenza di normative sulla definizione della paternità”. L’attivista giudica la vicenda di Rahima “un altro sordido esempio di giovane donna vittima di grave ingiustizia”. Sarah Hossain, avvocato e attivista per i diritti umani, bolla il fatto come “discriminazione sociale contro le donne” causata dalla “mancanza di norme specifiche”.

L’uguaglianza tra uomo e donna è ancora un miraggio in Bangladesh, dove la cultura patriarcale prevale sulle politiche a favore dell’emancipazione femminile e le stronca sul nascere. Nonostante le aperture del governo e delle forze sociali, ulema ed esperti di legge islamica si sono sempre opposti all’eguaglianza dei sessi, perché incompatibile con il Corano e la Sunna – gli atti e i detti del profeta. In Bangladesh vi sono inoltre numerosi casi di donne sfregiate dall’acido perché osano ribellarsi al marito o rivendicano maggiore giustizia sociale: dal primo caso documentato nel 1967, vi è stata una progressiva escalation. Dai 47 casi del 1996, ai 130 del 1997 e 200 nel 1998. solo nel 2002 sono state più di 480 le donne sfigurate dal vetriolo. (continua a leggere)

di William Gomes

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giovedì, maggio 28, 2009

Assisi: corsi francescani per i giovani

I Frati francescani propongono ai giovani corsi di quattro-cinque giorni per scoprire la propria vocazione: corsi che si svolgono tutto l'anno ad Assisi ed in altre città italiane, occasione per un autentico incontro con Dio nella spiritualità di Francesco e Chiara.

Radio Vaticana - Ma come avvicinare i giovani? Al microfono di Alessandra De Gaetano risponde l’iniziatore dei corsi, padre Giovanni Marini.

R. – Quando si fa pastorale giovanile bisogna avere bene in mente alcune cose. La problematica prima è: come avvicinarli, come motivarli al bene, a fare un cammino per crescere, per maturare, soprattutto nell’amore e nella scoperta della propria vocazione? Poi dopo, c’è un secondo grande tema: come evangelizzare la vocazione, cioè come portare un giovane a fargli capire che lui sta dentro ad un progetto grandioso che parte da Dio? Quando un giovane lo scopre gli si aprono orizzonti nuovi, si rinvigorisce, riparte l’energia, si riorganizzano forze per pervenire alla meta.

D. – Cosa cercano i giovani e cosa trovano nei corsi e nei percorsi di Assisi?


R. – I giovani chiedono il senso della loro vita, come fiorire. Purtroppo, per la cultura si trovano impelagati in tante problematiche, ma chiedono sempre questo: la felicità. E la felicità dove sta? Quando sto faccia a faccia con Dio, nel luogo che lui ha pensato per me. Allora bisogna capire che le generazioni si susseguono, le difficoltà cambiano, ma la meta del cuore dell’uomo rimane sempre quella: vuole la felicità, vuole la fioritura del suo essere. Quando sai presentare il Signore, quando sai calare nella confusione che portano dentro e sai far entrare la luce, prima o poi arrivano a capire che l’essenza è fare la volontà di Dio, cioè scoprire il suo progetto e stare là dove tu hai la benevolenza di Dio e con la certezza che la tua vita fiorirà.


D. – Nel percorso di vita di ogni uomo, alla scoperta della propria vocazione, spesso si ha la necessità di essere sostenuti da una guida spirituale. Cosa fa esattamente questo sacerdote?


R. – La guida spirituale deve farla, prima di tutto, una persona che ama la tua libertà e la rispetta. E’ una persona che deve conoscere il mondo psichico umano. Poi, dopo, ci vogliono i personaggi biblici. I personaggi biblici nella Bibbia sono tratti di strada in cui la Bibbia ti garantisce che questa relazione è sana, fatta con Dio.


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giovedì, maggio 28, 2009

Tanzania: aggredita a colpi di machete un'anziana suora

La polizia è accorsa al monastero, ma non ha trovato nessuno degli assalitori. Nelle 48 ore successive, tuttavia, almeno dodici persone sono state arrestate per l'accaduto.

Radio Vaticana - Non si placano gli attacchi contro le religiose e i religiosi cattolici nel mondo. L'ultima notizia è il ferimento a colpi di machete di un'anziana suora in Tanzania da parte di un gruppo di 25 malviventi, entrati nel convento in cui vive a scopo di rapina. Armati di coltelli, fucili e bastoni, hanno fatto irruzione nel monastero di Santa Maria degli Angeli di Mwanza e hanno colpito più volte alla testa e alla schiena suor Mary Noel con la parte piatta di un machete. I malviventi - riferisce l'agenzia Zenit - hanno picchiato anche alcuni lavoratori del convento delle Clarisse Povere e quattro anziane accudite dalle religiose, rubando denaro e telefoni cellulari. La polizia è accorsa al monastero, ma non ha trovato nessuno degli assalitori. Nelle 48 ore successive, tuttavia, almeno dodici persone sono state arrestate per l'accaduto. L'assalto ha reso ancora più vulnerabili le suore, visto che almeno otto porte del convento sono state distrutte o danneggiate. Suor Mary Assumpta, la badessa incaricata delle 45 suore del monastero, ha fatto appello all'associazione caritativa Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) per sostituire le porte. L'associazione ha disposto l'invio urgente di aiuti per 1.600 euro. ACS ha donato al convento anche 6.000 euro per garantire un sistema che fornisca elettricità al convento sfruttando l'energia solare. (R.P.)

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giovedì, maggio 28, 2009

Rapporto di Amnesty: diritti umani più violati per la crisi

La crisi economica globale da una parte ha distolto l’attenzione dai conflitti nel mondo, dall’altra ha generato nuove gravi violazioni dei diritti umani.

Radio Vaticana - E’ quanto rileva il rapporto annuale 2009 di Amnesty International presentato ieri a Roma, che fotografa la situazione dei diritti umani nel mondo e che contiene capitoli su oltre 150 Paesi. Servizio di Francesca Sabatinelli (ascolta):

Dopo l’11 settembre 2001, i diritti umani sono stati messi in secondo piano dalla Guerra al terrore; oggi accade di nuovo a causa della crisi economica globale che nasconde “un’esplosiva crisi dei diritti umani che è una bomba ad orologeria sociale, politica ed economica”. Il Rapporto di Amnesty International spiega come anche nel 2008 si sia tradita o negata la dignità umana. “Il rischio è che la recessione porti con sé maggiore repressione” spiega l’organizzazione, perché “miliardi di persone sono private di sicurezza, giustizia e dignità.
La crisi che le colpisce ha a che fare con la mancanza di cibo, di lavoro, di acqua potabile, di terra e di alloggio”. Tra gli esempi più evidenti: la negazione a comunità indigene, come quelle di Brasile, Messico e India, del diritto fondamentale a una vita dignitosa; gli sgomberi forzati di centinaia di migliaia di persone da insediamenti abitativi precari o terreni agricoli; l’aumento dei prezzi e dunque l’uso del cibo come arma politica in Paesi come Corea del Nord, Myanmar o Zimbabwe; o l’adozione di politiche restrittive come reazione alla pressione migratoria da parte di Paesi di destinazione e di transito. Capitolo che riguarda da vicino l’Italia, che sarà considerata responsabile, avverte Christine Weise, neo-presidente di Amnesty Italia, di ciò che accadrà ad ogni persona che verrà rimandata in Libia dove, spiega ancora il Rapporto, non esiste procedura d’asilo e dove si praticano torture e maltrattamenti. Christine Weise:

