Per i musulmani liberali Teheran non rinuncerà al programma nucleare. «L’unica soluzione è una la rivoluzione culturale». Ma intanto gli ayatollah non staranno con le mani in mano
Tempi.it - Il test del nuovo missile terra-terra iraniano Sejil2 (duemila chilometri di gittata) e la conseguente cancellazione del viaggio in Iran del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini (programmato da Ahmadinejad proprio a Semnan, sito del provocatorio lancio sperimentale) è l’ennesima conferma dello scacco in cui versa la diplomazia internazionale davanti alle ambizioni nucleari degli ayatollah. Sotto questo profilo le analisi e le stime del Csis di Washington sulle tempistiche dell’ipotizzato raid israeliano potrebbero apparire addirittura prudenti. La pensa così l’analista di origine iraniana Wahied Wahdat-Hagh, senior fellow presso la European Foundation for Democracy a Bruxelles. «L’analisi politica è decisamente superficiale», dice Wahdat-Hagh a Tempi. «Sono convinto che l’Iran potrebbe avere a disposizione già da quest’anno la bomba atomica, sono ormai anni che vado dicendo che Teheran sta giocando la carta israeliana, nega di avere la bomba e nel frattempo guadagna tempo per costruirne una perfetta». Dello stesso parere è l’attivista iraniana Manda Zand Ervin, il cui marito è da anni in carcere per motivi politici: «Chi conosce il regime di Ahmadinejad sa bene che non abbandonerà i suoi programmi, ma sfrutterà cinicamente ogni apertura delle cancellerie internazionali per protrarre ad oltranza i negoziati. La natura del totalitarismo è la menzogna e l’arbitrio. Teheran rinnegherà ogni parola data e sono convinta che continuerà la sua corsa verso la produzione di armi atomiche».
Di diversa opinione è l’iraniana Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, che ritiene un eventuale attacco alla Repubblica islamica un errore poiché andrebbe a colpire fondamentalmente i civili. Auspicabile, invece, sarebbe «un sostegno occidentale a una rivoluzione dal basso con ingenti investimenti a livello culturale ed economico».
«Peggio di così è impossibile»
Altro punto dell’analisi del Csis contestato da molte personalità liberali del mondo musulmano è la prospettiva di una instabilità generalizzata nella regione mediorientale a seguito dell’eventuale attacco israeliano. «Non condivido questo scenario», spiega a Tempi l’intellettuale iracheno residente a Londra Abdulkhaliq Hussein. «Conflitti e terrorismo sono già presenti nell’aerea e sono alimentati e sostenuti proprio dall’Iran, oltreché dalla Siria. Per anni Teheran e Damasco hanno favorito e appoggiato i nemici degli Stati Uniti in Iraq e di Israele a Gaza e in Libano. I due paesi già impegnati a promuovere terrorismo e destabilizzazione in Medio Oriente. Come potrebbe andare peggio di così?». Sulla stessa lunghezza d’onda è l’oppositore siriano membro del Reform Party of Syria Farid Ghadry: «In Medio Oriente l’ascesa del terrorismo è appoggiata dai governi al potere. Non c’è dubbio che ci saranno persone che protesteranno nel caso di un attacco all’Iran da parte di Israele, ma certamente le proporzioni delle reazioni non supereranno quelle che si sono avute quando Israele ha attaccato Hamas». Mentre Abdullah al Sariji, docente di Relazioni internazionali presso l’Università del Kuwait, sostiene che perfino un avvicinamento diplomatico, un dialogo con Teheran potrebbe essere considerato un «tradimento» da parte del mondo arabo.
È naturale che tutte le voci liberali del mondo arabo-islamico contattate da Tempi preferirebbero una soluzione pacifica di questo scontro. Purtroppo, però, come spiega Wahdat-Hagh, «la pace politica necessita di nuovi sistemi politici in seno al mondo islamico e un cambiamento culturale che sfoci in un mutamento di valori in grado di determinare un cambiamento sociale». Una prospettiva che richiede molto tempo, più di quanto non ce ne vorrà all’Iran per avere la sua arma atomica. Shirin Ebadi comunque invita l’Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati a una profonda riflessione: invece di promuovere in Medio Oriente politiche a breve termine, «l’Occidente dovrebbe guardare avanti e investire sull’educazione».
Sull’educazione e su quelle persone (politici e intellettuali) che condividono i valori della libertà e della pace.
