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martedì, agosto 04, 2009

Il percorso di Chiara: dall’inquietudine del mondo alla pace di San Damiano

Si avvicina la ricorrenza della festa di Santa Chiara che assieme alla giornata del 'Perdono di Assisi' rappresentano le consuete celebrazioni francescane di ogni estate. In questi giorni che precedono la festa per la santa francescana la nostra redattrice Monica Cardarelli racconterà attraverso una serie di articoli la vita e la spiritualità della santa di Assisi. In questo primo articolo scopriamo come Chiara intuisce che la sua non sarebbe stata una vita comune, in lei il Signore presto inizia la sua opera.

di Monica Cardarelli


L’11 agosto 1253 Chiara muore nel monastero di San Damiano, fuori dalle mura di Assisi, dove visse per 42 anni. Il monastero delle ‘Sorelle povere’ già negli ultimi anni dell’agonia di Chiara era meta di un vero e proprio pellegrinaggio popolare. Il giorno successivo alla morte, al momento dei funerali, il papa stesso, che era presente ad Assisi quei giorni con la sua corte, propose di celebrare l’ufficio delle Vergini e non piuttosto quello dei morti, mostrando in questo modo di considerare Chiara già santa.
Solo nel mese di ottobre il papa promosse la canonizzazione di Chiara affrettando l’avvio del processo di canonizzazione, considerando anche, oltre alla devozione popolare, i numerosi miracoli avvenuti in vita e dopo la morte di Chiara. La santità di una donna come Chiara d’Assisi non può prescindere dalla sua grande umanità. Chiara era una donna cresciuta in ambiente familiare inserita nel contesto sociale ed economico di Assisi del 1200... (continua)
mercoledì, luglio 15, 2009

Donne di pace, donne per la pace

della nostra redattrice Monica Cardarelli

“A noi ragazze non è permesso esprimere ciò che pullula nel nostro animo. Eppure anche noi siamo intrise di suoni. Perché non esistono musiciste? Perché le donne non compongono musica? Perché si accontentano di lasciarla suonare dentro il loro animo, a tormentarle, a corrodere i loro pensieri? Perché non se ne liberano buttandola fuori?”. Così Cecilia, la protagonista di Stabat mater, il libro di Tiziano Scarpa a cui è stato assegnato il Premio Strega 2009, annota nel suo diario notturno rivolto alla madre che l’aveva abbandonata pochi giorni dopo la sua nascita nell’Ospitale di Venezia.

Non è mai facile né opportuno, a mio avviso, definire un libro. Dovendolo fare, per questioni di praticità, nella consapevolezza di limitarlo alle percezioni e alle sensazioni che ha suscitato in me la sua lettura, posso dire che si tratta di un racconto intimista narrato con delicatezza e senza enfasi, senza mai scadere nel malinconico. Attraverso le pagine che scorrono veloci, Tiziano Scarpa conduce il lettore in profondità nell’animo della protagonista che cresce in questo luogo ‘fuori dal mondo’, tormentata dalla sua situazione, dalla mancanza di radici di cui è alla ricerca, dalla solitudine, dalla impossibilità di crescere confrontandosi con una madre, finché non scopre che la musica non è solo intorno a lei, non solo viene insegnato a lei e alle altre ragazze a suonarla, ma è anche dentro di lei. La musica come strumento di conoscenza e di interpretazione di se stessa, delle proprie sensazioni, paure, emozioni, che le darà il coraggio di appropriarsi del suo essere e decidere la propria vita.

I pensieri di Cecilia proseguono chiedendosi: “Che cosa succederebbe, se il mondo venisse invaso dai suoni che accadono dentro l’animo delle donne?”. Ecco, cosa succederebbe se le donne, una volta acquisita la consapevolezza della propria femminilità, del proprio tratto femminile, della propria anima, avessero modo di invadere con la propria unicità il mondo in ogni sua espressione, artistica, economica, politica o giuridica? Ciò a cui mi riferisco è l’essenza propria del femminile. Quei tratti delle donne, quello sguardo sul mondo e sulla vita, quelle sensazioni, quelle emozioni e quel modo di sentire la vita e la morte che appartiene solo alle donne. Ciò che fa la differenza tra il maschile e il femminile, l’uomo e la donna nella loro differenza (che deve restare per poter esaltare l’unicità dell’altro) e nella loro complementarietà. Nell’incontro di due differenze.

“La diversità dell’uomo e della donna fonda ogni altra diversità e afferma che da soli non si vive. La Genesi conclude: ‘L’uomo non trovò un aiuto che gli corrispondesse’. (Gen. 2, 20). È l’esperienza amara della solitudine: non trovare un aiuto simile. L’aiuto che l’uomo cercava era qualcosa di superiore, simile solo a quello che Dio può dare. Questa è la storia di come la donna appare nella vita di un uomo, raccontata dalla Genesi. È la storia dell’interdipendenza dell’uno dall’altra, dell’una dall’altro.” afferma Andrea Riccardi nel suo libro “Uomo e donna sogno di Dio”.

Tutto ciò implica come punto di partenza la conoscenza del proprio carattere unico, femminile o maschile, e l’accettazione dell’altro, di quella differenza che manca per completare l’uno. Sottintende, però, anche la consapevolezza dei propri limiti e la ricerca dell’unicità dell’altro per poter accettare la complementarietà come un arricchimento e un aiuto reciproco. Infatti, come prosegue Andrea Riccardi “Non si vive da soli. Non è buono che l’uomo sia solo. Talvolta la solitudine è una forma di idolatria di se stessi; altre volte è una dura condanna che rende la vita difficile, infeconda, dura da sopportare. Non è buono quando la solitudine porta al disprezzo degli altri. Non è buono che l’uomo sia solo. L’uomo non è che l’inizio di una catena di fraternità: non c’è uomo senza donna; non c’è donna senza uomo. Quanta solitudine nella nostra stessa vita! E la solitudine vuol dire, alla fine, impotenza. Solitudine vuol dire non avere un aiuto, ma anche non poter dare aiuto. Nell’interdipendenza, invece, è scritto l’aiuto: e l’aiuto è il senso di un limite che si può superare con l’altro. È l’espressione del bisogno della differenza, quella dell’altro.”

Dando come presupposto questa consapevolezza e accettazione della diversità dell’altro per la convivenza sociale e per delle relazioni che abbiano un senso, ciò che interessa qui è come e quando si possa invadere “il mondo dai suoni che accadono dentro l’animo delle donne”.

Il ruolo della donna in vari ambiti della società, dalla politica alla teologia, dall’economia al sociale, è fondamentale ormai. Non si deve però correre il rischio di far ricoprire alle donne ruoli che vengono svolti dagli uomini, oppure pensare che le donne debbano agire come gli uomini. Questo sarebbe l’errore più grave perché svilirebbe l’animo femminile cercando di farlo diventare ‘maschile’ cosa che, per sua natura non avrebbe senso. Ma la cosa peggiore sarebbe che in questo modo non verrebbero affatto valorizzate le caratteristiche proprie del femminile, quei suoni che accadono solo dentro l’animo delle donne e che sono diversi da quelli dell’animo maschile. Non si tratta di rivendicare una parità quanto piuttosto di far conoscere il valore della femminilità nelle sue varie espressioni.

Il Governo brasiliano ha presentato il progetto “Territori di pace” che coinvolge 2.500 donne come responsabili della prevenzione dei conflitti locali e dell’uso della violenza. In Brasile, ormai, il problema della violenza locale nelle favelas, il narcotraffico, ed altre forme di violenza è pressante. I dati riportati sono di circa 45.000 omicidi l’anno. Una situazione davvero preoccupante. In questo ambito così difficile e delicato, il Governo brasiliano ha pensato ad un progetto di prevenzione svolta dalle donne. Il piano è stato lanciato alla fine del 2008 dal Governo e ora già si vedono i primi risultati. Le donne sono state selezionate e formate e ricevono un piccolo stipendio di 80 euro al mese. “La pace in un territorio dove c’è violenza è solo possibile se è nata dai propri abitanti. L’obiettivo è quello di ridurre l’insicurezza nella zona attraverso i cittadini e non attraverso la repressione della polizia.” afferma Rita Lima, coordinatrice di questo progetto. “Le strade sono asfaltate, sono state costruite nuove scuole, insomma, la tranquillità è tornata” afferma un residente in uno dei quartieri più colpiti. Questo è un piccolo, grande esempio di come si possa impiegare al meglio il femminile nella società. Perché le donne hanno uno sguardo diverso sul mondo. Agiscono e decidono diversamente da un uomo.

È bello potersi esprimere per il proprio popolo, la propria gente. È bello poter dar voce ai suoni dell’animo femminile. Perciò, è bello e arricchente per tutti, in ogni ambito della società, non dover suonare la musica scritta da uomini ma arrivare a dire con Cecilia nel suo Stabat Mater “Questa musica è fatta di donna, spargiamo nell’aria il nostro profumo speziato.”
... (continua)
martedì, giugno 30, 2009

Ogni essere vivente

della nostra redattrce Monica Cardarelli

“Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature. Laudato sii, mio Signore, per sorella nostra madre terra, la quale ci sostenta e governa e produce diversi frutti, con fiori colorati e erba.” Il Cantico delle creature è forse la più poetica espressione di lode del creato e della creazione che riconosce al tempo stesso l’utilità, l’essenzialità della natura per l’uomo: l’aria, il vento, il fuoco, il sole, la luna e tutte le espressioni del creato. Ristabilisce quindi un rapporto paritetico tra esseri viventi, una sorta di convivenza pacifica, equilibrata, in cui ognuno ha ben chiaro la propria funzione e utilità per l’altro. L’acqua, l’aria o il sole sono fonti di vita senza le quali anche l’uomo non vivrebbe.

Non penso che San Francesco abbia avuto un’attenzione particolare all’ecologia. Non è stato un santo ‘verde’, semplicemente si è sentito creatura di Dio nel creato. Per il cristiano non esiste tanto l’ ‘ecologia’ quanto il creato. Ogni forma vivente è opera della creazione di Dio. Diverso è il punto di partenza, indubbiamente di maggiore responsabilità per noi cristiani, nei nostri confronti e nei confronti delle generazioni future.

L’uomo deve riacquistare la consapevolezza di essere creatura fra le creature. L’essere umano, creato a immagine e somiglianza di Dio, non è onnipotente e deve tornare a sentirsi creatura tra le braccia di Dio, nella natura, nel creato che gli è culla e madre. L’essere umano e tutte le altre forme viventi in natura, insieme. “E’ ormai chiaro che l’anima dell’uomo fedele, che è la più degna tra tutte le creature, è resa dalla grazia di Dio più grande del cielo. Mentre, infatti, i cieli con tutte le altre cose create non possono contenere il Creatore, l’anima fedele invece, ed essa sola, è sua dimora e soggiorno, e ciò soltanto a motivo della carità.” Così Santa Chiara definiva l’anima del cristiano amante di Dio nella Terza Lettera a Sant’Agnese di Praga (21-26).

Ma anche se l’uomo è l’essere che, proprio perché creato a immagine e somiglianza di Dio, gli è più vicino e gli ‘rassomiglia’ più delle altre creature “L’hai fatto poco meno degli angeli” (Salmo 8), ciò non gli dà il diritto di dominare o sfruttare la natura in cui Dio l’ha posto. All’uomo Dio ha affidato il creato, in custodia, non come proprietà. Affidare, custodire, prendersi cura per restituire ciò che abbiamo ricevuto alle generazioni future così come lo abbiamo trovato o meglio addirittura.