“Dobbiamo renderci conto che la crisi economica nei Paesi poveri ha effetti assolutamente devastanti; dove la povertà è accentuata da violazioni dei diritti umani e dove la povertà è anche causa di violazioni. Chi è povero non ha accesso all’istruzione che gli darebbe i mezzi per combattere le violazioni e affermare i propri diritti. Bisogna combattere gli effetti devastanti della crisi, migliorando i diritti umani. Chiediamo, per esempio, agli Stati Uniti di ratificare il Patto internazionale sui diritti economici e sociali e culturali. E’ un patto del 1966! Chiediamo, per esempio, alla Cina di ratificare invece il Patto internazionale sui diritti civili e politici: anche quello è un patto del 1966 …”.
Nel rapporto si evidenzia non solo come i Paesi del G20, pur presentandosi come “soggetto nuovo, in tema di diritti umani dimostrino di avere un approccio vecchio e fallimentare”, ma come proprio in questi Paesi si verifichino il 78% delle esecuzioni, il 79% delle torture e dei maltrattamenti, il 47% dei processi iniqui, il 74% delle detenzioni illegali. Il rispetto dei diritti umani, spiega l’organizzazione, è anche la chiave per far uscire le persone da quella trappola che è la povertà che stringe quei 963 milioni di persone che ogni sera vanno a dormire affamate. Anche a loro è dedicata la nuova campagna di Amnesty International: „Io pretendo dignità”. Daniela Carboni, direttrice ufficio campagne e ricerca:
“La dignità può significare tante cose: per chi vive nel delta del Niger, può significare vivere in un ambiente pulito e poter godere, almeno in parte, della ricchezza che le estrazioni petrolifere producono. Per le donne che non riescono ad avere accesso all’assistenza necessaria per non correre rischi addirittura di morte durante la gravidanza e il parto, significa poter andare negli ospedali quando serve e andarci a prescindere dal fatto che se lo possano permettere economicamente o no. E per chi vive negli insediamenti abitativi precari, significa poter raccontare che cosa comporta crescere una famiglia in questi insediamenti e poter chiedere una sistemazione diversa e adeguata”.
... (continua)
giovedì, maggio 28, 2009

Un approccio diverso alla santità

del nostro redattore Carlo Mafera

Per secoli la Chiesa ha perseguito e indicato come ideale di santità il martirio, la verginità e la missione. I più grandi santi avevano una visione riduttiva del matrimonio, come Tertulliano che considerava le donne “porte del demonio”. S. Agostino insegnava che il rapporto sessuale era deplorevole e Gregorio di Nissa sosteneva che il matrimonio era la prima cosa da abbandonare. Un interessante articolo di Luciano Moia sull’Avvenire di qualche anno fa mise in evidenza questo tema. Egli affermò che “la castità permette di accumulare punti preziosi per conquistare una poltrona tra gli eletti mentre la vita coniugale finisce per risultare penalizzante. E infatti tra i santi, sono pochissimi i mariti e pochissime le mogli…. Nessuno di loro, soprattutto, è stato canonizzato per la santità nella sua vita familiare e coniugale”. Fino a non molti anni fa il pensiero teologico della Chiesa privilegiava sempre la condizione celibataria considerata come vocazione più alta. Solo con Giovanni Paolo II la Chiesa ha sentenziato la pari dignità delle due vocazioni: quella nuziale e quella celibataria. Si respira ormai un atteggiamento profondamente diverso, teso alla valorizzazione del matrimonio e della famiglia, luogo privilegiato per l’espressione dell’amore nella sessualità e nella fecondità. A questo punto anche i processi di canonizzazione dovranno cambiare impostazione e dovranno essere dotati di strumenti più diversificati e consistenti, considerata la complessità e la particolare competenza in materia. Da ora in poi l’esame dell’eroicità delle virtù deve essere fatto in relazione anche alla dimensione carnale. Per i postulatori delle cause dei Santi dovrebbe venire in aiuto, ad esempio, l’affermazione del compianto Giovanni Paolo II: “Le relazioni carnali della tenerezza e il linguaggio del corpo esprimono il patto coniugale”. Già nel passato esisteva una tradizione teologica che sosteneva e valorizzava l’atto sessuale come espressione della tenerezza coniugale in cui la carnalità rivestiva un ruolo essenziale e diventava segno di un’alleanza vitale e in questo filone si inserisce il pensiero teologico contemporaneo. “Riscoprire – afferma Luciano Moia nel suo articolo - … la ricchezza della sessualità coniugale in un’ipotesi di santità, servirebbe inoltre a smascherare la sistematica banalizzazione del sesso da parte dei mass-media, la sessuomania culturale della nostra postmodernità che, idolatrando la carne, offende lo spirito”. Questa corrente di pensiero teologico trova fondamento su quello che è il concetto fondamentale che la Chiesa esprime riguardo al corpo. Questo non è svalorizzato ma anzi viene integrato inscindibilmente con l’anima tanto che il cristianesimo, unica tra tutte le religioni, predica una resurrezione finale anche del corpo non escludendolo da nessuna delle esperienze terrene ed escatologiche come si potrebbe pensare con un approccio superficiale e dettato dal senso comune.
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mercoledì, maggio 27, 2009

Karadzic, difesa psicologica

Un faldone di 140 pagine. Tante, ma potrebbero non essere sufficienti se si parla di Radovan Karadzic, l'ex leader dei serbi di Bosnia, presidente di quella repubblica Srpska nata dalle ceneri della ex-Jugoslavia nel sanguinoso conflitto all'inizio degli anni Novanta.

Peace Reporter - Memoria difensiva. Il documento è stato presentato lunedì scorso dal collegio di difesa di Karadzic alla Corte Penale Internazionale dell'Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia che deve giudicarlo per undici capi d'accusa tra cui crimini di guerra, genocidio e crimini contro l'umanità. La difesa di Karadzic, arrestato a Belgrado il 21 luglio 2008, dopo tredici anni di latitanza, chiede che il processo venga invalidato e le accuse a carico del suo assistito cancellate, con la conseguente immediata scarcerazione del 64enne psichiatra, con la passione per la poesia. La motivazione? Molto semplice: Karadzic non è mai stato latitante, ma ha semplicemente seguito alla lettera l'accordo sottoscritto con il diplomatico Usa Richard C. Holbrooke, mediatore ai tempi del conflitto nella ex-Jugoslavia. Karadzic, in cambio dell'immunità per quanto ordinato ai suoi uomini ai tempi della guerra, doveva abbandonare la scena politica nel 1996, scomparendo nel nulla e permettendo così la firma degli Accordi di Dayton che, sotto l'egida Usa, chiudevano il conflitto nei Balcani.

Patto con il diavolo. "Se il tribunale dovesse appurare che l'accordo-Holbrooke é vincolante, dovrebbe annullare il procedimento giudiziario", hanno concluso i difensori di Karadzic.
Nella memoria difensiva, gli avvocati di Karadzic citano testimoni diretti dell'accordo con Holbrooke, tra cui l'ex speaker del Parlamento serbo-bosniaco, Momcilo Krajisnik, e l'ex ministro degli Esteri, Aleksa Buha, ma anche documenti e lettere che ne proverebbero la veridicità. Nel documento, inoltre, chiedono alla Corte di tenere un'udienza speciale per stabilire la verità circa un incontro che sarebbe avvenuto a Belgrado il 18-19 luglio1996 tra lo stesso Holbrooke e Karadzic, nel quale sarebbe stata promessa l'immunità al leader serbo-bosniaco. Questa versione dei fatti era emersa subito dopo l'arresto di Karadzic, ma Holbrook, oggi inviato speciale dell'amministrazione Obama per Afghanistan e Pakistan, ha sempre smentito.

