giovedì, aprile 30, 2009

Sri Lanka, guerra senza tregua

La diplomazia non ferma i bombardamenti governativi su ribelli e civili tamil

PeaceReporter - La missione diplomatica in Sri Lanka dei ministri degli Esteri britannico e francese, David Miliband e Bernard Kouchner, non è riuscita a convincere il presidente Mahinda Rajapakse a concedere una tregua umanitaria alle Tigri tamil per consentire l'evacuazione dei 50mila civili ancora intrappolati nella zona di conflitto. "Non ci sarà nessun cessate-il-fuoco", ha dichiarato Rajapakse dopo la partenza dei due diplomatici. "Gli occidentali cercano di fare pressione su di noi usando l'argomento dei civili: ma perché non vanno a vedere cosa hanno fatto e stanno facendo loro in Iraq e Afghanistan? Se io ho detto che non stiamo usando armi pesanti e bombardamenti per non mettere a rischio i civili, significa che è così. Ma questi inviati stranieri sono pronti a credere alla propaganda di un'organizzazione terroristica".

Ma le immagini e le notizie che giungono dalla zona dei combattimenti dimostrano che le forze armate di Colombo - che domenica avevano annunciato che non avrebbero più usato ‘armi pesanti' - stanno continuando a bombardare dal cielo, dal mare e dalla terra i cinque chilometri di spiaggia a nord di Mullaitivu rimasti in mano ai guerriglieri dell'Ltte.

I bombardamenti non si fermano. Un video diffuso dalle Tigri tamil mostra i caccia governativi che lunedì 27 aprile sganciavano bombe sulla cosiddetta ‘Safe Zone'. Alle 6 di pomeriggio, sempre secondo le Tigri tamil, sono iniziati i bombardamenti di artiglieria, proseguiti senza sosta tutta la notte, fino alle 11 del mattino seguente: in diciassette ore almeno 2.600 razzi, 2 mila proiettili di mortaio e mille cannonate, sparate anche dalle navi della marina militare, sono piovute sulle tendopoli tra le palme, uccidendo 272 civili e ferendone altre centinaia. Impossibile confermare queste notizie, vista l'assenza in loco di giornalisti e osservatori indipendenti. Anche se le immagini delle esplosioni sulla spiaggia confermano il bombardamento sugli sfollati.
Ieri mattina, mercoledì, i guerriglieri avrebbero raccolto altri 160 cadaveri di civili. E nel pomeriggio, attorno alle 16, i bombardamenti, da terra e dal mare, sarebbero ricominciati, uccidendo altri 150 civili e colpendo anche l'unico ospedale da campo rimasto: il bilancio fornito ieri sera dall'Ltte parla di almeno nove pazienti uccisi e quindici feriti.

Uccisi 6.432 civili, 150 mila profughi maltrattati. Le Nazioni Unite, non le Tigri tamil, hanno contato 6.432 civili tamil uccisi tra il 20 gennaio e il 20 aprile, ovvero più di settanta ogni giorno. Ora che la densità di sfollati è aumentata (50 mila ammassati in otto chilometri quadrati), le cifre fornite quotidianamente dall'Ltte potrebbero anche essere verosimili.
Non se la passano meglio i 150 mila civili tamil scappati nelle ultime settimane dalla zona di conflitto e finiti nei ventiquattro campi d’accoglienza allestiti e gestiti dall’esercito, dove, secondo il sito filo-ribelle TamilNet, i profughi vengono trattati “come i prigionieri dei campi di concentramento nazisti”: “Le condizioni igieniche – denuncia il sito – sono disumane, il cibo viene lanciato ai profughi come ai cani, e la gente è costretta a correre. Nel campo di Menik, a Vavuniya, due bambini sono morti schiacciati nella calca. Sessanta profughi sono già morti per malattie. E almeno trecento giovani sono stati forzosamente arruolati nell’esercito”. Precedentemente erano già stati denunciati maltrattamenti, torture e sparizioni. Nesso può uscire dai campi, salvo gli ultrasessantenni che hanno parenti in zona.
giovedì, aprile 30, 2009