Non ‘sfruttare’ o ‘utilizzare’ dunque, ma conoscere, godere e apprezzare tutto il creato con gusto e piacere, con tutti i sensi, la vista, il tatto, l’olfatto, il gusto. Essere nel creato, essere CON il creato, insieme. Tutto questo presuppone la conoscenza e l’accettazione, soprattutto, equilibrio e armonia non lotta per contrastare o dominare le forze della natura. Equilibrio e armonia; come nelle relazioni umane. Non prevaricazione sui più deboli o per dimostrare il proprio potere o la propria forza, ma accettazione dell’altro e della sua dignità come essere umano e creatura di Dio.

Solo la dignità umana ristabilisce il giusto equilibrio dell’uomo con l’uomo e con il creato e ridona all’essere umano (maschio e femmina) la dignità che gli spetta.
L’attenzione alla dignità umana ridefinisce il punto di partenza di ogni relazione sia essa personale, sociale, politica o economica e ogni relazione con gli altri essere viventi: la centralità della persona umana.
Tenendo presente questo punto di partenza dobbiamo ricordarci, ad ogni respiro, che siamo infinitamente piccoli, creature fra le braccia di Dio che ci ama con i nostri limiti, e sentire che respiriamo nel grande respiro infinito di Dio nel creato che ci contiene.
Se riusciamo poi a percepire il tempo che ci è stato donato non come un contenitore da riempire a tutti i costi di cose e fatti ma come un dono estremamente ampio, ricco, da vivere, inserito come tutto il progetto della creazione nel tempo e nel ritmo del creato, allora, in quegli attimi, siamo nel tempo senza tempo del respiro di Dio.
Potremmo, così, pregare con Francesco con le parole che concludono il Cantico delle Creature: “Lodate e benedite il mio Signore ringraziate e servitelo con grande umiltà. Amen.”
... (continua)
mercoledì, giugno 17, 2009

Solitudine, grande intima solitudine!

di Monica Cardarelli

A volte si ha la chiara percezione di essere nel tempo. Di essere e basta. Di starci dentro, appropriati. Di essere adeguati, nel tempo giusto, a proprio agio. Con se stessi, con Dio e con gli altri. Sono quei rari momenti in cui si ha la percezione, con tutto il nostro essere, di vivere. Ci sono luoghi e spazi in cui queste percezioni sono più chiare. Sono generalmente ambienti naturali che ti calmano gli occhi e il respiro, che rallentano il ritmo dei pensieri e ti avvicinano a Dio, ti fanno percepire la Sua presenza, il suo respiro.

È lì che ti senti nel mondo, all’interno di un grande contenitore, in un abbraccio caldo, tenero e accogliente come l’abbraccio di Dio.
E tu ci stai dentro e senti solo il suono del tuo respiro là dove il tempo si è fermato e lo spazio è rarefatto. Senti solo il respiro di Dio in questo grande ‘momento’ luogo/spazio insieme di cui tu, qui e ora, fai parte.
Come per una madre sentire il respiro del proprio bambino dentro di sé e allo stesso tempo sentirsi bambini nella pancia della mamma e sentire il suo respiro.
In questi rari momenti si ha l’impressione che il tempo che ti viene donato è tanto e tu puoi viverlo pienamente fino ad avere la sensazione di fermarlo, e tu con lui.
Qui, non si deve fare o dire delle cose, ma si può e si deve solo essere e ascoltare. Vivere.

“Se vi tenete alla natura, a quanto è di semplice in essa, alle piccole cose, che uno vede appena e che in maniera così imprevista possono divenire grandi e incommensurabili; se avete questo amore per l’inappariscente, e servendo in semplicità tentate di acquistarvi la confidenza di quanto sembra povero: allora tutto vi diverrà più facile, armonico e in qualche modo più conciliante, non forse nell’intelletto, che resta indietro attonito, ma nella vostra più intima coscienza, che veglia e sa.”
Sono le parole di Rainer Maria Rilke in “Lettere a un giovane poeta”, una piccola raccolta di lettere scritte al giovane scrittore Kappus fra il 1903 e il 1908, pubblicate postume, nel 1929.
In queste pagine, numerosi sono i riferimenti alla natura come luogo in cui l’uomo può sentirsi ‘dentro’ come un tutt’uno con lei. Soprattutto, il nostro equilibrio di essere vivente nel mondo dei viventi raggiunge il massimo quando si percepisce questa armonia di vita e di amore.
Ciò porta ad una conoscenza maggiore di se, della ‘più intima coscienza’ per usare le parole di Rilke e generalmente si raggiunge nei momenti di silenzio e di solitudine.

“Era tutto straordinariamente tranquillo, e l’usignolo sul carpine dominava la scena mentre io sedevo immobile osservando il bagliore a oriente farsi più intenso; straordinariamente tranquillo e bellissimo perché si associa la luce del giorno con le persone, le voci e la confusione, e le corse avanti e indietro, e lo squallore del dover lavorare per nutrire il corpo, e nutrire il corpo perché possa lavorare per cibarlo di nuovo; ma qui il mondo era ben sveglio eppure soltanto per me, l’aria fresca e pura soltanto per me, non un’anima viva ad ascoltare l’usignolo con me, tra pochi istanti il sole sarebbe sorto di nuovo per scaldare solo me, e nessuno, in nessun luogo, pronunciava una singola parola stonata, né compiva atti egoisti, nulla poteva intaccare la benedetta purezza del mondo che mi si rivelava come Dio ce lo ha dato.
D’un tratto, mentre osservavo quell’incredibile spettacolo assaporando un’intensa felicità, la certezza del dolore e della sofferenza e della morte calò come un nero sipario tra me e la bellezza del mattino, e mi assalì anche un altro pensiero, per affrontare il quale occorre tutto il nostro coraggio – la consapevolezza della tremenda solitudine in cui ciascuno di noi vive e muore.”
Così scriveva Elizabeth von Arnim in “Un’estate da sola” un piacevolissimo libro pubblicato nel 1899 in cui con uno stile leggero ed estremamente femminile, con tocco delicato ci porta mese dopo mese a scoprire il percorso dell’estate nella natura e nell’animo di Elizabeth che, per gustare tutto ciò, decide di trascorrere un’estate da sola e isolarsi dalla sua famiglia, godendo le bellezze del suo giardino, della lettura e il piacere della solitudine.

“Ieri sera dopo cena, mentre eravamo in giardino, dissi: ‘Voglio restare da sola per l’intera estate, e giungere all’essenza della vita. Voglio impigrirmi quanto più possibile, perché la mia anima abbia il tempo e l’agio di crescere. Non inviterò nessuno, e se qualcuno verrà a trovarmi gli si risponderà che sono fuori, lontana, o indisposta. Trascorrerò i mesi sui prati e nei boschi. Osserverò le cose che accadono in giardino e vedrò se e dove ho sbagliato. Nei giorni di pioggia mi addentrerò nel fitto della pineta, dove gli aghi sempreverdi rimangono asciutti, e nei giorni di sole mi sdraierò sulla brughiera per vedere la ginestra sfolgorante sul fondale di nuvole. Sarò felice, nessuno verrà a disturbarmi. Là fuori, sulla piana, tutto è silenzio e dove c’è silenzio, ho scoperto, c’è la pace.”

Dove c’è silenzio. La solitudine e il silenzio sono elementi indispensabili per la pace, la quiete interiore. Un silenzio che deve sussistere prima di tutto dentro di noi, poi al di fuori. Solo con il silenzio si riesce ad ascoltare. A percepire e conoscere. Il riposo, il ristoro giungono solo nel silenzio. Nel silenzio si può fare spazio a suoni diversi, a rumori che prima non riuscivamo nemmeno a percepire.
Nel silenzio si può veramente ascoltare. Se stessi e il mondo intorno a noi. Ascoltare e percepire quel respiro vitale e di amore dentro di noi e intorno a noi.
Quando lo si percepisce tutto acquista un ritmo diverso, dal battito del nostro cuore, il passo dei nostri piedi fino al fluire dei nostri pensieri.
Allora, in quei momenti, c’è equilibrio in noi, ritmo e armonia. Pace.

“Immenso deve essere il silenzio, in cui tali rumori e movimenti hanno spazio, e se si pensa che a tutto questo s’aggiunge ancora la presenza del remoto mare con la sua voce, quasi fosse il più intimo tono in codesta preistorica armonia, vi si può solo augurare che lasciate operare in voi fiducioso e paziente la solenne solitudine, che non potrà più essere spogliata dalla vostra vita, che in tutto quello che vi attende da sperimentare e da compiere opererà come un influsso anonimo continua e sommessamente decisiva. Sì: io mi rallegro che abbiate con voi codesta solida dicibile esistenza.” (Rainer Maria Rilke)

Troppo spesso si fraintende uno stato di solitudine con il sentimento della tristezza o con l’isolamento dal mondo.
Non si parla qui di questo quanto piuttosto della possibilità e della capacità, in alcuni momenti, di restare soli con se stessi. La solitudine ti porta a conoscerti per poter stare in mezzo agli altri, nel mondo, con una maggiore consapevolezza di ciò che sei. Ti aiuta nello sviluppare un sentimento di fiducia in te stesso e nelle tue capacità, così come nella conoscenza dei tuoi limiti. In particolare, ti pone nel giusto posto e luogo.

“Io sobbalzavo sulle radici tra le ombre che si andavano addensando, sempre più pervasa dall’unica emozione che mi rigenera, la consapevolezza di essere assolutamente sola.” (Elizabeth von Arnim)
“E se torniamo a parlare della solitudine, si chiarisce sempre più che non è cosa che sia dato scegliere o lasciare. Noi siamo soli. Ci si può ingannare su questo e fare come se non fosse così. È tutto. Ma quanto meglio è comprendere che noi lo siamo, soli, e anzi muovere da lì.” (Rainer Maria Rilke)

È interessante notare come questa consapevolezza sia riportata in modo diverso da due autori così diversi, in stili, esperienze e luoghi in cui hanno vissuto e notare come invece, in paesi diversi, abbiano vissuto e manifestato la stessa necessità e consapevolezza. Essere soli. Voler stare soli, a volte. Coltivare la solitudine come una pianticella delicata da innaffiare accuratamente perché vitale, libera anidride carbonica all’aria che respiriamo.

“Amate la vostra solitudine e sopportate il dolore che essa vi procaccia con lamento armonioso. Ma la vostra solitudine vi farà sostegno e patria anche in mezzo a circostanze molto estranee, e dal suo seno troverete voi tutti i vostri cammini.
Ma se poi vi accorgete che è grande, rallegratevene; che sarebbe infatti (domandatevi) una solitudine senza grandezza; c’è solo una solitudine e quella è grande e non è facile a portare. Questo solo è che abbisogna: solitudine, grande intima solitudine. Penetrare in se stessi e per ore non incontrare nessuno, questo si deve poter raggiungere. Essere soli come s’era soli da bambini, quando gli adulti andavano attorno, impigliati in cose che sembravano importanti e grandi.
Sempre l’augurio che possiate trovare assai pazienza in voi da sopportare e assai semplicità da credere; che possiate acquistare sempre più fiducia in quello ch’è difficile e nella vostra solitudine tra gli altri. E per il resto lasciatevi accadere la vita. Credetemi: la vita ha ragione, in tutti i casi.” (Rainer Maria Rilke)


La solitudine non deve però portare all’isolamento e soprattutto non essere fine a se stessa. Deve portare a qualcosa, a qualcuno.
Dalla solitudine della clausura, Chiara si aprì al mondo. Dal silenzio di San Damiano, giunse fino a Praga o fin dal papa che approvò la Regola di Chiara. Una ‘Regola di vita’, un testamento d’amore vissuto.