Storia imbarazzante. Quando Karadzic venne arrestato, su un tram di Belgrado, città nella quale si muoveva nei panni di un certo Dragan Dobic, identità con la quale si era rifatto una vita come guru del salutismo, l'avvocato dell'ex leader serbo-bosniaco, Svetozar Vujacic, aveva denunciato come al suo assistito fossero stati sottratti il computer portatile e cinquanta tra dvd e cd-rom pieni di foto, documenti e testimonianze. "Il materiale rubato rappresenta un elemento necessario per la sua difesa, e non solo per i suoi personali interessi, ma anche - come sottolineato dallo stesso Karadzic - per la difesa della Republika Srpska e della Serbia stessa", commentò Vujacic, che tenne a sottolineare come nell'arresto fossero coinvolti dirigenti serbi molto interessati a far scomparire quei documenti oggi compromettenti per molti di loro.
Sono poche le possibilità che il collegio di difesa di Karadzic ottenga la scarcerazione, perché il tribunale dell'Aja istituto dalle Nazioni Unite ha giurisdizione erga omnes e può quindi giudicare per reati che offendono l'umanità tutta, al di là di eventuali accordi d'immunità concessi da singoli governi. La mossa, in realtà, sembra un chiaro messaggio politico per Holbrooke, l'amministrazione Clinton che all'epoca governava negli Usa e alcuni dirigenti serbi che ai tempi del conflitto si possono essere macchiati di colpe che hanno tutto l'interessa a nascondere. Karadzic, si sa, con la psiche degli uomini ci sa fare.

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mercoledì, maggio 27, 2009

Smart drugs per superare la maturità

Sostanze in grado di aumentare le capacità cognitive, ma con effetti devastanti sulla memoria

La Stampa - Si chiamano smart drugs, ma in Italia sono meglio conosciute come le droghe-furbe, sostanze legali ma molto pericolose. Queste droghe low-cost, facilmente reperibili su Internet o negli smart-shop, sono diventate lo sballo preferito dai giovani nelle discoteche e nelle palestre. E adesso anche l'"aiutino" di chi deve affrontare l'esame di maturità. Dalla comunità scientifica del Cnr scatta l’allarme per gli esami dopati. Se in passato per resistere alle nottate sui libri gli studenti si limitavano ad aumentare la dose quotidiana di caffè, confidando nelle sue proprietà stimolanti, oggi infatti, in prossimità di una prova d’esame, alcuni fanno ricorso a questi composti di origine vegetale o sintetica dall’effetto dopante. E devastante. Perchè, spiegano i neuroscienziati, se nell’immediato regalano una maggiore efficienza mentale, dopo qualche giorno gli effetti svaniscono, provocando dipendenza e danni gravi alla memoria.

«I cosiddetti nootropi (dal greco noos=mente e tropein=verso) o cognitive enhancers, sono prodotti in grado di aumentare le capacità cognitive. Questa categoria -spiega Anna Lisa Muntoni dell’Istituto di neuroscienze (In) del Cnr di Cagliari- comprende svariate sostanze psicoattive, sia di sintesi che naturali, efficaci non solo nei pazienti con disturbi neurologici o cognitivi, per i quali sono nate, ma anche in persone sane». «In pratica, l’uso delle ’smart drugs’ -prosegue Muntoni- migliora i processi cerebrali che sottendono l’attività mentale come attenzione, concentrazione, percezione, apprendimento, memoria, linguaggio, motivazione, capacità organizzativa e decisionale». Ma sempre più spesso questi farmaci sono assunti al di fuori della prescrizione medica. «Stimolanti come metilfenidato, destroanfetamina e modafinil, normalmente prescritti per la terapia del disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Adhd), dell’autismo e di disturbi del sonno -prosegue Muntoni- si possono acquistare anche online e vengono presi in dosi massicce dagli studenti, soprattutto alla vigilia degli esami».

«Queste sostanze -spiega ancora la neuroscienziata del Cnr, Muntoni- agiscono fondamentalmente aumentando i livelli cerebrali dei neurotrasmettitori dopamina e noradrenalina. In questo modo, da un lato migliorano le capacità di concentrazione e di elaborazione delle informazioni, i livelli di allerta e di attenzione, la motivazione allo studio, e, dall’altro, riducono le sensazioni di sonno, fame e fatica. Di qui la tendenza ad abusarne per migliorare le proprie prestazioni e prendere voti più alti». Un’abitudine insana e pericolosa poichè per la maggior parte di tali droghe non si conoscono gli effetti a lungo termine nei soggetti sani. «In generale, disturbano i meccanismi del sonno -precisa la ricercatrice dell’In-Cnr- vanificando dopo qualche giorno la loro azione e mettendo a repentaglio la memoria. Una buona qualità del sonno è infatti indispensabile per immagazzinare le informazioni e consolidare i ricordi».

E i pericoli non finiscono qui. «Altri effetti collaterali -riferisce Muntone- sono rappresentati da diminuzione dell’appetito, perdita di peso, ansia e irritabilità. Per quanto riguarda il problema della dipendenza, gli stimolanti metilfenidato e anfetamina, amplificando le azioni della dopamina, rendono più interessanti e gratificanti lo studio e le attività quotidiane e ciò può portare all’uso compulsivo e alla dipendenza».

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mercoledì, maggio 27, 2009

Davvero non c’è più tempo per la pace?

Per i musulmani liberali Teheran non rinuncerà al programma nucleare. «L’unica soluzione è una la rivoluzione culturale». Ma intanto gli ayatollah non staranno con le mani in mano

Tempi.it - Il test del nuovo missile terra-terra iraniano Sejil2 (duemila chilometri di gittata) e la conseguente cancellazione del viaggio in Iran del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini (programmato da Ahmadinejad proprio a Semnan, sito del provocatorio lancio sperimentale) è l’ennesima conferma dello scacco in cui versa la diplomazia internazionale davanti alle ambizioni nucleari degli ayatollah. Sotto questo profilo le analisi e le stime del Csis di Washington sulle tempistiche dell’ipotizzato raid israeliano potrebbero apparire addirittura prudenti. La pensa così l’analista di origine iraniana Wahied Wahdat-Hagh, senior fellow presso la European Foundation for Democracy a Bruxelles. «L’analisi politica è decisamente superficiale», dice Wahdat-Hagh a Tempi. «Sono convinto che l’Iran potrebbe avere a disposizione già da quest’anno la bomba atomica, sono ormai anni che vado dicendo che Teheran sta giocando la carta israeliana, nega di avere la bomba e nel frattempo guadagna tempo per costruirne una perfetta». Dello stesso parere è l’attivista iraniana Manda Zand Ervin, il cui marito è da anni in carcere per motivi politici: «Chi conosce il regime di Ahmadinejad sa bene che non abbandonerà i suoi programmi, ma sfrutterà cinicamente ogni apertura delle cancellerie internazionali per protrarre ad oltranza i negoziati. La natura del totalitarismo è la menzogna e l’arbitrio. Teheran rinnegherà ogni parola data e sono convinta che continuerà la sua corsa verso la produzione di armi atomiche».
Di diversa opinione è l’iraniana Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, che ritiene un eventuale attacco alla Repubblica islamica un errore poiché andrebbe a colpire fondamentalmente i civili. Auspicabile, invece, sarebbe «un sostegno occidentale a una rivoluzione dal basso con ingenti investimenti a livello culturale ed economico».