Tempi.it - Il test del nuovo missile terra-terra iraniano Sejil2 (duemila chilometri di gittata) e la conseguente cancellazione del viaggio in Iran del ministro degli Esteri italiano Franco Frattini (programmato da Ahmadinejad proprio a Semnan, sito del provocatorio lancio sperimentale) è l’ennesima conferma dello scacco in cui versa la diplomazia internazionale davanti alle ambizioni nucleari degli ayatollah. Sotto questo profilo le analisi e le stime del Csis di Washington sulle tempistiche dell’ipotizzato raid israeliano potrebbero apparire addirittura prudenti. La pensa così l’analista di origine iraniana Wahied Wahdat-Hagh, senior fellow presso la European Foundation for Democracy a Bruxelles. «L’analisi politica è decisamente superficiale», dice Wahdat-Hagh a Tempi. «Sono convinto che l’Iran potrebbe avere a disposizione già da quest’anno la bomba atomica, sono ormai anni che vado dicendo che Teheran sta giocando la carta israeliana, nega di avere la bomba e nel frattempo guadagna tempo per costruirne una perfetta». Dello stesso parere è l’attivista iraniana Manda Zand Ervin, il cui marito è da anni in carcere per motivi politici: «Chi conosce il regime di Ahmadinejad sa bene che non abbandonerà i suoi programmi, ma sfrutterà cinicamente ogni apertura delle cancellerie internazionali per protrarre ad oltranza i negoziati. La natura del totalitarismo è la menzogna e l’arbitrio. Teheran rinnegherà ogni parola data e sono convinta che continuerà la sua corsa verso la produzione di armi atomiche».Di diversa opinione è l’iraniana Premio Nobel per la pace Shirin Ebadi, che ritiene un eventuale attacco alla Repubblica islamica un errore poiché andrebbe a colpire fondamentalmente i civili. Auspicabile, invece, sarebbe «un sostegno occidentale a una rivoluzione dal basso con ingenti investimenti a livello culturale ed economico».
«Peggio di così è impossibile»
Altro punto dell’analisi del Csis contestato da molte personalità liberali del mondo musulmano è la prospettiva di una instabilità generalizzata nella regione mediorientale a seguito dell’eventuale attacco israeliano. «Non condivido questo scenario», spiega a Tempi l’intellettuale iracheno residente a Londra Abdulkhaliq Hussein. «Conflitti e terrorismo sono già presenti nell’aerea e sono alimentati e sostenuti proprio dall’Iran, oltreché dalla Siria. Per anni Teheran e Damasco hanno favorito e appoggiato i nemici degli Stati Uniti in Iraq e di Israele a Gaza e in Libano. I due paesi già impegnati a promuovere terrorismo e destabilizzazione in Medio Oriente. Come potrebbe andare peggio di così?». Sulla stessa lunghezza d’onda è l’oppositore siriano membro del Reform Party of Syria Farid Ghadry: «In Medio Oriente l’ascesa del terrorismo è appoggiata dai governi al potere. Non c’è dubbio che ci saranno persone che protesteranno nel caso di un attacco all’Iran da parte di Israele, ma certamente le proporzioni delle reazioni non supereranno quelle che si sono avute quando Israele ha attaccato Hamas». Mentre Abdullah al Sariji, docente di Relazioni internazionali presso l’Università del Kuwait, sostiene che perfino un avvicinamento diplomatico, un dialogo con Teheran potrebbe essere considerato un «tradimento» da parte del mondo arabo.
È naturale che tutte le voci liberali del mondo arabo-islamico contattate da Tempi preferirebbero una soluzione pacifica di questo scontro. Purtroppo, però, come spiega Wahdat-Hagh, «la pace politica necessita di nuovi sistemi politici in seno al mondo islamico e un cambiamento culturale che sfoci in un mutamento di valori in grado di determinare un cambiamento sociale». Una prospettiva che richiede molto tempo, più di quanto non ce ne vorrà all’Iran per avere la sua arma atomica. Shirin Ebadi comunque invita l’Europa, gli Stati Uniti e i loro alleati a una profonda riflessione: invece di promuovere in Medio Oriente politiche a breve termine, «l’Occidente dovrebbe guardare avanti e investire sull’educazione».
Sull’educazione e su quelle persone (politici e intellettuali) che condividono i valori della libertà e della pace.
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