Nel silenzio della solitudine si ascolta il proprio respiro e il respiro di Dio. Nella solitudine e nel rumore del respiro si percepisce il proprio equilibrio, la giusta armonia del creato in cui siamo immersi. Creature fra creature, nell’abbraccio di tenerezza materna di Dio.
“Altissimo, onnipotente, buon Signore, tue sono le lodi, la gloria e l’onore e ogni benedizione. A te solo, Altissimo, si confanno e nessun uomo è degno di ricordarti. Laudato sii, mio Signore con tutte le tue creature.” Così inizia il Cantico delle Creature di San Francesco prima di proseguire con la lode ad ogni espressione di vita e di amore di Dio nel mondo.
Sentirsi creature nel creato. Respirare e non pensare. Essere e non fare. Vivere.
Questa sensazione di armonia, di vita e di amore ci porta ad una maggiore vicinanza con Dio e non ci è possibile non sentirla. Si percepisce e basta. Senti, là dove il tempo si è fermato e lo spazio è rarefatto, il tuo respiro e il respiro di Dio sul mondo.

“Che senso ha combattere per le cose, far tanto chiasso? La Natura impartisce chiarissimi insegnamenti e chi ha vissuto per qualche tempo a stretto suo contatto ha ben pochi dubbi sul ‘miglior modo’ di vivere. Rimanere in silenzio e recitare le proprie preghiere, non sono solo le cose migliori ma le uniche da fare per essere davvero felici; e da parte mia, vergognandomi di chiedere quando ho ricevuto così tanto, posso soltanto dar voce a una preghiera di ringraziamento.” (Elizabeth von Arnim)

... (continua)
martedì, giugno 09, 2009

Il dizionario dell’indimenticabile

Dal 30 maggio al 2 giugno scorsi si è svolto a Cortona il VI Convegno Sempermeg


di Monica Cardarelli

'Sempermeg' è il gruppo nato dal movimento di formazione giovanile MEG (Movimento Eucaristico Giovanile), che quest’anno ha festeggiato i suoi 65 anni di vita, un Movimento Ecclesiale legato all’Apostolato della Preghiera, guidato dai padri Gesuiti. Il MEG è un Movimento Giovanile suddiviso in fasce d’età che si propone di accompagnare i ragazzi in un percorso di fede, aiutandoli a scoprire l’opera di Dio nella loro storia e sperimentando i frutti della sua presenza. Nell’Eucaristia trovano le energie per una vita sempre più libera dalle paure e vissuta in pienezza. La condivisione delle esperienze con i coetanei, la vita comunitaria, le varie forme di comunicazioni adatte ad ogni fascia di età, i tempi di ascolto e di preghiera permettono ai giovani del MEG, affidati alla guida dei padri Gesuiti, di crescere nella capacità di relazione, di scoprire e accogliere i propri talenti e limiti, di sviluppare lo spirito di servizio e di progredire nella conoscenza del Signore Gesù, della Parola di Dio e dell’insegnamento della Chiesa.
Il MEG si sviluppa in tutto il territorio nazionale e anche all’estero come in Francia con il MEJ ed in altri paesi.
Caratteristica del MEG è il fatto di essere un Movimento Giovanile. Perciò, da alcuni anni, coloro che non rientrano più nella fascia di età prevista per poter proseguire il cammino all’interno del Movimento e che hanno fatto nel tempo il percorso in tutte le sue tappe, hanno avvertito la necessità di ritrovarsi ancora fra loro e con il MEG, da cui provengono.
Da qualche anno, perciò, è nato il gruppo dei Sempermeg che raccoglie tutti coloro che per età anagrafica non possono più farne parte ma che, per il cammino di fede e di condivisione svolto, se ne sentono ancora parte viva.
Dal 2004 viene organizzato, una volta l’anno, un convegno per tutti i ‘grandi’, per le loro famiglie e i loro figli.
Tale necessità è nata sia dalla voglia e dal piacere di rincontrarsi ed avere del tempo da vivere con gli amici con cui si sono condivisi forti e innumerevoli momenti di preghiera sia dalla necessità di fermarsi a riflettere e a pregare su temi importanti nella nostra vita di fede vissuta quotidianamente.
Il gruppo dei Sempermeg è guidato da Padre Sauro De Luca che è anche il fondatore del MEG e che ha accompagnato tutti noi nel cammino di questi anni.

Il tema del convegno di quest’anno è stato “Il dizionario dell’indimenticabile” e riprendeva e continuava le riflessioni del convegno dell’anno passato su “Abitare sé stessi”. Con questo tema si proponeva a ciascuno di noi di riscoprire la ricchezza delle cose belle e indimenticabili che hanno segnato e segnano la nostra esistenza, tanto da costituire una nota fondamentale della nostra identità.
In queste giornate di incontri sono stati invitati a parlare Danilo Solfaroli, psicoterapeuta, e la teologa Manuela Terribile.
Non è facile per chi scrive e ha partecipato a questo come ad altri convegni nonché al cammino MEG, riuscire a riportare in modo oggettivo quanto ascoltato, vissuto e condiviso in queste giornate.
Cercherò, pertanto, di riportare le risonanze che le parole dei relatori, quelle di Padre De Luca e dei momenti di preghiera condivisi, mi hanno suscitato.
Il punto di partenza per poter parlare e riflettere sull’indimenticabile è il nostro rapporto con il tempo.
A volte si ha la sensazione di rincorrerlo; altre volte invece si ha l’impressione di essere rincorsi dal tempo; a volte, raramente forse, si ha la chiara percezione di essere adeguati nel proprio tempo.
Si tratta di quei rari istanti in cui si ha la percezione, con tutto il nostro essere, di vivere, semplicemente.
È sempre la percezione che abbiamo del nostro tempo che ci porta a dimenticare o a ricordare. L’equilibrio tra persistenza e mutamento, così difficile da ottenere e mantenere.
Si ricordano le cose e gli eventi che si vogliono ricordare e si dimentica o si rimuove ciò che non si vuole ricordare e che abbiamo bisogno di dimenticare. Ma non sempre ciò che è stato opportunamente dimenticato deve esserlo per sempre.
I ricordi, sono sempre soggettivi. Ad essi attribuiamo i nostri stati d’animo, le emozioni del momento e degli eventi ricordiamo solo alcuni particolari e non altri.
Spesso, il passare del tempo ci aiuta anche a ricordare, o meglio, a rievocare i ricordi e a ‘cambiargli il segno’ da negativo a positivo.
Il tempo trascorso, ci aiuta a recuperare i ricordi dolorosi, a riequilibrarli e dargli il giusto posto nella nostra vita. Non un posto predominante per tormentarci per gli errori commessi o le sofferenze subite, quanto avere la consapevolezza che anche quei ricordi fanno parte di noi, anche quei momenti e quegli eventi ci hanno costituito e noi ne abbiamo fatto parte.
Ci vuole del tempo per giungere a questo. Non penso al trascorrere del tempo, delle giornate, delle settimane, dei mesi e degli anni. Piuttosto al vivere quel tempo che inevitabilmente passa, riempiendolo sempre più di consapevolezza soprattutto di equilibrio e di pace.
Quel tempo necessario per riappropriarci di noi stessi, di ciò che siamo e di ciò che siamo chiamati ad essere, per poi proseguire nel percorso, in pace con noi stessi, con Dio e con gli altri per poter poi per-donare altri.
Così possiamo dire la nostra parola nel ritmo del nostro respiro e del respiro di Dio nel tempo che abitiamo.

Perché ricordare, significa guardare oltre, non restare ancorati al proprio passato, ma guardare con fiducia al futuro. La ‘memoria’ influisce sul presente e spinge verso il futuro.
La ‘memoria’ è anche un filo sottile che mette in collegamento i vari momenti di una vita quindi, un’identità. Il rapporto tra memoria e identità è molto stretto.
Per chiunque è fondamentale avere memoria e ricordo delle proprie origini, da dove veniamo, per capire ciò che siamo.


È affascinante constatare come anche la memoria non è solo ‘nostra’ ma i nostri ricordi sono il frutto di momenti vissuti in mezzo ad altri se non con altri. A volte i nostri ricordi sono addirittura quelli di altri che ci sono stati raccontati. Questo perché non siamo mai soli. Non si vive in modo isolato e la vita di ognuno di noi è permeata della vita e dei ricordi dei nostri familiari, dei nostri amici o conoscenti.
È la memoria che ci consente di amare. La solitudine ci porta a sentire il bisogno e ci spinge ad amare.

Con queste premesse, noi cristiani abbiamo una memoria in più da ricordare, un’identità diversa, arricchita.
Perché proveniamo da Gerusalemme e torneremo all’altra Gerusalemme, quella celeste.
Dimenticarci di Gerusalemme significherebbe dimenticarci chi siamo. Allo stesso tempo, viviamo nel mondo, in questo tempo ma fuori tempo. Cantiamo fuori da un coro che chiede di fare, di compiere, di riuscire, di riconoscersi onnipotenti.
Noi non possiamo. Dobbiamo avere la consapevolezza che non possiamo tutto, che non riusciamo nel quotidiano e non riusciremo nella nostra vita a compiere tutto.
Dobbiamo come cristiani risvegliare in noi il sentimento dell’abbandono. Quella consapevolezza di finitezza, di limiti umani che non significa sentirsi impotenti ma anzi, riconoscere le proprie forze e quelle di Dio.
Sapere che non abbiamo solo le nostre carte da giocare ma quando le abbiamo finite, abbiamo anche le carte di Dio.
“Volgendosi poi a se stessa, la Vergine santissima parla silenziosamente alla sua anima: ‘Và sicura – le dice – perché hai buona scorta, nel viaggio. Và, perché Colui che t’ha creata, ti ha santificata e sempre guardandoti come una madre suo figlio, ti ha amata con tenero amore’. E tu, Signore – soggiunge –sii benedetto, che mi hai creata” (Leggenda santa Chiara 46) così Chiara in punto di morte salutò le sue Sorelle, con queste parole di pace.
Dobbiamo augurarci di riuscire sempre a sentirci delle ‘creaturine’ fra le braccia di Dio che con amore materno ci guida. Noi non dobbiamo fare altro che quello che possiamo, che è molto limitato, il resto, dobbiamo lasciarlo fare a Lui.

È una consapevolezza di finitezza umana che porta con sé una grande pace interiore. Non più l’inquietudine di dover fare, portare a compimento tutto, quanto piuttosto, abbandonarci all’amore di Dio che con tutta la sua tenerezza non ci abbandonerà mai così come non ci ha mai abbandonato.

Abbiamo ricevuto un amore gratuito immenso che ci è stato donato e possiamo considerarci ‘ricchi di famiglia’. Abbiamo un amore, forse difficile da capire, ma nessun amore è comprensibile. Abbiamo la certezza non di essere esauditi, ma di essere amati.


Ecco allora che nel ‘Dizionario dell’indimenticabile’ possiamo iniziare a inserire dei ricordi, la memoria che costituisce la nostra identità umana e di cristiani.
L’amore di Dio che mi ha scelto così come sono, nonostante tutto.
La consapevolezza di essere stato creato a sua immagine e somiglianza “Eppure l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato” (Sal. 8).
La Sua fedeltà per sempre “Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome: tu mi appartieni. Se dovrai attraversare le acque, io sarò con te, i fiumi non ti sommergeranno; se dovrai passare in mezzo al fuoco, non ti scotterai, la fiamma non ti potrà bruciare” (Is. 43, 1-3).
La certezza che non mi abbandonerà mai “Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio del suo seno? Anche se queste donne si dimenticassero, io non mi dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani” (Is. 49, 15-16).
La grandezza del Suo amore che lo ha portato a dare la vita per me “Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché tu sei degno di stima e io ti amo (Is. 43, 4)”.
Il sogno che ha fatto su di me. Il dono dell’amicizia.
Vivere il mio spazio e il mio tempo nella natura, nel mondo, qui e ora.