«Peggio di così è impossibile»
Altro punto dell’analisi del Csis contestato da molte personalità liberali del mondo musulmano è la prospettiva di una instabilità generalizzata nella regione mediorientale a seguito dell’eventuale attacco israeliano. «Non condivido questo scenario», spiega a Tempi l’intellettuale iracheno residente a Londra Abdulkhaliq Hussein. «Conflitti e terrorismo sono già presenti nell’aerea e sono alimentati e sostenuti proprio dall’Iran, oltreché dalla Siria. Per anni Teheran e Damasco hanno favorito e appoggiato i nemici degli Stati Uniti in Iraq e di Israele a Gaza e in Libano. I due paesi già impegnati a promuovere terrorismo e destabilizzazione in Medio Oriente. Come potrebbe andare peggio di così?». Sulla stessa lunghezza d’onda è l’oppositore siriano membro del Reform Party of Syria Farid Ghadry: «In Medio Oriente l’ascesa del terrorismo è appoggiata dai governi al potere. Non c’è dubbio che ci saranno persone che protesteranno nel caso di un attacco all’Iran da parte di Israele, ma certamente le proporzioni delle reazioni non supereranno quelle che si sono avute quando Israele ha attaccato Hamas». Mentre Abdullah al Sariji, docente di Relazioni internazionali presso l’Università del Kuwait, sostiene che perfino un avvicinamento diplomatico, un dialogo con Teheran potrebbe essere considerato un «tradimento» da parte del mondo arabo.
È naturale che tutte le voci liberali del mondo arabo-islamico contattate da Tempi preferirebbero una soluzione pacifica di questo scontro. Purtroppo, però, come spiega Wahdat-Hagh, «la pace politica necessita di nuovi sistemi politici in seno al mondo islamico e un cambiamento culturale che sfoci in un mutamento di valori in grado di determinare un cambiamento sociale». Una prospettiva che richiede molto tempo, più di quanto non ce ne vorrà all’Iran per avere la sua arma atomica. Shirin Ebadi comunque invita l’Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati a una profonda riflessione: invece di promuovere in Medio Oriente politiche a breve termine, «l’Occidente dovrebbe guardare avanti e investire sull’educazione».
Sull’educazione e su quelle persone (politici e intellettuali) che condividono i valori della libertà e della pace.
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mercoledì, maggio 27, 2009

18 anni per la Convenzione Onu sui Diritti dell’Infanzia in Italia

E’ un giorno speciale per tutti coloro che lavorano a difesa e tutela dei diritti dei bambini perché festeggiamo i 18 anni di vita della Convenzione Onu sui Diritti del Fanciullo in Italia.

Radio Vaticana - E’ una data importante anche per quei 556.1752 bambini nati nel 1991 e che quest’anno compiono 18 anni e sono quindi la prima generazione ad essere diventata grande sotto l’ombrello protettivo della Convenzione”. E’ il commento di Arianna Saulini, portavoce del Gruppo di lavoro la Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza. In occasione di questo importante anniversario ,un network di 79 organizzazioni e associazioni del terzo settore, coordinato da Save the Children Italia, sottolinea la necessità di porre la tutela e la promozione dei diritti dell’infanzia nell’agenda politica e indica gli interventi e azioni prioritarie. “La strada da fare è ancora in salita – spiega Arianna Saulini - perché non siamo ancora al punto di poter dire che a tutti i circa 10.150.0003 minori che vivono in Italia sia garantita la piena tutela di tutti i diritti sanciti dalla Convenzione”. “A novembre prossimo presenteremo un ampio rapporto di monitoraggio sullo stato di attuazione della Convenzione in Italia, supplementare a quello che il governo italiano ha da poco presentato alle Nazioni Unite, illustrando in dettaglio se e come sia rispettato oppure no questo fondamentale documento nel nostro Paese. Oggi però - continua la portavoce del Gruppo Crc - “non vogliamo lasciare passare inosservato l’importante ‘compleanno’ della Convenzione e facciamo appello a tutte le forze politiche, al Governo e alla Commissione Parlamentare per l’Infanzia, affinché sia dato seguito ad alcune azioni, leggi e provvedimenti assolutamente prioritari e necessari in materia di tutela dei diritti dei minori. Le raccomandazioni del Comitato Onu all’Italia sull’attuazione generale della Crc non sono ancora pienamente attuate”, precisa ancora Arianna Saulini. “Sarebbero infatti necessarie maggiori risorse da destinare all’infanzia e maggiore trasparenza in merito alla loro entità. Un più efficace coordinamento nell’applicazione delle politiche per la promozione e la tutela dei bambini, in particolare attraverso l’Osservatorio nazionale infanzia e la Conferenza Stato-Regioni, anche al fine di garantirne maggiore uniformità sull’intero territorio nazionale. “E’ necessario e non più procrastinabile – conclude Arianna Saulini - che il governo assicuri adeguati finanziamenti e un adeguato coordinamento con il livello regionale delle azioni e interventi previsti”. (A.L.)

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mercoledì, maggio 27, 2009

Prima Giornata mondiale della sclerosi multipla

Si celebra oggi la prima Giornata mondiale della sclerosi multipla, che colpisce due milioni e mezzo di persone in tutto il mondo.

Radio Vaticana - Si tratta di una malattia del sistema nervoso centrale che interessa soprattutto i giovani fra i 20 e i 30 anni, con un'alta componente femminile: le donne affette da sclerosi sono infatti il doppio degli uomini. Il costo sociale della malattia si aggira sui 2 miliardi e 400 milioni di euro l'anno. Su questa patologia ascoltiamo Claudio Conforti, consigliere nazionale dell'Aism, l'Associazione italiana sclerosi multipla, al microfono di Eliana Astorri (ascolta):

R. – E’ una delle più gravi malattie del sistema nervoso centrale che riguarda soprattutto la trasmissione dei segnali nervosi lungo le fibre nervose perché attacca la mielina, che è la guaina protettiva delle fibre nervose ed è il principale organo di trasmissione del segnale. E’ una malattia sulla quale c’è moltissima ricerca, in Italia. Solo l’anno scorso, sono stati investiti nella ricerca quasi 4 milioni di euro.

D. – Oggi si può intervenire per rallentare il processo degenerativo?


R. – Si può intervenire, cosa che magari 10-15 anni fa era solo agli inizi, con tutta una serie di medicamenti, di trattamenti, soprattutto i cosiddetti “immunomodulanti”, interferone e tutta la famiglia di quelli che stanno venendo dopo, e anche con tanti altri medicinali ancora in fase di sperimentazione: alcuni già in fase di sperimentazione clinica, cioè ad un passo dall’applicazione, alcuni ancora in fase di ricerca di base. Ma la ricerca è tanta e in tante direzioni diverse. Una su cui si sta investendo molto è quella sulle cellule staminali adulte.


D. – Qual è la vita sociale e lavorativa di queste persone?

R. – Negli ultimi anni, è molto migliorata. Perché? Intanto, la diagnosi è più rapida, è più sicura e i vari tipo di trattamento che oggi sono disponibili possono essere iniziati in maniera molto precoce. I trattamenti non sono risolutivi, purtroppo, ancora; però ritardano gli effetti per cui oggi quella che si chiama “qualità di vita” delle persone con sclerosi multipla, soprattutto dei giovani che hanno avuto la diagnosi da poco, è molto superiore a quello che potevano avere persone della stessa età con la stessa diagnosi 10-15-20 anni fa. Una cosa da dire sulla sclerosi multipla è che ogni caso è diverso dagli altri e quindi una generalizzazione purtroppo è impossibile. Però, la qualità di vita e quindi anche l’approccio al lavoro e alla vita sociale, alla vita familiare, è notevolmente migliorato.