Corea del Sud: repressione dei lavoratori migranti

1 maggio: appello di Amnesty International per i lavoratori discriminati in Corea del Sud

Amnesty International - Molti lavoratori migranti in Corea del Sud vengono discriminati, sfruttati e costretti a operare in pessime condizioni. Nel novembre 2008, una missione di ricerca di Amnesty International ha visitato il paese e ha intervistato i lavoratori migranti, che in Corea del Sud sono almeno 700 mila. La maggior parte sono impiegati nel settore manifatturiero, agricolo e nella pesca. Circa un terzo di loro è irregolare e non ha quindi il permesso ufficiale per lavorare nel paese.

La Corea del Sud è stato uno dei primi paesi asiatici a riconoscere legalmente i diritti dei lavoratori migranti. Tuttavia, i lavoratori, sia regolari che irregolari, continuano a subire discriminazioni. Coloro che provengono dalla Cina, dal Vietnam, dal Bangladesh e da altri paesi della regione sono costretti a lavorare per molte ore senza che vengano loro pagati gli straordinari. Hanno a che fare con macchinari pesanti o con prodotti chimici pericolosi, hanno una formazione scarsa o nulla e non sono dotati di attrezzature di protezione. Quando avvengono incidenti sul posto di lavoro, molti lavoratori migranti non ricevono le adeguate cure mediche né alcun tipo di risarcimento. Molti di coloro che sono stati intervistati hanno subito gravi incidenti legati alle attività industriali, tra cui fratture, amputazioni degli arti e ustioni di terzo grado.

Le donne, in particolar modo, sono sottoposte a sfruttamento e ad abusi di tipo sessuale da parte di manager coreani e lavoratori migranti uomini. La loro vulnerabilità è accentuata dal fatto che spesso sono le uniche lavoratrici donne della fabbrica. Gli alloggi dei lavoratori migranti sono essenziali, si va da abitazioni in stile dormitorio a container per il trasporto trasformati in abitazioni con bagni e cucine all'esterno. Le donne condividono lo spazio con gli uomini; una donna intervistata ha raccontato che non aveva altra scelta che utilizzare lo stesso bagno.

Prima che un lavoratore migrante possa cambiare impiego, il datore deve firmare una sorta di documento di rilascio, ciò li rende ancora più soggetti a sfruttamento. Qualora non riescano a trovare una nuova occupazione entro due mesi vengono espulsi. Quando i datori di lavoro si rifiutano di concedere loro le dimissioni, questi si ritrovano in condizioni talmente insopportabili che non hanno altra scelta se non licenziarsi, diventando così lavoratori irregolari.

Irruzioni ed espulsioni
Nel settembre 2008, il governo ha annunciato la sua intenzione di espellere, entro il 2012, la metà dei circa 220 mila lavoratori irregolari stimati nel paese. Il 12 novembre, agenti dell'immigrazione e della polizia hanno fatto irruzione nelle fabbriche di Maseok, nella provincia di Gyeonggi, a nord di Seoul, arrestando 110 lavoratori migranti irregolari. Durante l'irruzione, a una migrante filippina è stato negato il permesso di andare in bagno ed è stata costretta a urinare in pubblico. Un migrante del Bangladesh si è rotto una gamba mentre tentava di fuggire, poi è stato ammanettato e ha dovuto aspettare cinque ore prime di essere trasportato in ospedale. "Ho urlato dal dolore e gli ho detto che la gamba mi faceva molto male", ha dichiarato. "Non potevo camminare e ho dovuto essere trasportato da cinque agenti dell'immigrazione in una sala d'attesa. Mi hanno preso in giro e detto di smettere di piangere e di esagerare.".

Almeno altri quattro migranti hanno dovuto essere ricoverati per ferite gravi, riportate nel tentativo di fuga. Il giro di vite continua e di conseguenza il numero dei casi di maltrattamento dei lavoratori migranti durante queste operazioni di repressione aumenta. Diversi lavoratori migranti detenuti sono stati espulsi senza che le autorità sud coreane li aiutassero a recuperare i loro salari non pagati. Il ministero della Giustizia ha stabilito che le azioni repressive di novembre "erano necessarie per dare un segnale forte contro il comportamento disordinato dei migranti illegali", che trasformano posti come Maseok in "tuguri" e "in focolai di criminalità".