Questo e molto altro può essere scritto nel ‘Dizionario dell’indimenticabile’. I giorni scorsi a Cortona, alle conferenze o durante la Veglia penitenziale, o durante le Messe celebrate con gioia insieme, o nei momenti di svago abbiamo cominciato a scrivere questo ed ora, ciascuno di noi nella propria vita, nel quotidiano tra figli, scuola, lavoro e amici, continuerà a scrivere col proprio tempo molto altro.

... (continua)
lunedì, maggio 25, 2009

La potenza dei sogni, la forza della fede

di Monica Cardarelli

È incredibile come l’essere umano riesca, a volte, quando si trova in situazioni di difficoltà, a recuperare forza, energia e positività per riemergere. Come se improvvisamente eventi negativi o vissuti come tali diano lo stimolo di cercare dentro di sé qualcosa di nascosto, una forza che prima non pensavamo di avere. Il più delle volte si tende a cercare appigli al di fuori di noi. Subito dopo, però, ci si rende conto che tutto ciò non è utile, che sono solo dei palliativi e quello che può aiutarci dobbiamo e possiamo trovarlo dentro di noi. Solo allora si intraprende, se se ne ha il coraggio, un percorso che ci conduce e ci avvicina a noi stessi, mostrandoci le ‘parti’ nuove di noi che ancora non conoscevamo. Perché il cambiamento nell’essere umano è costante e continuo anche se a volte è indotto dalle circostanze.
“La mattina dopo Kostantin Levin partì da Mosca. (…) Si sentì ridiventare se stesso e non avrebbe voluto cambiarsi con un altro, ma soltanto avrebbe voluto migliorarsi.
Prima di tutto decise di abbandonare la speranza di una felicità straordinaria che doveva procurargli il matrimonio, e quindi non avrebbe più disprezzato il presente.”
Così Kostantin, un personaggio del romanzo “Anna Karenina” di Tolstoj affronta il suo rientro a Mosca dopo aver avuto il rifiuto alla sua proposta di matrimonio da parte di Kitty, la ragazza di cui era innamorato sin dall’infanzia.
Riappropriarsi di sé stesso, migliorare, apprezzare il presente. Sono tutte condizioni utili per l’uomo per cercare e recuperare quella forza necessaria per proseguire.
Ma una volta rientrato a casa che “era tutto il suo mondo”, “gli oggetti a lui noti vennero fuori uno a uno. (…) Quando vide tutte queste cose, per un momento gli venne un dubbio sulla possibilità di questa nuova vita della quale aveva sognato lungo il viaggio. Tutte queste tracce della sua vita passata lo riprendevano e pareva che gli dicessero: ‘No, tu non ci sfuggirai, non diventerai un altro ma resterai quello che sei, coi tuoi dubbi, con la tua eterna scontentezza, coi vani tentativi di migliorarti e le tue ricadute, con la perpetua attesa di una impossibile felicità’.
Ma questo gli dicevano le cose: intanto un’altra voce interiore gli diceva che non si deve sottoporsi al passato, e che si può fare tutto ciò che veramente si vuole.”
Il legame con il passato, con gli errori o i ricordi, con ciò che eravamo, ci lega e ci vincola nel raggiungimento di un cambiamento, nel migliorare.
A questo punto vengono in aiuto i sogni. Sogni, speranze che non possono essere disattese una volta scoperti.
La realizzazione di un sogno, altro non è che la possibilità di perseguire ciò che vogliamo. La potenza dei sogni, generalmente, dipende dalla chiarezza che si ha nel percepire la propria volontà. Maggiore è la consapevolezza di ciò che vogliamo e altrettanto grande sarà la potenza del sogno.
Sogno che non è inteso qui come una fantasia irrealizzabile quanto piuttosto una speranza.
Mi piace pensare che lo stesso Francesco abbia voluto seguire, inizialmente, un sogno, una speranza forte e insistente dentro di lui che a poco a poco è esplosa in modo così forte e fragoroso da non poterla trattenere.
Cercare di realizzare il sogno era per lui realizzare una volontà di vita, l’unica possibile. Non una volontà imposta da altri, ma un desiderio la cui realizzazione dà benessere.
Anche Chiara nella sua vita seguì il sogno che Dio aveva fatto su di lei, con la stessa passione e determinazione di Francesco e riuscì, affidandosi alla preghiera, a realizzare la volontà di Dio nel mondo, attraverso la sua vita.
Con umiltà percepì il proprio stato di ‘creatura’ fra le braccia di Dio e, sentendo tutta la finitezza umana, si abbandonò al Suo abbraccio materno e alla Sua tenerezza.
In comunione con Dio Chiara e Francesco hanno fatto della preghiera il momento costante di dialogo con Lui trovando, così, l’unica relazione che dava senso alla loro vita.

Nella vita di tutti i giorni, l’uomo non può che affidarsi a Dio e alla preghiera, cercando di percepire il sogno che Lui ha fatto su ognuno di noi per poterlo poi realizzare.
Ciò non è semplice ed è, come sempre, un percorso in cui la realizzazione del sogno ne rappresenta il punto di arrivo.
Nel frattempo, in questo cammino, dobbiamo cercare delle tappe intermedie di percorso, come delle soste che ci permettano di riposarci e ricaricarci per proseguire, consapevoli del cammino fatto e di quello che ancora dobbiamo percorrere.
“Egli sentì che non aveva rinunziato ai suoi sogni e che non poteva vivere senza di essi. Con lei o con un’altra, ma i suoi sogni si sarebbero avverati. (…) Sentiva che in fondo all’anima qualcosa prendeva consistenza e si fissava per sempre. (…) Ma d’ora in poi tutto andrà diversamente. Bisogna combattere!” pensava Kostantin che non perdeva la speranza nella realizzazione dei suoi sogni.
In ogni caso, non dobbiamo perdere le speranze di un mondo migliore e di un miglioramento personale, nonostante tutto. Dobbiamo continuare a credere alla realizzazione dei sogni, dei ‘nostri’ e di quello più grande che sovrasta tutto e tutti e ci contiene.
Possiamo, perciò, affermare con Olga, una delle protagoniste dell’opera “Tre sorelle” di Cechov: “La musica ha un ritmo così allegro, coraggioso, e dà una voglia di vivere! Dio mio! Un giorno ce ne andremo anche noi, per sempre, ci dimenticheranno, dimenticheranno i nostri volti, le nostre voci, quante eravamo, ma le nostre sofferenze si trasformeranno in gioia per quelli che vivranno dopo di noi, la felicità e la pace regneranno nel mondo, e loro ci ricorderanno con una buona parola, benediranno quelli che vivono oggi. Oh, sorelle care, non è finita, la nostra vita! Vivremo! La banda suona allegra, festosa, e sembra che da un momento all’altro sapremo perché viviamo, perché soffriamo…Oh! Poter sapere, poter sapere!”
Se vogliamo però, dalla potenza dei sogni, giungere alla forza della fede, non possiamo accontentarci.
Non possiamo fermarci ai ‘nostri’ sogni, dobbiamo essere consapevoli che sono dei palliativi, importanti ma temporanei perché solo l’incontro con la grazia di Dio ci permette di realizzare il Suo sogno su di noi.
Dobbiamo ancora proseguire, andare avanti perché, come afferma Louf in ‘Beata debolezza’: “Acconsentire alla grazia è anche quello che è offerto ogni giorno alla chiesa e a ciascuno di noi. (…) Infatti, per chi osa acconsentire alla grazia, la meraviglia si illumina e scoppia improvvisa e il miracolo è compiuto. Finché la grazia non si è manifestata ai nostri occhi o finché non riusciamo ad afferrarla là dove essa si offre, possiamo acconsentire provvisoriamente solo a noi stessi, alle nostre proprie forze, ai nostri progetti o a quelli degli altri. E lì, mentre siamo in attesa, abbiamo un alibi, senza dubbio onorevole e di cui Dio si accontenta provvisoriamente. Ma quando alla fine la grazia di Dio si rivelerà agli occhi del nostro cuore, tutto diventerà infinitamente più semplice. Perché la grazia semplifica tutto.”

... (continua)
venerdì, maggio 15, 2009

Il mondo delle piccole gioie quotidiane


di Monica Cardarelli

C’è un mondo a parte in ciascuno di noi e intorno a noi, come una sorta di involucro, di guscio protettivo dal mondo esterno. È il mondo delle piccole gioie, un ambiente prezioso e delicato, da custodire e difendere con tenerezza. Non sempre è evidente a noi stessi e agli altri, ma c’è, sussiste. Per crescere però, ha bisogno di attenzioni e di essere coltivato.
C’è bisogno di tempo, per ogni cosa, anche per coltivare quella parte di sé invisibile agli occhi della ragione. Tempo e pazienza. Saper aspettare per veder crescere, maturare questo ‘cuore’ interno ad ogni esser umano, avendo cura anche di spolverarlo di tanto in tanto da tutte le membrane che rischiano di avvolgerlo: razionalità, cinismo, rancore, superficialità.
Si tratta di quella ‘zona di luce’ pura e ancora incontaminata che alcuni poeti hanno chiamato lo spirito di fanciullezza, il fanciullino pascoliano o l’esprit d’enfance di Georges Bernanos che porterà il protagonista de ‘Diario di un curato di campagna’ ad affermare in punto di morte “Che cosa importa? Tutto è grazia.”
Sensazioni ed emozioni semplici che ti accendono lo sguardo, che ti fanno accapponare la pelle, che ti tolgono il respiro, che ti fanno piangere senza volerlo, di gioia.
Quelle sensazioni che non puoi controllare, che ti assalgono e fuoriescono da te all’improvviso, che sono quella parte di te che non pensa prima di parlare, che non riflette prima di abbracciare, che dona mentre accoglie, senza chiedere, gratuitamente.
È un ambiente delicato perché indifeso. È un luogo in cui non ci si riconosce perché ancora non ci si conosce pienamente e proprio per questo rappresenta una scoperta continua per noi stessi e per gli altri.
È un momento lungo tutto una vita in cui non siamo noi a pensare, ma se ci appoggiamo l’orecchio riusciamo a percepire suoni, rumori, odori.
Riusciamo cioè a sentire quello che impulsivamente il nostro corpo ci rimanda come flashback.
È là che si annidano le sensazioni delle piccole gioie quotidiane.
Il ricordo di te bambino in una grande piazza; le sensazioni di serenità e semplicità di quei momenti; i giochi condivisi con i primi amici e il gusto dell’amicizia semplice; il sapore delle lacrime quando piangi di gioia; il rumore della pioggia sul vetro delle finestre e quello del ciocco che brucia nel caminetto d’inverno; il ricordo della sensazione piacevole che torna al palato quando si assapora un cibo che ci rievoca qualcosa, come le ‘madeleines’ di Proust da cui proviene tutto un universo di ricordi, di sensazioni.
“La felicità è fragile. Tu non sei un equilibrista e avanzi passo dopo passo. Non sai niente dei tuoi giorni, sei in bilico sul filo, non vedi lontano. Se guardi in basso hai le vertigini, non guardare. Tu cammini un po’ più in alto, ma la felicità è difficile. Rischi ad ogni passo, avanzi docilmente. Ad ogni rischio la felicità è là. Tu avanzi verso di te; la fine del filo non esiste.”
Così inizia il libro “Le bonheur” (La felicità) di Philippe Delerm, con questa descrizione di felicità prima di proseguire raccontando con tratto leggero i piccoli piaceri della vita, le piccole gioie quotidiane.
È vero, la felicità è fragile, è difficile da mantenere, vacilla ad ogni passo. Ma la cosa interessante è che l’uomo avanza ‘verso di sé’ perché la felicità non è qualcosa di esterno da raggiungere ma risiede in noi. La felicità è in noi stessi o meglio, siamo noi con tutto il nostro essere che possiamo percepirla. Noi possiamo percepire le piccole gioie quotidiane.
È proprio in quell’angolo delicato e prezioso che risiede la capacità di ‘sentire’ e apprezzare le piccole gioie e la felicità. Perché se la felicità è difficile da mantenere costante, è anche vero che sono le piccole gioie quotidiane che aiutano a mantenere vigile l’attenzione e la tensione verso la felicità. La gioia è preparatoria allo stato di felicità.
“Le gioie semplici sono le più belle. Sono quelle che alla fine sono le più grandi.” Sono le parole della Preghiera Semplice che San Francesco scrisse nella chiesa di San Damiano.
La semplicità di cuore, ecco la ricetta per poter apprezzare le piccole gioie della vita. Ecco il modo per alimentare e coltivare il mondo delle piccole gioie quotidiane, così tenero e delicato che ci permette di essere sensibili a ciò che siamo, alla vita.
La semplicità di un sorriso, lo sguardo di un bambino. Piccole gioie quotidiane.

