La parola che nessuno voleva pronunciare è arrivata da Ginevra: “genocidio”. La commissione d’inchiesta indipendente dell’Onu ha accusato Israele di aver oltrepassato ogni limite nella Striscia di Gaza , parlando apertamente di crimini contro l’umanità.
La risposta di Tel Aviv non si è fatta attendere: un rifiuto secco, senza appello. Il rapporto viene bollato come “parziale e mendace”, un atto d’accusa che – sostiene il ministero degli Esteri israeliano – non nasce da un’analisi oggettiva, ma da un pregiudizio politico e ideologico.
Israele va oltre: definisce i tre membri della commissione “rappresentanti di Hamas”, accusandoli apertamente di antisemitismo. Un’accusa pesante, che ribalta la prospettiva: non Israele al banco degli imputati, ma l’Onu stessa , macchiata dal sospetto di ostilità verso lo Stato ebraico.
Il risultato è uno scontro frontale. Da un lato le Nazioni Unite, che con la parola “genocidio” pongono Israele di fronte alla più grave delle imputazioni; dall’altro Israele, che reagisce denunciando un attacco mirato alla sua stessa legittimità.
In mezzo, la comunità internazionale, divisa tra chi vede in Gaza l’ennesimo capitolo di una tragedia umanitaria senza fine, e chi considera le accuse come un’arma politica che rischia di banalizzare l’orrore vero della storia: la Shoah .
La partita, ora, non è soltanto diplomatica. È anche semantica, simbolica, morale. Perché quando il termine “genocidio” entra nel linguaggio ufficiale delle Nazioni Unite, non si torna più indietro. E la replica di Israele – “voi antisemiti” – suona come un monito: dietro ogni accusa internazionale, c’è sempre il rischio di alimentare l’antisemitismo globale.
Il conflitto continua, le vittime aumentano, ma sul tavolo restano due parole inconciliabili: genocidio e antisemitismo. E mentre si discute su quale sia la verità, a Gaza e in Israele il tempo continua a scorrere, scandito da bombe, sirene e silenzi che nessun rapporto ufficiale potrà mai raccontare fino in fondo.
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