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mercoledì, maggio 27, 2009

Cambiamenti climatici, prove di dialogo tra USA e Cina

Nella capitale danese si discuteranno i termini di un nuovo protocollo in sostituzione di quello di Kyoto, in scadenza nel 2012

Agenzia Misna - La Cina intende rafforzare il dialogo con gli Stati Uniti nella lotta al cambiamento climatico e vuole cooperare per ottenere positivi risultati alla conferenza sugli effetti del surriscaldamento del pianeta in programma a Copenhagen, Danimarca, alla fine dell’anno. E’ stato questo il messaggio consegnato dal primo ministro cinese Wen Jiabao alla presidente della Camera dei rappresentanti americana, Nancy Pelosi, in visita a Pechino. Nella capitale danese si discuteranno i termini di un nuovo protocollo in sostituzione di quello di Kyoto, in scadenza nel 2012, che aveva fissato un percorso da seguire per ridurre l’emissione di gas inquinanti nell’atmosfera. Secondo dati diffusi oggi dalla ‘Energy information administration’ (l’ente americano incaricato di produrre statistiche sullo stato dell’ambiente) le emissioni di biossido di carbonio (CO2), principale responsabile dell’effetto serra e quindi del surriscaldamento globale, da qui al 2030 aumenteranno del 39% se non si troveranno e concorderanno sistemi alternativi di produzione e fruizione di energia. Intanto, diverse organizzazioni non governative hanno espresso critiche e perplessità al termine di una riunione dei 16 maggiori paesi ‘produttori di inquinamento’ che si è tenuta a Parigi, in Francia, tra lunedì e martedì. In particolare, sono stati criticati gli obiettivi di riduzione dell’inquinamento fissati, considerati “modesti”, e la mancata presa di responsabilità da parte dei paesi più ricchi, principali responsabili del progressivo degrado ambientale.

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mercoledì, maggio 27, 2009

Nucleare ed energia pulita: intervista all'On. Realacci

Abbiamo intervistato l'On. Ermete Realacci sul ritorno in Italia delle centrali nucleari. Il tema è di grande attualità e molto dibattuto, ma ormai la strada del nucleare sembra essere definitivamente riaperta...

di Fabio Gioffrè

E’ recente la notizia che il Senato ha approvato definitivamente il ritorno al nucleare in Italia. E proprio nel panorama politico italiano il tema della salvaguardia dell’ambiente è sempre di grande attualità. La scelta di questo governo di riaprire la strada del nucleare in Italia è il fulcro di tante polemiche già in atto - e di altre future - nel momento della scelta dei siti. Entro 6 mesi infatti verrà stilata la mappa dei siti nucleari che sorgeranno nel nostro paese, nonché quella dei siti di stoccaggio del combustibile e di deposito dei rifiuti radioattivi. Gli esperti dicono che le scorie a bassa e media intensità rimarranno “attive” per circa 300 anni, mentre quella ad alta intensità per 250000 anni.

Sono passati più di vent’anni dal referendum che abrogò in Italia l’esistenza di centrali nucleari, era l’8 novembre del 1987. I sondaggi dicono che gli italiani di oggi sono molto più propensi alla costruzioni delle centrali di quanto non lo fossero vent’anni fa. Conoscendo però la storia recente dell’Italia e la reticenza dei cittadini a vivere vicino a potenziali fonti d’inquinamento, è probabile che l’opposizione da parte della cittadinanza sarà decisa. Anche le stesse regioni candidate potrebbero opporre resistenza alle istallazioni.

Rivolgiamo su questo tema alcune domande all’On. Ermete Realacci, Presidente onorario di Legambiente ed attualmente deputato del PD, chiedendogli un parere sulla scelta di politica energetica ‘nucleare’ operata da questo governo.

D. - On. Realacci il Partito Democratico esprime attraverso le parole del capogruppo al Senato, On. Anna Finocchiaro, un chiaro e netto “no” da parte del suo schieramento al ricorso all’energia nucleare in Italia. L’On. Finocchiaro definisce la svolta «Una scelta sbagliata e antieconomica». In molti, tra ricercatori ed ecologisti, stimano spese altissime di costruzione e gestione degli impianti. Quali sono secondo lei i motivi per cui la scelta sarebbe ‘antieconomica’ ?

R. - L’energia nucleare viene presentata dai suoi promotori come una fonte di energia che ha risolto i problemi di sicurezza, pulita, illimitata e di basso prezzo. Non è così. Aggiungo, purtroppo. Anche tralasciando i problemi di sicurezza e la questione aperta dello smaltimento delle scorie, il nucleare ha segnato il passo in questi anni nei paesi occidentali proprio per i suoi costi elevati. E’ per questo motivo che negli Stati Uniti, dove la produzione dell’energia elettrica è tutta in mano ad operatori privati, gli ordini di nuove centrali nucleari sono cessati dal 1978, da prima dell’incidente di Chernobyl. E la Germania, che pure si è data obiettivi molto ambiziosi di riduzione delle emissioni di CO2, - meno 40% entro il 2020 – ha confermato che per quella data chiuderà le sue centrali nucleari. La situazione può cambiare di molto se diverrà concreta la possibilità del nucleare di quarta generazione. Un nucleare che, come dice Carlo Rubbia, affronta alla radice molti problemi legati alla sicurezza e alla gestione delle scorie. E riduce di molto i costi. Per questo ritengo che l’Italia debba essere presente in maniera significativa nella ricerca che va in questa direzione.


D. - Il pericolo di un incidente del nucleare coinvolgerebbe il nostro paese anche se ciò si verificasse in Francia o in Svizzera. Alcune impianti si trovano non molto lontani dai confini del nostro paese, è il caso di sei centrali nucleari francesi costruite a ridosso delle Alpi. Le pongo una domanda che solitamente rientra nei cosiddetti ‘luoghi comuni’; per quale motivo non dovremmo costruire in Italia centrali nucleari quando invece siamo circondati da quelle presenti in altri paesi confinanti con l’Italia?

R. - Come dicevo prima quello della sicurezza è solo uno degli aspetti per cui il ritorno al nucleare non conviene all’Italia L’acceso dibattito che si è aperto nel paese sul nucleare rischia di produrre l’effetto di una cortina fumogena e distrarre l’attenzione rispetto alle scelte che in ogni settore l’Italia è chiamata a compiere per affrontare la sfida dei mutamenti climatici, ridurre il ricorso ai combustibili fossili, mettersi al riparo dai rischi di approvvigionamento e di aumento dei costi legati al prezzo del petrolio. Un po’ come nella storiella dell’ubriaco che cerca le chiavi sotto il lampione non perché le abbia perse lì, ma perché lì ce la luce. Senza il sostegno pubblico, infatti, l’attuale nucleare non è competitivo nei paesi occidentali. E come se non bastasse a fronte di enormi investimenti pubblici, l’Italia non vedrà un solo Kilowatt di energia elettrica prodotta con il nucleare prima di quindici anni. A maggior ragione in un momento di crisi è meglio puntare su misure che danno risultati a breve termine, sostengono e rendono più competitiva l’economia e l’aumento occupazionale. Per il nostro paese questo vuol dire puntare sul risparmio energetico, sulle fonti rinnovabili, sul recupero energetico del patrimonio edilizio esistente, sul ricambio dei beni durevoli orientato su base ambientale.

D. - Durante la votazione al Senato è mancato per quattro volte il numero legale dei votanti tra le file della maggioranza. Segno questo che nei senatori del Polo delle Libertà non vi è un pieno accordo su questa scelta. Nonostante il provvedimento sia stato approvato, il PD è riuscito ad inserire qualche emendamento “migliorativo”, tradotto in benefici compensativi, a favore degli abitanti delle future zone nuclearizzate. Lei pensa che ciò basterà a placare probabili proteste da parte dei cittadini?