... (continua)
giovedì, maggio 07, 2009

Un figlio di nome ‘Libro’

"Scrivere un romanzo è una scoperta di tutto un mondo che si concretizza da un unico pensiero che sfocia in un oceano di vite, sensazioni, emozioni". Sono le parole di Monica Cardarelli, scrittrice e redattrice di Perfetta Letizia, che attraverso una riflessione sull'arte della scrittura ci parla dei suoi libri ed in particolare di "Parentesi di Luna", opera narrativa il cui spessore è stato riconosciuto dalla critica con l'assegnazione di vari premi letterari e che presentiamo anche quì sulla nostra rivista.

di Monica Cardarelli

Per chi scrive, ogni libro ha un suo carattere, una sua storia. C’è sempre un motivo per cui nasce un libro, un progetto che si sogna prima di scriverlo. Un figlio lo si desidera e si pensa a come potrebbe essere realmente anche prima della sua nascita. Così per un’opera narrativa, ogni manoscritto nasce da un’idea, un progetto dell’autore e quando si inizia a scrivere non si sa ancora dove lui ci porterà perché non si può sapere in anticipo il suo carattere. Il processo di scrittura è un percorso. In genere, si sa da dove si parte e quali strade si vogliono intraprendere ma non si sa dove questo percorso ci porterà. Non si sa per quali scorciatoie o salite i protagonisti si avventureranno e soprattutto, non si sa cosa e chi si può trovare lungo il cammino.
Ecco allora che da un punto di partenza iniziale, poco a poco, delineando i personaggi, dandogli dei nomi e delle fisionomie, l’autore si accorge che loro, i protagonisti, gli sfuggono di mano (o meglio, gli prendono la mano) e gli presentano un loro mondo, tutto loro, a cui lui inizialmente non aveva proprio pensato.
Scrivere un romanzo è una scoperta di tutto un mondo che si concretizza da un unico pensiero che sfocia in un oceano di vite, sensazioni, emozioni.
È un percorso estremamente affascinante e accattivante per chi riesce a seguirlo perché è anche, in parte, un percorso di scoperta personale.
Ogni scrittore si mette in gioco, dà qualcosa di sé alle proprie opere, proprio come un genitore che trasmette i propri caratteri somatici e caratteriali al proprio figlio.
Da un simile percorso, ho visto realizzarsi e staccarsi da me la mia prima opera narrativa ‘Pensieri, parole scritte, lunghi silenzi’ (Ed. Sovera) un racconto epistolare e, successivamente, il romanzo ‘Parentesi di luna’ (Ed. Firenze Libri).
Ambedue sono in attesa di un terzo arrivo, previsto per settembre, e sono già in compagnia di due opere teatrali, con un carattere e un genere quindi ancora diverso, ‘Tra cielo e terra’ testo su Jacopone da Todi e ‘Te veramente felice!’ testo teatrale su Santa Chiara d’Assisi.
Diversi, come dicevo, gli stimoli che spingono ad avvicinarsi ad alcuni temi in particolare. In genere, ciò è dipeso da urgenze personali, dalla necessità di soffermarsi di volta in volta a riflettere su alcuni temi o caratteri.
L’idea primaria che ha dato origine a ‘Parentesi di luna’ era l’analisi di come nella vita di ciascuno di noi ci siano dei sentimenti, degli stati d’animo, delle emozioni che ritornano e che sono comuni a tutti gli esseri umani, in qualunque paese e in qualunque momento storico vivano.
Partendo da ciò, ho voluto raccontare la storia di due persone, Sergio e Sofia, che vivono in paesi diversi e non si incontreranno mai. Questo il punto di partenza che però mi ha poi portato più lontano, molto lontano, presentandomi anche i figli dei due protagonisti, il rapporto fra genitori e figli e molto altro, non ultimo il rapporto col tempo.
Tutto il racconto si snoda in tre momenti temporali, raccontato a ritroso: passato, presente e futuro.


Libro "Parentesi di Luna"
critica letteraria di Flavia Weisghizzi

“Ci sono storie che sono destinate a incrociarsi. Ci sono invece storie destinate a non incontrarsi mai, come binari paralleli che proseguono il proprio viaggio verso l’infinito.
Eppure, proprio come binari di un treno, corrono legate le une alle altre, strette da traversine che impediscono di avvicinarsi troppo ma anche di deragliare.
Sofia e Sergio, due persone che non hanno in apparenza nulla in comune. La storia di lei è legata alla valle di un piccolo centro montano, quella di lui al mare del Portogallo.
Non si conoscono e non si conosceranno mai, eppure…
Eppure le loro vicende scorrono complementari, entrambi partono alla ricerca del proprio passato, per far luce sulle ombre dolorose che li hanno segnati da bambini, entrambi trovano per caso l’amore, in un’estate piena di gioia, entrambi rimarranno soli come sono sempre stati.
Ma c’è un passato in questa vicenda e c’è un futuro, che è quello dei figli cui raccontano la loro storia, come a voler chiudere definitivamente l’era dei segreti e dar loro la forza di accettare il loro presente, nella consapevolezza delle loro origini.
Sofia e Sergio non si incontreranno mai, ma sarà la luna a riflettere l’uno per l’altro, i loro sorrisi.
Parentesi di luna è prima di tutto un romanzo sulla ricerca del sé attraverso la scoperta del nostro passato, un lungo e non facile percorso di autodeterminazione dei protagonisti che nel confronto con gli altri, silenziose comparse che si affacciano di tanto in tanto nelle pagine e soprattutto con i loro compagni, Giulio e Valentina, riusciranno a ricostruire una propria dimensione.
Questi personaggi vengono ritratti all’alba di una loro rinascita, e si confrontano, da stranieri in terra straniera, con la vita che per un caso del destino ha dato ad entrambi la possibilità rara di compiere una svolta, anzi La svolta.
Sono personaggi che sembrano nascere in quel momento, carichi di un futuro più che di un passato, e di una voglia di diventare artefici del proprio destino.
L’amore, la mancanza. Questi sono forse i due temi più significativi del libro. L’amore e la mancanza.
La mancanza dell’amore è il motore immobile di tutte le ricerche, dei genitori e dei figli, che come in una tragedia greca espiano i mali dei padri e in qualche modo rendono loro la salvezza, spezzando la catena della sofferenza.
Come in una tragedia greca Monica Cardarelli racconta questa vicenda attraverso le storie dei padri e dei figli: tre generazioni che si compenetrano in un romanzo circolare.
Una eterna sequenza di partenze e ritorni di ricerche che sono destinate a completarsi forse solo in uno sguardo.
Monica Cardarelli ci racconta le vicende di Sergio e Sofia premendo l’acceleratore sulle loro storie e soffermandosi a riflettere sui momenti più significativi delle loro esistenze.
Come da lettere dedicate ai figli, le voci dei due protagonisti si levano raccontando brandelli di vita.
Monica vede e fa vedere Sergio e Sofia all’inizio della loro ricerca, quando incontrano il compagno della propria vita, quando esso se ne va, portandosi dietro un pezzo importante della loro anima.
Li fa vedere mentre piangono, mentre sono felici, ma soprattutto mentre vivono.
Prendendo a prestito le tecniche teatrali, ponendo sul palco una scenografia vuota di quasi tutto, se non del mare, delle montagne, della luna e dei sorrisi, Monica Cardarelli impernia la sua narrazione sui gesti, sulle cose, sui sorrisi: piccole attenzioni, piccoli particolari che comunicano più delle parole, talvolta inutili, spesso di troppo.
Tutto è rivissuto attraverso lo sguardo dei protagonisti, in una dimensione di sospensioni interiori che si affranca così dallo scorrere del tempo.
Noi sappiamo che è passato dalle foglie che si arrossano e cadono come gocce di sangue sulle strade, ma in realtà, il tempo interiore si ferma nel momento dell’incontro con l’altro e rimane così, impercettibilmente in attesa fino alla fine del senso della vita, che non è la morte, ma la fine dell’amore.
Parentesi di luna è un libro che ha il suo punto di forza nella struttura, una struttura che racconta il parallelismo di due vite diverse e divise, eppure così vicine.
Il racconto, l’oralità, la tradizione, si fanno così protagonisti assoluti, assieme alla memoria.
In questo romanzo la memoria si fa spazio concreto di movimento, si interseca e si fonde con il tempo della narrazione, e il ricordo si moltiplica nei luoghi del passato, del presente e del futuro.
Eppure nella sua moltiplicazione ritorna a una unità di fondo, che è qualcosa che si eredita per diritto di sangue, quella memoria fisiologica scritta nel DNA che, come queste due storie, è formato da due catene unite ma divise, la doppia elica che si spiralizza densamente come le vicende di Sergio e Sofia ma che fa parte di un progetto più grande, che sfugge se lo si guarda troppo da vicino e si fa confuso se visto da lontano.
Bisogna seguirlo passo dopo passo, un pezzo alla volta e lasciarsi incantare dalla perfezione del suo progetto, un progetto che sfugge a noi che ne siamo così coinvolti, ma che ha la sua meta finale nel viaggio reale e simbolico che ha la vita come strada e il futuro come meta.
Perché forse, l’unico vero osservatore, che sa tutto e però tace, è proprio il sorriso silente della luna.”

“Parentesi di luna è, come altre opere di taglio moderno, un libro da leggere e non da raccontare. L’incisività delle sue formule, l’intensità rappresentativa di eventi, luoghi e personaggi, il tratto che assume i toni di un forte cromatismo lirico, si associano a ‘scene’ e a ‘dialoghi’ dall’efficace resa scenografica. E’ proprio quello che potremmo definire come il ‘piglio teatrale’ di gran parte degli effetti narrativi, è ciò che rende assai difficile ‘spiegarne’ i contenuti. Le emozioni, infatti, non si descrivono. Si possono ‘vivere’ e basta anche in quel modo, tutto personale e, ripetiamolo ancora una volta, giocato sull’intersecarsi di più di una vicenda, di più di un contesto storico ed esistenziale. Sia come sia, “Parentesi di luna” è un omaggio che la narrativa, l’editoria, la cultura di Roma fanno, oggi, a Firenze”. (Paolo Briganti, Caffè storico letterario Giubbe Rosse, Firenze 22 febbraio 2008)

Al libro è stato assegnato il 1° Premio per la Sezione Narrativa Edita del Premio Nazionale “Il Delfino” 2007; il Premio Menzione d’onore “Prato: un tessuto di cultura” 2009 ACSI; il Premio Segnalazione al “Viareggio Carnevale” 2009.

