giovedì, maggio 28, 2009
del nostro redattore Carlo Mafera

Per secoli la Chiesa ha perseguito e indicato come ideale di santità il martirio, la verginità e la missione. I più grandi santi avevano una visione riduttiva del matrimonio, come Tertulliano che considerava le donne “porte del demonio”. S. Agostino insegnava che il rapporto sessuale era deplorevole e Gregorio di Nissa sosteneva che il matrimonio era la prima cosa da abbandonare. Un interessante articolo di Luciano Moia sull’Avvenire di qualche anno fa mise in evidenza questo tema. Egli affermò che “la castità permette di accumulare punti preziosi per conquistare una poltrona tra gli eletti mentre la vita coniugale finisce per risultare penalizzante. E infatti tra i santi, sono pochissimi i mariti e pochissime le mogli…. Nessuno di loro, soprattutto, è stato canonizzato per la santità nella sua vita familiare e coniugale”. Fino a non molti anni fa il pensiero teologico della Chiesa privilegiava sempre la condizione celibataria considerata come vocazione più alta. Solo con Giovanni Paolo II la Chiesa ha sentenziato la pari dignità delle due vocazioni: quella nuziale e quella celibataria. Si respira ormai un atteggiamento profondamente diverso, teso alla valorizzazione del matrimonio e della famiglia, luogo privilegiato per l’espressione dell’amore nella sessualità e nella fecondità. A questo punto anche i processi di canonizzazione dovranno cambiare impostazione e dovranno essere dotati di strumenti più diversificati e consistenti, considerata la complessità e la particolare competenza in materia. Da ora in poi l’esame dell’eroicità delle virtù deve essere fatto in relazione anche alla dimensione carnale. Per i postulatori delle cause dei Santi dovrebbe venire in aiuto, ad esempio, l’affermazione del compianto Giovanni Paolo II: “Le relazioni carnali della tenerezza e il linguaggio del corpo esprimono il patto coniugale”. Già nel passato esisteva una tradizione teologica che sosteneva e valorizzava l’atto sessuale come espressione della tenerezza coniugale in cui la carnalità rivestiva un ruolo essenziale e diventava segno di un’alleanza vitale e in questo filone si inserisce il pensiero teologico contemporaneo. “Riscoprire – afferma Luciano Moia nel suo articolo - … la ricchezza della sessualità coniugale in un’ipotesi di santità, servirebbe inoltre a smascherare la sistematica banalizzazione del sesso da parte dei mass-media, la sessuomania culturale della nostra postmodernità che, idolatrando la carne, offende lo spirito”. Questa corrente di pensiero teologico trova fondamento su quello che è il concetto fondamentale che la Chiesa esprime riguardo al corpo. Questo non è svalorizzato ma anzi viene integrato inscindibilmente con l’anima tanto che il cristianesimo, unica tra tutte le religioni, predica una resurrezione finale anche del corpo non escludendolo da nessuna delle esperienze terrene ed escatologiche come si potrebbe pensare con un approccio superficiale e dettato dal senso comune.

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