R. - Non credo che sia questa la leva da opporre alle tante buone ragioni che ci sono per non volere il nucleare nucleare. Comunque quella dell’opposizione delle comunità locali sarà sicuramente un problema che chi vuole il nucleare si troverà ad affrontare. E penso che è un problema che la maggioranza ha ben presente se se si considera in campagna elettorale che in ogni regione in cui Berlusconi, o qualcuno della sua maggioranza, si trova ad andare assicura che lì non si farà una centrale....
Non sarà con la forza che Berlusconi farà digerire agli italiani una scelta costosa e sbagliata. Oltre all’errore del perseguire con la scelta nucleare è inaccettabile l’idea del Governo di scorciatoie che passino per la militarizzazione delle aree, tagliando di fatto e in barba a ogni idea di federalismo, la necessaria via della concertazione con i territori e con le regioni che non fossero disponibili ad ospitare gli impianti nucleari e i siti di stoccaggio. E’ un approccio insopportabile e lontano da quanto si fa in qualunque paese occidentale e rischia di condurci in un vicolo cieco.

Parliamo adesso di energie alternative.
L’Italia, rispetto ad altri paesi europei, non è certamente in prima fila in tema di politiche ambientali. Chi visita paesi come la Germania resta colpito dalla quantità di impianti fotovoltaici presenti su ogni edificio, a cominciare da quelli degli enti pubblici. Nonostante il territorio tedesco sia meno soleggiato dell’Italia, la Germania si è affermata nel mondo dei pannelli fotovoltaici, avendo saputo creare a monte una vera e propria industria. La legge tedesca sulle fonti rinnovabili nasce nel 1991 e ha sostenuto lo sviluppo del nuovo mercato soprattutto mediante il riconoscimento di tariffe incentivanti ai produttori di energia da tali fonti. Grazie a questa lungimiranza politica oggi la Germania è il paese leader mondiale nell'esportazione delle tecnologie ad energia rinnovabile.
In Italia è possibile installare un impianto fotovoltaico usufruendo di incentivi pubblici denominati ‘in conto energia’, opzione tra l’altro poco pubblicizzata. Sembra però che questi incentivi non siano un buon motivo per spingere la maggior parte degli italiani ad istallare i pannelli fotovoltaici.

Appare evidente la differenza di approccio tra tedeschi e italiani in tema di politica energetica. Nel confronto emerge chiaramente la diversa sensibilità manifestata tra i cittadini dei due stati nella volontà di istallare impianti fotovoltaici in ogni singola abitazione.

D. - On. Realacci, la scarsa sensibilità degli italiani è da attribuire alla mancata informazione e a politiche poco convincenti dei governi che si sono succeduti in questi ultimi anni?

R. - Sicuramente in Italia abbiamo ancora molto terreno da recuperare. Abbiamo un decimo dell’energia eolica della Germania, molti meno pannelli solari termici della piccola Austria. Soprattutto c’è un enorme campo aperto che riguarda l’efficienza energetica e il risparmio. A parità di prestazione in molti settori, dalle lampadine agli elettrodomestici, esistono prodotti che consumano anche un quarto dell’energia. Sono settori in cui le nostre imprese sono leader in Europa. Innovazione, ricerca e ricorso a quella grande energia rinnovabile e non inquinante che è l’intelligenza umana. Queste sono le risorse da mettere in campo.

D. - Negli ultimi anni si stanno diffondendo, in alcuni comuni italiani, nuovi stili di vita, sostenuti da amministrazioni “virtuose” con la compartecipazione dei cittadini e improntati sull'idea che si può vivere meglio adottando semplici misure dettate dal buon senso. Giusto per citarne alcuni, vi sono comuni (Capannori-(LU), Ponte delle Alpi(BL)) dove la raccolta differenziata raggiunge l'80% e produce occupazione; in alcuni comuni (Torraca-SA) l'introduzione dell'illuminazione con il LED ha consentito di ridurre gli sprechi di energia elettrica del 80%; a Padova, gli interventi di riqualificazione energetica consentono di ottenere un taglio nei consumi pari ad un risparmio di 600000 euro l'anno; per non parlare dei comuni, tanti, dove si sperimentano progetti per la riduzione nella produzione dei rifiuti e si investe in progetti educativi di sensibilizzazione e riduzione dei consumi. A sostegno di questi progetti, sono nate associazioni quali l'Associazione dei Comuni Virtuosi per coordinare questa rete di comuni a cinque stelle. Secondo lei, come si possono valorizzare queste esperienze a livello nazionale ?

R. - Ci sono molte amministrazioni locali, sopratutto quelle dei piccoli comuni, che rappresentano casi virtuosi per il paese. Sono piccoli comuni, ad esempio, la metà delle municipalità italiane che producono energia pulita. Tra le fonti rinnovabili la più diffusa nel Paese è quella solare. Anche in questo caso la metà dei comuni che la utilizzano sono piccoli. Seppur troppo poco diffuso, grazie al solo fotovoltaico ogni anno in Italia si risparmiano circa 98 mila tonnellate di CO2. Presente in soli 157 comuni - il 74,5% dei quali sono piccoli - l’eolico risponde al fabbisogno energetico di 2.225.000 famiglie. Anche in fatto di raccolta differenziata e riciclo, infine, i Piccoli Comuni sono la punta di diamante dell’intero Paese. Infatti, mentre la media nazionale di raccolta differenziata si attesta al 26%, nei Piccoli Comuni sale al 59%. Il 51% dei Piccoli Comuni, inoltre, promuove il compostaggio domestico per ridurre la quantità di rifiuti organici prodotti dai cittadini. Con Legambiente stiamo lavorando molto e con varie campagne per promuovere queste realtà.

Ringraziamo l'On. Ermete Realacci per le sue risposte che certamente sono servite a fare un po di chiarezza in merito al futuro energetico dell'Italia, non del tutto "verde", a cui andremo incontro nei prossimi anni.
... (continua)
mercoledì, maggio 27, 2009

Senza rispetto per il bene comune, la società non può funzionare

Illustrando la figura di San Teodoro Studita, monaco bizantino dell’VIII secolo, Benedetto XVI sottolinea l’importanza della “sobrietà di vita” per superare il problema della povertà in questo mondo, della necessità dell’obbedienza, per superare l’individualismo che pone se stessi al centro del mondo, del lavoro, “criterio per saggiare la propria devozione personale”, che produce ricchezza da destinare ai poveri.

Città del Vaticano (AsiaNews) – Imparare “la legalità, cioè la sottomissione al bene comune”, senza il quale “il tessuto sociale non può funzionare” e che serve anche a “sanare l’io dalla superbia dell’essere il centro del mondo” e quindi “resistere all’individualismo spirituale”; non “dipendere dalla proprietà, ma avere sobrietà sociale, solidale”, perché solo la “sobrietà” di vita può permettere di “superare il grande problema della povertà di questo mondo”; guardare al lavoro come “virtù spirituale particolarmente importante”, perché “chi è fervente nel lavoro lo è nei propri impegni spirituali”. Sono gli insegnamenti anche attuali che Benedetto XVI ha indicato oggi alle 20mila persone presenti all’udienza generale, alle quali ha parlato di San Teodoro Studita, monaco bizantino dell’VIII secolo, grande riformatore della vita monastica.