... (continua)
lunedì, aprile 27, 2009

Grazie, scusami. Perdono.

di Monica Cardarelli

La lingua di un paese rappresenta la sua cultura. La ricchezza di termini e le loro sfumature rispecchiano il modo di pensare della società in cui viviamo. Oltre a tutto ciò, però, le parole hanno un loro profondo significato che, spesso, non viene valutato, venendo così utilizzate con maggiore leggerezza, alleggerite cioè del loro significato iniziale per cui sono nate. Quante volte nel nostro quotidiano ci troviamo a dire un ‘Grazie’ oppure ‘Scusa’ fino ad arrivare ad una parola così impegnativa come ‘Perdono’ solo per formalità, senza soffermarci al pensiero di cosa significhi veramente ringraziare e che cosa metta in funzione dentro di noi. Ringraziare è il modo per apprezzare un dono e per dimostrarlo. È, dunque, un’azione che ci mette in relazione con l’altro, è una risposta a qualcosa che ci è stato donato, una reazione. Tutto ciò mette in movimento noi e l’altro, crea empatia, risonanza. L’altro ci dona qualcosa che ‘esce’ dal suo ‘sé’ e giunge fino a noi che recepiamo questo ‘qualcosa’ come un dono, apprezzandone il valore e il nostro ‘sé’ reagisce rispondendo con un ‘Grazie’.
Di conseguenza, per poter dire appieno il nostro ‘Grazie’ dovremmo veramente essere disponibili all’incontro con l’altro, a guardare e ascoltare l’altro, a perdere qualcosa di noi per far spazio a quel qualcosa che l’altro ci sta donando.
Essere disponibili a ricevere, ad arricchirsi. Non sempre è facile ricevere, accogliere. A volte è più semplice donare. Così come non è facile farsi aiutare quanto piuttosto aiutare gli altri.
A mio avviso ciò è dovuto, in parte, al fatto che oggi si è troppo concentrati alla ricerca di un equilibrio interiore, di una stabilità personale, di una stima e fiducia in sé stessi (indispensabili) e siamo meno inclini a perdere tutto questo e metterci in discussione, o meglio, farci mettere in discussione dagli altri.
Perché accettare l’aiuto dell’altro significa prima di tutto ammettere a sé stessi di averne bisogno, demolendo quindi l’immagine di sicurezza e autosufficienza che abbiamo creato di noi stessi ai nostri occhi e a quelli degli altri.
Poi significa essere disponibili ad accettare l’aiuto dell’altro, qualunque esso sia, anche se questo aiuto fosse espresso in una forma che noi pensiamo non essere consona alle nostre necessità.
Questa accettazione presuppone però una disponibilità al cambiamento. Perché quel ‘qualcosa’ che l’altro ci dona inevitabilmente ci cambia.
A ben guardare si tratta solo e semplicemente di un gioco di equilibri in cui a giocare si è sempre in due. Non si sta parlando di equilibrio personale (quello deve esserci come punto di partenza), ma di relazione con un altro diverso da me.
Non un’altalena in cui posso giocare da solo, ma un ‘bilico’ in cui si è in due a mantenere l’equilibrio e a turno, si sale e si scende.
Così, dire un ‘Grazie’ riacquista il suo senso e significato originario.

Infatti, come dice il protagonista di “Grazie” di Daniel Pennac, alle prese con i ringraziamenti ad una cerimonia di premiazione: “Non è possibile immaginare un mondo in cui nessuno ringrazierebbe mai nessun altro, tranne che per le porte! Un mondo in cui si farebbero solo regali aziendali, dove il grazie sarebbe plausibile solo se messo in scena! E verrebbe trasmesso solo nelle ‘condizioni della diretta’!...un mondo così simile al nostro non è immaginabile! (…) Io sono venuto qui per…sono venuto in cerca di…qualcuno…è stato qualcuno ad attirarmi qui, la promessa di un incontro che mi ha fatto salire su questo…”.
La relazione umana, l’incontro. Se davvero riesco ad ascoltare, ad essere vigile, a percepire l’altro posso accorgermi se il mio rapportarmi a lui provoca o meno dispiacere, sofferenza o una qualunque sensazione negativa che meriti da parte mia l’uso di una parola come ‘Scusa’ o ‘Mi dispiace’.
È sempre necessaria una relazione ed una vera empatia, una conoscenza. Dispiacersi di qualcosa presuppone una consapevolezza del ‘fastidio’ arrecato.
Nel ‘Mi dispiace’ si percepisce chiaramente che l’azione di essere dispiaciuti parte e si sviluppa nel soggetto che parla per giungere e interessare altri, i soggetti dello ‘Scusa’.
È interessante notare come i verbi e le parole citati fin qui (ringraziare, scusa, dispiacersi…) presuppongano un’emozione e questa parte e conduce ad un movimento interiore e ad un movimento verso l’altro.
Dalla parte dell’altro, dopo le ‘scuse’, si potrebbe arrivare a ‘Perdonare’, altro termine estremamente impegnativo.
La parola ‘Perdono’ risulta un composto di ‘PER – DONO’. Presuppone, quindi, che colui che ha ricevuto un’offesa reagisca e reazioni a questo rapporto umano con un ‘dono’.
Il perdono, proprio perché è un ‘dono’ lo può concedere solo colui che deve perdonare, non lo si può chiedere come regalo all’altro.
Non si può chiedere un dono all’altro come scrive Tiziano Ferro nella sua canzone ‘Perdono’: “infatti chiedo perdono” quanto invece, come si legge in un altro suo testo, la canzone ‘Alla mia età’: “Perché Dio mi ha suggerito che ti ho perdonato e ciò che dice Lui, l’ho ascoltato”.
Il perdono è un regalo estremamente faticoso da regalare ma nel momento in cui lo si fa, ci si sente improvvisamente alleggeriti di un gran fardello che pesava fino ad allora.
A questo ‘dono’ tanto desiderato, a questo punto si potrebbe rispondere con un sincero ‘Grazie!’ e ricominciare il delicato ma attraente gioco della relazione umana.

... (continua)
venerdì, aprile 17, 2009

"Due per due cinque": riflessione sulla personalità umana

di Monica Cardarelli

Ogni giorno assistiamo più o meno attoniti ad un crescendo di reazioni violente che si scatenano senza alcun motivo o per motivi del tutto futili fra gli uomini in ogni luogo e in ogni momento. Non riusciamo a spiegarci perché ci stiamo avvicinando a grandi passi non tanto ad un progresso umano quanto ad un abisso. Viene spontaneo porsi delle domande in proposito. Cosa è il progresso? Quale la strada su cui proseguire, avanzare e quale invece il percorso da evitare per non tornare indietro? Come viene vissuto nel concreto il rapporto ragione/emozione? Fino a che punto l’uomo riesce ad ascoltare la propria voce, quanto vuole dar voce agli altri e come riconoscere e riconoscersi in una natura che ci è madre? Infiniti sono gli interrogativi che possiamo continuare a porci ,e non ultimo, quale libertà per l’uomo nella scelta del suo destino e di quello dell’umanità? Quale spazio l’uomo lascia, in questa ricerca della libertà, a Dio e alla sua volontà?

Nei giorni scorsi mi è capitato di rileggere “Memorie del sottosuolo”, di Fedor Dostoevskij. È bizzarro pensare di trovare fra le pagine di questo primo scritto, redatto nel 1864,
di un autore come Dostoevskij, una riflessione sulla personalità umana estremamente attuale. “Ci sarà per esempio una noia tremenda, ma in cambio tutto sarà straordinariamente ragionevole. Certo, dalla noia, che cosa non s’inventa? Infatti, anche gli spilli d’oro si piantano per noia, ma tutto questo non sarebbe niente. Il brutto è che, chi sa mai, c’è anche il caso che la gente allora si rallegri agli spilli d’oro. Perché l’uomo è sciocco, sciocco in modo fenomenale. Infatti io, per esempio, non mi meraviglierei per nulla se a un tratto, di punto in bianco, in mezzo all’universale saggezza futura sorgesse un qualche gentlemen dall’aspetto ignobile o, per meglio dire, retrogrado e beffardo, si mettesse le mani sui fianchi e dicesse a noi tutti: ebbene, signori? Non dobbiamo buttar giù tutta questa saggezza d’un colpo, con una pedata, mandandola in polvere, col solo scopo che tutti questi logaritmi se ne vadano al diavolo e che noi si possa di nuovo vivere secondo la nostra sciocca volontà? Questo non sarebbe ancora nulla, ma il guaio è che senza fallo troverebbe dei seguaci: così è fatto l’uomo.”

Non solo, ma l’uomo, secondo Dostoevskij, non vuole solamente costruire, erigere, avanzare ma anche distruggere, colpire. È comunque attratto dalla confusione, dalla distruzione e dal caos: dalla sofferenza. “L’uomo ama costruire e tracciare delle strade, è indiscutibile. Ma perché mai egli ama fino alla passione anche la distruzione e il caos? Non può darsi ch’egli ami tanto la distruzione e il caos in quanto lui stesso istintivamente teme di raggiungere la meta e di ultimare l’edificio in costruzione? Che ne sapete? Forse l’edificio lo ama solo da lontano e niente affatto da vicino; forse ama unicamente costruirlo e non viverci dentro.”

Allora, con Dostoevskij ci chiediamo il perché di questo atteggiamento ripetuto nei secoli. Perché l’uomo, in effetti, non è affascinato dalla meta, ma dal viaggio. Non dal raggiungimento, ma dalla ricerca. Non Itaca, ma il percorso per raggiungerla interessava Ulisse. “Mettiamo pure che l’uomo non faccia che cercare questo due per due quattro, valica gli oceani, sacrifica la vita in questa ricerca, ma di scoprirlo, di trovarlo effettivamente, vi giuro che ne ha come paura. Infatti egli sente che, non appena l’avrà trovato, non ci sarà più nulla da cercare.”

A questo punto però la riflessione acquista una sfumatura ulteriore: che cosa interessa l’uomo? Siamo veramente consapevoli di ciò che vogliamo o siamo sempre soggetti a condizionamenti continui? Infatti: “Può darsi che l’uomo non ami la sola prosperità. Può darsi che ami esattamente altrettanto la sofferenza. Può darsi che proprio la sofferenza gli sia esattamente altrettanto vantaggiosa quanto la prosperità. (…) La sofferenza è dubbio, è negazione, e che palazzo di cristallo sarebbe quello in cui si potesse dubitare? Eppure sono sicuro che l’uomo, all’autentica sofferenza, cioè alla distruzione e al caos, non rinuncerà mai.”

Fino a che punto ci fermiamo all’evidenza presentata dalla ragione? Quando accettiamo il ‘due per due quattro’ e quando invece andiamo oltre, sfidiamo la nostra stessa natura ragionevole e cerchiamo non di dimostrare il ‘due per due cinque’ quanto piuttosto di affidarci all’ignoto, a qualcosa che è diverso da noi, che va oltre e che non possiamo controllare, ma di cui abbiamo un estremo bisogno? Chi ci assicura che il ‘due per due quattro’ sia l’unica soluzione solo perché spiegabile razionalmente? A questo proposito Dostoevskij introduce un pensiero molto interessante e attuale. “Ma quando mai, in primo luogo, è accaduto, in tutti questi millenni, che l’uomo agisse unicamente per il solo proprio vantaggio? Che fare dei milioni di fatti che testimoniano come gli uomini, scientemente, cioè comprendendo appieno i loro veri vantaggi, li lasciassero in secondo piano e si buttassero su un’altra strada, al rischio, all’avventura, da nessuno e da nulla costrettivi, ma come se non desiderassero appunto solo la strada indicata, e ostinatamente, di loro arbitrio se ne aprissero un’altra, difficile, assurda, cercandola poco meno che nelle tenebre? Il vantaggio! Che cos’è il vantaggio? E poi, vi assumete voi di definire con perfetta esattezza in che cosa precisamente consista il vantaggio umano? E se capitasse che il vantaggio umano, a volte, non solo potesse, ma perfino dovesse appunto consistere nell’augurarsi in qualche caso ciò che è nocivo, e non ciò che è vantaggioso? Infatti, voi, signori, per quanto mi è noto, tutta la vostra lista dei vantaggi umani l’avete desunta come media dalle statistiche e dalle formule della scienza economica. Infatti, i vostri vantaggi sono la prosperità, la ricchezza, la libertà, la tranquillità, e così via, e così via, sicché un uomo che, per esempio, fosse andato palesemente e scientemente contro tutta questa lista sarebbe secondo voi, bè, naturalmente anche secondo me, un oscurantista o un vero pazzo, non è così?”