La sua vicenda, ha detto il Papa, ci porta in pieno medioevo bizantino, “periodo turbolento”. Nato nel 759 da famiglia nobile e pia, entrato nella vita monastica a 22 anni, Teodoro entrò in conflitto con l’imperatore Costantino VI per il suo divorzio, per cui fu esiliato nel 796. L’anno dopo, grazie alla riconciliazione con l’imperatrice Irene, fu chiamato a Costantinopoli. Ma la sua vita continuò ad essere “movimentata”, per la lotta che intraprese contro la secondo iconoclastia. Processato e incarcerato, alla fine poté rientrare a Costantinopoli, ove morì l’11 novembre 826. In tale giorno è ricordato nel calendario bizantino. E’ santo sia per la Chiesa cattolica che per quella ortodossa.

Di Teodoro Benedetto XVI ha in particolare sottolineato l’opera legata alla riforma del monachesimo bizantino. Suo “apporto caratteristico è l’insistenza sulla necessità dell’ordine e della sottomissione da parte dei monaci”. Durante gli anni della persecuzione, infatti, essi si erano spesso trovati isolati e conducevano una vita personale; “ricostituita la vita comune occorreva impegnarsi per fare del monastero una vera comunità organizzata”, “corpo di Cristo” diceva Teodoro.

“Caratteristico dei monaci sono povertà, castità e obbedienza”. Teodoro “parla in modo concreto, quasi pittoresco della povertà”. che “è dall'inizio una rinuncia alla proprietà privata, per imparare la libertà dalle cose materiali, la sobrietà”. “Essenziale del monachesimo”, essa “vale in questa forma radicale per i monaci, ma lo spirito di questo insegnamento indica la strada per noi tutti: non dobbiamo dipendere dalla proprietà, imparare la rinuncia, la semplicità, l’austerità, la sobrietà, solo così può crescere una società solidale e può essere superato il grande problema della povertà di questo mondo”.

Ricordato quanto il monaco diceva a proposito delle tentazioni contro la castità, “lotta per trovare il dominio su se stesso”, il Papa ha sottolineato che per Teodoro, la rinuncia principale è quella dell’obbedienza, che chiama anche “martirio della sottomissione”. “I monaci sono l’esempio di quanto essa è necessaria per noi stessi”. “Dopo il peccato originale c’è la tentazione di fare della propria volontà il principio fondamentale” e oggi “molte correnti spingono a un pericoloso individualismo e alla superbia spirituale”. Ma così “il tessuto sociale non può funzionare se ognuno pensa solo a se stesso”. Occorre “imparare la legalità cioè la sottomissione al bene comune, alle regole del vivere, che sole possono sanare la società” e anche “sanare l’io stesso da questa superbia dall’essere il centro del mondo”.

Al pari dell’obbedienza, “umiltà opposta a egoismo e superbia”, è l’amore al lavoro, che per Teodoro era “virtù particolarmente importante” e che definiva “criterio per saggiare la propria devozione personale”. “Chi è fervente nel lavoro lo è nei propri impegni spirituali”. Il lavoro delle mani è, “sacrificio del monaco”, “la sua liturgia”, per suo tramite “la vita monastica diventa vita angelica”, “cammino verso Cristo”. “Una conseguenza merita di essere ricordata: le ricchezze originate dal lavoro comune non andavano destinate ai monaci, ma ai poveri”. “Tutti dobbiamo imparare”.
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mercoledì, maggio 27, 2009

Ciclone Aila: almeno 200 morti e un milione di sfollati

Ha colpito lo Stato indiano del West Bengala ed i distretti costieri del Bangladesh. Migliaia di persone hanno perso la casa. Danni anche a strade, ferrovie e infrastrutture. Alcune aree restano ancora inaccessibili ai soccorsi.

Calcutta (AsiaNews/Agenzie) - Almeno 200 morti e un milione di sfollati. Sono le prime stime del passaggio del ciclone Aila che lunedì si è abbattuto sullo Stato del West Bengala in India e sui distretti costieri del Bangladesh. New Delhi afferma che i morti rinvenuti nella giornata di ieri sono almeno 68. Più alto il numero delle vittime in Bangladesh dove le vittime accertate del ciclone sono oltre 130. Il computo dei morti sembra tuttavia destinato a salire, mentre le autorità dei due Paesi hanno iniziato a prestare soccorso agli sfollati non appena Aila è calato di intensità.

In India più di 41mila persone hanno perso la casa e si trovano ora nei 109 campi di accoglienza allestiti per l’emergenza. Circa 61 mila case sono andate distrutte e centinaia di migliaia sono quelle danneggiate. Alcune zone, come l’area di Patharpratima nel distretto di South 24 Parganas, rimangono ancora inaccessibili. Il ciclone ha danneggiato strade, ferrovie e costretto al blocco dell’aeroporto di Calcutta.

Le autorità del Bangladesh parlano di 500mila persone sfollate per fuggire alle raffiche di vento di Aila che hanno raggiunto i 120 chilometri orari. Un ufficiale della task force per l’emergenza di Dhaka afferma che “un milione di persone è stato colpite dal ciclone, mezzo milione sono in rifugi di fortuna e un altro mezzo milione è stato costretto a lasciare le proprie case per motivi di sicurezza”.
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mercoledì, maggio 27, 2009

Emigrano anche i santi

del nostro redattore Renato Zilio

Una giornata splendida, un sole caldo e bello proprio come da noi: era già il primo miracolo! La gente del Sud che vive da 40 o 50 anni a Bedford (GB), con un tempo inglese freddo e piovigginoso ancora a fine maggio, lo scommetteva a occhi chiusi. Un miracolo. È la domenica in cui si celebra la festa dei santi patroni: sono una dozzina a scendere in piazza dalla chiesa della Missione cattolica italiana. Percorrono le vivaci streets nelle ore del pomeriggio in una maestosa e lunghissima processione. Ed è una marea di italiani che si riversa per le strade di questa tranquillissima città del Bedfordshire, mentre un fuoco di bombardamento copre le spalle. Don’t worry, sono i fuochi d’artificio all’ora della siesta, che ricreano il clima delle feste patronali e sconvolgono i ritmi della vita normale. Prendono di sorpresa solo gli inglesi. Per i nostri, invece, è una bella rivincita morale.

Quest’anno, poi, dopo la lunga fila di bambine vestite in bianco incoronate come reginette, vedi giovani, uomini, bambini in carrozzina, famiglie intere e tantissime donne... Ancora un altro miracolo. La comunità italiana qui è grande - uno su sette è di origine italiana - ma ormai abituata al ritmo e ai gusti inglesi. Oggi, tuttavia, l’italianità si risveglia, si compatta, si rende visibile al richiamo dei suoi santi patroni.

Li guardi avanzare alti, in legno dorato, circondati di fiori, con un’eleganza nel procedere che ti stupisce... pur anchilosati nelle loro nicchie per un anno intero! Un miracolo, ancora. Gli uomini di ogni paese dell’Irpinia o del napoletano, poi, fanno a gara per portare il loro santo per un tratto di strada, con emozione: è un privilegio conteso da un anno. Le donne di Cava dei Tirreni, invece, portano la statua della loro S.Lucia, altre quella di una dolcissima Madonna.

In fondo, i miracoli più grandi sono sempre invisibili, nascosti. Toccano il cuore. La Vergine con il bambino in braccio avanza mostrando con grazia il suo tesoro a un gruppo di ragazze pakistane, a mamme e bambini indiani, incantati davanti alle loro case a contemplare il corteo.
S. Lorenzo, diacono sensibile ai poveri, patrono di Busso, osserva dall’alto con compassione la povera gente di ogni razza e colore che si ferma davanti agli shops, stupita di vedergli accanto una graticola da barbecue.
Il nostro santo Padre Pio con la mano destra alta, energica, benedicente, passa davanti alla moschea e al suo verde minareto umilmente sorridendo. Cambiano i tempi, anche lui ha capito quanto è importante per un emigrante - a qualsiasi religione appartenga - la fede in cui è nato: una forza che spesso lo fa vivere o sopravvivere là dove arriva.