Quante volte ci soffermiamo a pensare al criterio di giudizio della nostra vita e di quella dei nostri fratelli. Quante volte saremmo tentati di dirazzare dai ‘vantaggi’ che ci vengono proposti per seguirne e perseguirne altri, anche se agli occhi del mondo risultano degli ‘svantaggi’. Qui il pensiero corre alla testimonianza di fede di Francesco e Chiara che scelsero come unico vantaggio il privilegio della povertà scandalizzando con le loro scelte di vita concrete la società in cui vivevano. È possibile allora, seguire altri ‘vantaggi’ e non farsi trascinare. È possibile seguire la propria volontà, quindi, in altre parole, essere liberi di scegliere e di vivere. Anche se “la scienza stessa insegnerà all’uomo che in realtà egli non ha né ha mai avuto né volontà né capriccio, e che anche lui non è nulla più che una specie di tasto di pianoforte o di una puntina d’organetto”, l’importante è “che l’uomo dimostri a se stesso ogni momento che è un uomo, e non una puntina!”.

La coscienza di se stessi, di ciò che si è resta il punto di partenza di un percorso che deve e p uò condurci avanti e non indietreggiare o cadere nell’abisso del sottosuolo “perché in ogni caso ci conserva la cosa più importante e più cara, cioè la nostra personalità e la nostra individualità.” Sopra ogni cosa, non dobbiamo mai rischiare di affermare, come il personaggio descritto da Dostoevskij, “ho avuto tutta la vita uno sguardo obliquo e non ho mai potuto guardare gli uomini dritto negli occhi” quanto piuttosto fissare sempre lo sguardo negli occhi di Dio e dei fratelli.
... (continua)
venerdì, aprile 10, 2009

La passione di Maria e il percorso della croce di Jacopo

della nostra redattrice Monica Cardarelli

La settimana santa rappresenta per i cristiani il culmine di un periodo di grazia, la Quaresima, in cui si è chiamati a rivivere il percorso della croce di Cristo, prima della sua morte e resurrezione. Sono momenti in cui ognuno di noi riflette sul proprio ‘percorso della croce’ perché, in modi diversi, in momenti diversi e per strade diverse, lo si percorre per giungere alla salvezza. La Lauda Drammatica di Jacopone da Todi, ‘Donna de’ Paradiso’, meglio conosciuta come ‘Il pianto della Madonna’, può aiutarci in questa riflessione. L’importanza che riveste Jacopo de’ Benedetti con la sua vita, la sua passionalità e il suo percorso di fede sono tali che hanno segnato una pagina importante della Chiesa e della letteratura del nostro paese.

Questa Lauda, in particolare, presenta un aspetto molto interessante, nuovo: infatti non è solamente un narrare la passione di Cristo evidenziando le sofferenze e le umiliazioni inflittegli, ponendo Cristo al centro del racconto, quanto piuttosto il dolore e la sofferenza della mamma, Maria, di fronte a tutto ciò.

“Donna de Paradiso, lo tuo figliolo è preso, Iesù Cristo beato.
Accurre, donna e vide che la gente l’allide; credo che lo s’osside, tanto l’ò flagellato”.
“Como esser porria, che non fece follia, Cristo, la spene mia, om l’avesse pigliato?”.
“Madonna, ello è traduto, Iuda sì ll’à venduto; trenta denar’ n’à auto, fatto n’à gra mercato.”
“Soccurri, Maddalena, ionta m’è adosso piena! Cristo figlio se mena, como è annunziato.”
“Soccurre, donna, adiuta, c’à ‘l tuo figlio se sputa e la gente lo muta; òlo dato a Pilato”.
“O Pilato, non fare el figlio meo tormentare, ch’eo te pòzzo mustrare como a ttorto è accusato.”

È un dialogo continuo fra Maria e Cristo, la gente del popolo che la chiama, lei che chiede aiuto a Maria Maddalena, Cristo che le affida Giovanni e che muore davanti ai suoi occhi. In questa Lauda Jacopo riesce a rievocare l’intera ‘scena’ della passione di Cristo, e leggendola, sembra già di assistere ad una rappresentazione sacra.

“Crucifige, crucifige! Omo che se fa rege, secondo nostra lege contraddice al senato”.
“Prego che mm’entennate, nel meo dolor pensate! Forse mo vo mutate de que avete pensato”.
“Traiàn for li latruni, che sian suoi compagnuni; de spine s’encoroni, ché rege ss’è clamato!”.

Di fronte a tanta rabbia, odio e rancore, la madre deve assistere impotente. La dolcezza e lo strazio di una madre sono riportate nelle parole utilizzate da Jacopo e risultano estremamente toccanti.

“O figlio, figlio, figlio,
figlio, amoroso giglio! Figlio chi dà consiglio al cor me’ angustiato? Figlio occhi iocundi, figlio, co’ non respundi? Figlio, perché t’ascundi al petto o’ sì lattato?
“Madonna, ecco la croce, che la gente l’aduce, ove la vera luce déi essere levato”.
“O croce, e que farai? El figlio meo torrai? E que ci aponerai, che no n’à en sé peccato?”.
“Soccurri, plena de doglia, cà ‘l tuo figliol se spoglia; la gente par che voglia che sia martirizzato”.
“Se i tollit’el vestire, lassatelme vedere, com’en crudel firire tutto l’ò ensenguenato”.
“Donna, la man li è presa, pennella croc’è stesa: con un bollon l’ò fesa, tanto lo ‘n cci ò ficcato.
L’altra mano se prende, ennella croce se stende e lo dolor s’accende, ch’è plu moltiplicato.
Donna, li pè se prènno e clavellanse al lenno; onne iontur’aprenno, tutto l’ò sdenodato”.
“Et eo comenzo el corrotto; figlio, lo meo deporto, figlio, chi me tt’à morto, figlio meo dilicato? Meglio avariano fatto ch’el cor m’avesser tratto, ch’ennella croce è tratto, stace desciliato!”.
“O mamma, o’ n’èi venuta? Mortal me dà feruta, cà ‘l tuo plagner me stuta, ché ‘l veio sì afferato”.

Si può quasi pensare che questo componimento poetico sia di valore universale, come universale è la sofferenza di un Dio fatto uomo e di sua madre, una donna che con il suo ‘sì’ ha reso possibile la salvezza del mondo. Quante donne si trovano a vivere lo stesso straziante dolore di Maria? Quante ‘vie della croce’ continuano a perpetuarsi in ogni angolo del mondo, in ogni momento? Le donne, malgrado tutto, sono sempre i testimoni più diretti. Siano esse madri, mogli o figlie, sono sempre loro a stare e restare sotto la croce come Maria, Maria di Magdala e Maria Maddalena.

“Figlio, ch’eo m’aio anvito, figlio, pat’e mmarito! Figlio, chi tt’à firito? Figlio, chi tt’à spogliato?”.
“Mamma perché te lagni? Voglio che tu remagni, che serve mei compagni, ch’èl mondo aio acquistato”.
“Figlio, questo non dire! Voglio teco morire, non me voglio partire fin che mo’n m’esc’ el fiato.
C’una aiàn sepoltura, figlio de mamma scura trovarse en afrantura mat’e figlio affocato!”.
“Mamma col core afflitto, entro ‘n le man’ te metto de Ioanni, meo eletto; sia to figlio appellato. Ioanni, èsto mea mate; tollila en caritate, àginne pietate, cà ‘l core sì à furato”.

Anche nella vita di Jacopone da Todi le donne hanno avuto un ruolo importante. In particolare, la moglie Vanna de’ Coldimezzo. La vita di Jacopo è stata una via della croce, una strada in salita che ha intrapreso proprio a seguito della morte della moglie Vanna avvenuta, fra l’altro, in circostanze fortuite. Anche Vanna, con il marito Jacopo, erano dediti alla bella vita, alle feste, ai banchetti, alle orge notturne, abituata ad abiti ricchi e sontuosi, data l’estrazione sociale da cui proveniva.
Poi, fra le mura della sua camera, la donna brillante che era, riponeva i suoi abiti ricchi e indossava il cilicio, nel buio della sua stanza, lontano dagli occhi del marito, per non mortificarlo.
Vanna era una donna forte e fragile allo stesso tempo. Una donna che, per non dispiacere al marito, conduceva con lui la vita che lui le chiedeva. Perché l’amore fra loro era molto forte, quello stesso amore che li terrà sempre uniti, anche dopo la morte di lei, ma che si trasformerà in amore per Dio. Una donna, però, che dopo aver incontrato Dio e il Suo amore nella propria vita non riesce a far convivere l’amore per Dio e l’amore per le cose vane, per la vita ricca e vuota che viveva con Jacopo.
Sarà proprio questo amore, l’amore di Vanna che condurrà Jacopo fino a Dio. Sarà lei a sconvolgere la vita del marito quando, improvvisamente durante una delle tante feste a cui partecipavano, cade per un incidente, le crollano addosso travi del soffitto, il pavimento cede, mattoni, pietre e legno sopra di lei, sul suo corpo. Lei non le sente più, sul suo corpo sente solo il cilicio che Jacopo scopre così, per la prima volta, inaspettatamente.

Questa scoperta, oltre alla morte della moglie, sconvolge pienamente la sua vita e da allora seguirà un percorso che lo condurrà, con la guida ‘distante’ di Vanna, fino a Dio.

“Figlio l’alma t’è scita, figlio de la smarrita, figlio de la sparita, figlio attossicato!
Figlio bianco e vermiglio, figlio senza somiglio, figlio, e a ccui m’apiglio? Figlio, pur m’ai lassato!
Figlio bianco e biondo, figlio volto iocondo, figlio perché t’à el mondo, figlio cusì sprezzato? Figlio dolc’e placente, figlio de la dolente, figlio àte la gente mala mente trattato.
Ioanni, figlio novello, morto s’è ‘l tuo fratello. Ora sento ‘l coltello che fo profetizzato.
Che moga figlio e mate d’una morte afferrate, trovarse abraccecate mat’e figlio impiccato!”.

Il percorso della croce è lungo per Jacopo ed avrà sempre la sensazione di essere solo all’inizio, sempre all’inizio. Solo quando comprende veramente che deve abbandonare il suo orgoglio, la sua presunzione, la sua arroganza e tutto ciò che lo teneva legato a questa terra, solo allora riesce a percepire l’amore di Dio e intravede la vera strada da seguire per giungere a Lui. In questo percorso si imbatte in una Chiesa ancora legata al potere temporale e in un pontefice, Bonifacio VIII, forse l’ultimo fine stratega, che cerca solo il bene della Chiesa, di difenderla dalle eresie.