S.Antonio, migrante tra i migranti, avanza tra tutti con passo sicuro. Pur di sangue portoghese si era così ben acclimatato alla nostra terra da essere sempre scambiato per padovano! Da vero leader oggi sembra capeggiare la fede e il coraggio di questo popolo di Montefalcione, che tanto devotamente segue i suoi passi...
Eppoi viene santa Francesca Cabrini, donna forte, coraggiosa, appassionata dei nostri emigranti italiani al di là dell’oceano: un’immensa ferita aperta nella società americana agli inizi del ‘900. Con il suo drappello di suore e la sua tempra da comandante fondó per loro scuole, ospedali, orfanatrofi nella nuova patria. Viene poi S.Ciriaco, portandosi dietro un pezzo di paese di Buonvicino; S.Angelo, invece, quelli di Sant’Angelo Muxaro...

L’emigrazione è una scuola di universalità. Si impara perfino a portare in processione i santi degli altri: essi, infatti, ricordano ad ognuno che siamo tutti compagni di viaggio. Al di là di ogni fondamentalismo, del culto dell’identità o delle origini si capisce, allora, di far parte di un unico popolo in cammino verso il Regno di Dio, che è la fratellanza, la giustizia, una solidarietà più grande. Con convinzione qui lo si rivivrà, poi, in una grande festa popolare fino a notte, tra inglesi e migranti.

Camminando insieme, però, tra tante preghiere li senti commentare le ultime novità. Qualcuno parla dell’Italia. “Ma hanno perso la testa?! Riportare a casa gli emigranti! Noi qui, allora, non ci hanno mica trattato così! Ed è come quando si tagliavano le mani a chi si agrappava alla scialuppa per salvarsi!”

Così si spegne la nostra processione. Con una nota amara di umanità.
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mercoledì, maggio 27, 2009

Il bicentenario della non indipendenza

L'America Latina celebra l'indipendenza dalla Spagna. Raul Zibechi: "Al colonialismo sono subentrate le multinazionali: ancora deve arrivare il giorno della libertà"

PeaceReporter - Tra il 2009 e il 2010 nove paesi dell'America Latina - Messico, Argentina, Bolivia, Ecuador, Paraguay, Cile, Venezuela, El Salvador e la Colombia - celebrano il bicentenario dell'indipendenza dalla Corona spagnola. Per capire il senso storico, sociale, culturale che ha questo appuntamento per un continente in piena e frettolosa evoluzione, abbiamo intervistato Raul Zibechi, uno degli intellettuali più illuminati dell'America Latina. E' docente e ricercatore dei movimenti sociali alla Multiversità francescana dell’America Latina di Montevideo e membro del consiglio editoriale del settimanale uruguaiano Brecha.

Professore, che senso ha questa celebrazione per l'America Latina di oggi?

Il bicentenario non è un tema che mette d'accordo l'intera società. Il suo significato dipende dai punti di vista. Ricordiamo che poco tempo fa, nel 1992, abbiamo celebrato anche il quinto centenario dell'arrivo degli spagnoli e dal mio punto di vista non c'era nulla da festeggiare. Ed è proprio nel rapporto con questi cinque secoli che si nasconda la risposta. Ci sono due visioni del bicentenario in America Latina: quella delle classi medie, più europeista, che data la nascita dei paesi dal giorno dall'indipendenza; mentre l'altra, più indigena, più afro, che è quella che io condivido, che fa coincidere l'indipendenza con la fine di cinque secoli di oppressione. Secondo quest'ultima, le varie indipendenze ottenute dagli attuali paesi latinoamericani non furono che una continuazione di ciò che iniziò secoli prima. A causa delle decisioni prese da altri settori sociali, gli spagnoli e i creoli, la dipendenza dell'America Latina è continuata e continua tutt'oggi. Di fatto, ci sono alcune interpretazioni, come quella della Bolivia di Evo Morales, che datano l'inizio del processo indipendentista al 1780-81, ossia l'inizio dei movimenti rivoluzionari. Voglio dire, con questo, che in America Latina, ci sono due visioni che corrispondono a due settori sociali differenti, e a due forme politiche diverse.

Il ruolo della Spagna oggi in America Latina?

Anche se agli spagnoli non piace - visto che oggi su El Pais il governo afferma che la disuguaglianza del continente non è nata durante il periodo coloniale, ma nel Ventesimo secolo, tagliandosene fuori - con il modello neoliberale subentrato alla colonia, non c'è stata che una neocolonizzazione per mezzo delle privatizzazioni. Le imprese europee, Repsol in testa, hanno beneficiato di un processo di privatizzazione immane, comprando a prezzi molto bassi molti beni latinoamericani. Un esempio di ri-colonizzazione è quello che sta accadendo oggi alla cordigliera andina. Ci sono progetti minerari - miniere a cielo aperto, vengono definite, per il tipo di sfruttamento applicato - che hanno praticamente comprato il grosso delle Ande. Ci sono luoghi, come la miniera Pacua Lama alla frontiera tra Cile e Argentina, che sono completamente controllati dalle multinazionali. E se teniamo conto che lo sfruttamento minerario, nel futuro, potrebbe acquistare ben più importanza del petrolio, i conti sono fatti. Tutta la cordigliera è stata svenduta alle multinazionali. Questo il frutto dei governi neoliberali. E questa forma di neocolonizzazione è anche molto pericolosa: le miniere contaminano i fiumi, le falde acquifere, attentando direttamente alla sopravvivenza delle comunità.

Che possono fare i paesi latinoamericani? Possono sperare in un'integrazione che li traghetti verso l'indipendenza reale?

Ci sono alcuni paesi, in particolare la Bolivia, e un po' anche il Venezuela, che stanno recuperando la sovranità sulle risorse naturali, quello che ormai noi chiamiamo i beni comuni, perché sono beni di tutta l'umanità. L'acqua, il sottosuolo, le ricchezze minerali, gli idrocarburi, appartengono alla terra quindi sono di tutti. Non si possono privatizzare. Riappropriarsi delle risorse comuni, ecco il primo passo per rendere indipendente il continente dal primo mondo. Poi viene il lato economico-finanziario. Anche qui ci sono grandi novità. Brasile e Argentina, ma anche altri paesi, hanno sostituito il dollaro con peso e real, le rispettive monete, per gli scambi bilaterali. Questo è il modo per creare, poco a poco, le condizioni per raggiungere un'indipendenza economica, che non sarà totale, ma chissà fra qualche anno... Già abbiamo il Banco del Sur, potremmo avere una moneta sudamericana, il nostro euro. Già abbiamo un consiglio di difesa sudamericano, che si insediò dopo il 1 marzo 2008, quando la Colombia attaccò l'Ecuador per uccidere il numero due delle Farc, Raul Reyes. Ci sono elementi per pensare che in questo momento c'è una volontà politica di lavorare per l'indipendenza dell'America Latina.

E per l'integrazione...

Sì, ma non un'integrazione qualunque, un'integrazione politica, militare, finanziaria, che è una integrazione non subordinata a nessuno. Perché anche l'Alca potrebbe essere considerata un'integrazione, invece no. Noi abbiamo bisogno di un'integrazione indipendente dagli Stati Uniti, indipendente dal primo mondo.

Perché, dunque, questo bicentenario è importante, al di là delle tante parole che sono state e che verranno dette a conferenze e cerimonie varie?

Perché è un modo per ribadire la continuità che ci fu tra la colonia e la repubblica. Può essere un modo per imparare dalla storia, in modo da non ripeterla.
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