Allo stesso tempo, un uomo che rivestiva una grande carica, un ruolo molto importante, di cui sentiva il peso delle responsabilità sulle proprie spalle. Un uomo solo, che ha subìto nella sua vita molteplici aggressioni e che, negli ultimi anni del suo pontificato, è stato anch’egli oltraggiato e fatto prigioniero, proprio come Fra’ Jacopone, di cui, mi piace pensare, ammirasse la forza e la fede che anch’egli un tempo aveva fervida e viva. Come in ogni uomo, anche in Bonifacio VIII e in Jacopo convivono dubbi e certezze, paure e ricordi, speranze e delusioni, ragione e fede. Un cammino di conversione vera, di cambiamento sincero quello intrapreso da Jacopo, che giunge finalmente, a liberarsi da tutte le catene che lo tenevano legato alla vita: irruenza, presunzione, arroganza, permettendosi così di affidarsi veramente e completamente a Dio, senza pretendere niente da Lui e senza voler percorrere la strada che si era preposto, ma affidandosi a Lui e abbandonandosi all’umiltà e alla semplicità di cuore sull’esempio di San Francesco.

Sempre, là sotto le croci, staranno e resteranno le donne e le madri e in questo cammino di passione giungeranno fino al sepolcro perché saranno sempre le donne a trovarsi e a ritrovarsi testimoni della resurrezione di Cristo e della salvezza dell’umanità.
... (continua)
sabato, aprile 04, 2009

Non arrestarti ma anzi, cautamente avanza

di Monica Cardarelli

Paura, gioia, emozione, sconforto, delusione, sogno, speranza, ricordi e altro ancora si affollava in quei lunghi minuti nella mente e nel cuore di Chiara mentre con le sue mani cercava di togliere le pesanti travi che chiudevano la porta posteriore della casa paterna, la ‘porticina del morto’, come era chiamata. Le sue mani si affrettavano nell’impresa mentre la sua mente andava a ritroso nel ricordare tutti i momenti vissuti lì, in quella casa, con la sua famiglia mentre il suo cuore pregustava la gioia e la bellezza della nuova vita che l’aspettava e che lei ancora non conosceva. Toglieva le travi che ostacolavano il passaggio e contemporaneamente toglieva dal suo essere i macigni che le impedivano la fuga. Una scheggia le entrò nella mano preannunciandole il dolore che avrebbe vissuto su di sé.

Era la notte della Domenica delle Palme, secondo alcuni storici il 28 marzo 1211, secondo altri andrebbe posticipata di un anno, il 18 marzo 1212. Chiara aveva preparato per tempo la fuga insieme a Francesco. Era stato Francesco a suggerirle le modalità della fuga e la scelta della Domenica delle Palme da parte di Francesco non fu certo casuale. Questo giorno è, nella Liturgia, un momento di festa che preannuncia la settimana della Passione. La fuga di Chiara, così, assume quasi la veste di una ‘fuga liturgica’.

“Era prossima la festa solenne delle Palme, quando la fanciulla con cuore ardente si reca dall’uomo di Dio per chiedergli che cosa debba fare, e come, ora che cambierà la sua vita. Il padre Francesco le ordina di accostarsi alle palme, nel giorno festivo, in mezzo al popolo, ben vestita e adorna, e che la notte seguente, uscendo dall’accampamento converta la gioia del mondo in lutto della passione del Signore. Così la domenica, nella folla delle donne, la fanciulla radiosa di splendore festivo entra in chiesa con le altre. La notte seguente, pronta ormai ad obbedire al Santo, attua la fuga desiderata in degna compagnia. E poiché non le parve opportuno uscire dalla porta solita, riuscì a schiudere con le proprie mani un’altra porta ostruita da mucchi di legna e di pietre, meravigliandosi ella per prima della sua forza.” Così Tommaso da Celano riporta l’episodio della fuga dalla casa paterna nel componimento agiografico ‘Legenda Sanctae Clarae Virginis’ redatto a seguito della canonizzazione di Chiara, avvenuta nell’agosto del 1255, a soli due anni dalla sua morte, l’11 agosto 1253.

La notte della domenica delle Palme fu lunga e densa per Chiara, appena diciassettenne, così come interminabile le sembrò la fuga dalla casa del padre che per lei significava anche la rottura con il mondo. Il sentiero che da casa la conduceva alla piccola cappella della Porziuncola, quella sera, sembrava non finire mai. “Abbandonati dunque la casa, la città e i consanguinei, si affrettò a raggiungere Santa Maria di Porziuncola. E lì i frati, che vegliavano in preghiera presso il piccolo altare di Dio, accolsero la vergine Chiara con le lampade. Lì, rinnegate le sozzure di Babilonia, consegnò al mondo il libello del ripudio; lì, rinunciando ai capelli per mano dei frati, abbandonò le sue bellezze. E quando ebbe prese le insegne della santa penitenza davanti all’altare della beata Maria e quasi davanti al letto nuziale di questa Vergine l’umile serva fu sposata a Cristo, subito san Francesco la condusse alla Chiesa di San Paolo, perché Chiara vi rimanesse fino a una diversa volontà dell’Altissimo.” (Tommaso da Celano, ‘Legenda Sanctae Clarae Virginis’)

Alla Porziuncola, Francesco la consacrò al Signore: il taglio dei capelli, spogliarsi delle vesti nobili del mondo, per scegliere di vivere come Lui, in santa povertà. È con la fuga dalla casa paterna e dal mondo che Chiara inizia la sua vera vita, entra nel mondo. Visitando la cappella della Porziuncola, nella Basilica di Santa Maria degli Angeli a Assisi, ho sentito un grande freddo. La stessa sensazione che forse ha provato Chiara nel muovere i suoi passi in quella piccola cappella illuminata solo dalla luce delle candele. Chiara, quella notte, decise la sua vita, e scelse di raggiungere l’unica ‘Persona’ che le dava un senso. Una sensazione di gelo, di salto nel vuoto che Chiara, appena diciassettenne, avrà provato nel seguire la strada di Francesco, da sola. Ma allo stesso tempo, Chiara avrà sicuramente avuto una grande gioia, prorompente.

Emozioni, sensazioni, ricordi contrastanti nel cuore e nella mente di Chiara dal momento della fuga dalla casa paterna fino al taglio dei capelli alla Porziuncola e perfino paura, smarrimento quando al Monastero di San Paolo alle Abbadesse (vi era entrata povera rinunciando alla dote che aveva donato e questo era motivo di grave scandalo per l’intera famiglia di Chiara) i parenti accorsero a riprenderla con la forza.
Poi, San Damiano, la chiesa ricostruita da Francesco. Ed è là e solo là che Chiara troverà la pace interiore e riuscirà a sedare un’inquietudine umana e spirituale che sentiva dentro di lei. Chiara è una giovane di diciassette anni che sente un fervore così ardente nei momenti in cui prega che si emoziona e piange. Una giovane che diventa donna giorno dopo giorno, scegliendo momento dopo momento la strada che il Signore aveva scelto per lei. Una donna, Chiara, che vuole ‘mettere i piedi dove li ha messi Lui’, fare gli stessi passi che Lui ha fatto, percorrere la strada che conduce a Lui. Una donna la cui immensa fede porta a credere che tutto è possibile, se questo ‘tutto’ è la volontà di Dio. Chiara, strumento della Sua volontà e del Suo amore.

Chiara è riuscita a sentire e vivere lo spazio interiore e si è lasciata abitare da Lui. La preghiera è il luogo e lo spazio dedicato all’incontro con Dio e non sarà mai un atteggiamento passivo ma un’azione costante, una meditazione continua che è movimento che conduce Chiara a commuoversi, a ‘muoversi con’, non solo con la sua mente e col cuore ma con tutto il suo essere. E piange. “Colloca i tuoi occhi davanti allo specchio dell’eternità, colloca la tua anima nello splendore della gloria, colloca il tuo cuore in colui che è figura della divina sostanza, e trasformati interamente, per mezzo della contemplazione, nella immagine della divinità di lui. Allora anche tu proverai ciò che è riservato ai soli suoi amici, e gusterai la segreta dolcezza che Dio medesimo ha riservato fin dall’inizio per coloro che lo amano.” (Lettera III a Agnese di Praga)

Anche la vita di Chiara ha avuto bisogno di tempo per chiarirsi. A San Damiano, finalmente, un po’ di pace. Lì Chiara scopre un mondo nuovo e ricco fuori e dentro di lei. Gradualmente, Chiara sceglie e riesce a dare un senso e un motivo alle sue scelte. Chiara voleva solo il privilegio della povertà. Sin dai primi giorni arrivano a San Damiano altre nuove Sorelle che Chiara accoglie con meraviglia, come un dono, di cui si sente responsabile. Giorno dopo giorno capisce veramente il senso e il valore della comunità. Giorno dopo giorno capisce e sceglie la clausura non come ‘Regola’ imposta da altri alle donne ma come scelta consapevole.

Dalla solitudine del mondo alla clausura che permetterà a Chiara di partire dall’unica relazione essenziale: quella con Dio. Da questa si irradierà nel mondo e così, dalla solitudine della confusione e dispersione del mondo alla moltitudine delle persone che Chiara riesce a contattare e coinvolgere nella sua vita piena - mai di ozio - di amore coinvolgente.

La clausura non è stata per lei una fuga dal mondo. Chiara ha scelto la clausura per aprirsi al mondo e per portare tutto il mondo dentro le mura del monastero. Chiara, vivendo a San Damiano, ha sentito che doveva pregare per tutti e avere gesti concreti per arrivare a tutti, con un grande abbraccio. “E giacchè una sola è la cosa necessaria, tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza. I risultati raggiunti, conservali; ciò che fai, fallo bene; non arrestarti ma anzi, con corso veloce e passo leggero, con piede sicuro, che neppure alla polvere permetta di ritardarne l’andare, cautamente avanza confidente, lieta e sollecita nella via della beatitudine.” (Lettera II a Agnese di Praga)

La qualità dei rapporti è al centro delle sue preoccupazioni. Chiara è una donna entusiasta, forte e determinata che non esita a inventarsi mille modi per giungere dalla sua cella a San Damiano fino in Boemia, o a Bruges, o fino al Papa che la visiterà in punto di morte. Intraprende, anche, una corrispondenza epistolare con Agnese di Praga. Ci restano solo quattro lettere che Chiara le scrisse ma da queste è già possibile cogliere l’amicizia che era nata fra le due donne. “Che cosa potrei ancora dirti? È meglio che la parola umana rinunci qui ad esprimerti il mio affetto per te; solo l’anima, nel suo linguaggio silenzioso, riuscirebbe a fartelo sentire. E poiché, o figlia benedetta, la mia lingua è del tutto impotente ad esprimerti meglio l’amore che ti porto; queste poche cose che ti ho scritto in modo così imperfetto, quasi dimezzando il pensiero, sono tutto quanto ho potuto dirti. Ti prego, però, che tu voglia ugualmente accogliere queste mie parole con benevolenza e devozione, ascoltando in esse soprattutto l’affetto materno di cui sono ripiena, in ardore di carità, verso di te e delle tue figlie ogni giorno.” (Lettera IV a Agnese di Praga)

Chiara scrive la sua Regola, il Testamento e la Benedizione. Chiara è la prima donna, nella storia della Chiesa, che ha scritto una Regola per le donne. Conoscendo il mondo di Chiara ho visto popolarsi il monastero di San Damiano ed ho sentito come per lei la sua vita sia stata un percorso: il percorso della croce. Dalla solitudine del mondo alla pienezza della clausura; dal silenzio della notte della fuga dalla casa paterna ai rumori del mondo della clausura; dalla povertà del mondo alla ricchezza della povertà; dalla sterilità del mondo alla fecondità della Comunità; dalla morte al mondo alla vita eterna con la morte terrena. Chiara è riuscita, con la sua semplicità di cuore e la ricchezza della sua femminilità, a inventare un modo nuovo di essere feconda nell’amore.
... (continua)


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