Obiettivo sindacato
Anche il diritto dei lavoratori migranti di essere liberi di formare o di unirsi a sindacati è in pericolo. Le autorità hanno preso di mira i dirigenti del Sindacato dei migranti (Mtu) che sono stati arrestati ed espulsi tra novembre e dicembre 2007 e nel maggio 2008. Il ministero del Lavoro ha inoltre negato lo status legale di sindacato all'Mtu sulla base del fatto che i lavoratori migranti irregolari non hanno dal punto di vista legale gli stessi diritti, tra cui quello alla libertà di associazione, garantiti invece agli altri lavoratori regolari in Corea del Sud. Nei periodi di crisi finanziaria e di taglio dei costi, i migranti devono provvedere personalmente ai costi per il vitto e l'alloggio. Sono inoltre preoccupanti gli atti di xenofobia in aumento. Mentre il governo sudcoreano continua le azioni repressive, cresce la paura che i lavoratori migranti possano essere ulteriormente emarginati.
giovedì, aprile 30, 2009

La presenza della Santa Sede negli scenari internazionali

Lezione–conferenza dell’arcivescovo Justo Mullor presso l’Università della Santa Croce


del nostro collaboratore Carlo Mafera - prima parte

“Sono inserito nella diplomazia pontificia da oltre mezzo secolo. Peccato che questo tipo d'incontri universitari non esistano da allora! Sarebbe stato positivo per tutti: per la Chiesa, per i giornalisti e per quanti, nei cinque continenti, credenti e non-credenti, s'interessano al "fenomeno religioso". Così ha esordito l’arcivescovo Justo Mullor alla lezione-conferenza sulla presenza della Santa Sede negli scenari internazionali presso l’Università della Santa Croce, venerdì 24 aprile. “Nel mondo globalizzato in cui viviamo - ha continuato l’arcivescovo - siamo costretti a scegliere tra il dialogo vero, fatto di reciproco e rispettoso interesse e mutua conoscenza, e il confronto sterile e sospettoso. Dopo la scoperta della pubblicità anche al servizio della politica, delle ideologie e di tutto ciò che potremmo chiamare "grandi interessi", l'informazione religiosa è diventata ulteriormente complessa. Esiste l'informazione religiosa ed anche le interpretazioni interessate della medesima.”

“Entriamo pienamente nel tema e facciamoci una domanda fondamentale: perché la Chiesa cattolica ha una diplomazia, chiamata pontificia, e non ce l'hanno altre chiese cristiane o altra confessioni religiose? È una domanda legittima, che molti di voi si saranno fatti prima di venire a Roma e che forse si fanno ancora. La risposta ha un doppio versante: l'uno teologico e l'altro storico.
Teologicamente - ha messo in evidenza l’arcivescovo Mullor - iI Vangelo di Matteo tramanda alla posterità queste parole di Gesù prima di concludere i due anni e mezzo della sua vita pubblica: A me è stato dato ogni potere in ciclo e in terra. Perciò andate, e fate diventare miei discepoli tutti gli uomini del mondo (...) Insegnate loro a ubbidire a tutto ciò che vi ho comandato. E sappiate che io sarò con voi, tutti i giorni,sino alla fine del mondo (Mat.28, 18-20).
In un mondo, dove molti considerano impossibile la trascendenza e la presenza di Dio tra gli uomini, ad alcuni possono sembrare enigmatiche queste parole. Non è sembrato così ai primi suoi discepoli né ai suoi attuali seguaci - ha proseguito Mullor - Cercare di realizzare tali parole ha implicato tutta una storia. Essa è ancora registrata dai vostri giornali: una storia di continua presenza e di frequente martirio, non solo ai tempi dell'impero romano, ma anche ora. Bastino questi nomi a provarlo: Hitler, Stalin, ieri; lo Stato di Orissa, nell'India di oggi. Per averne conferma, basta entrare - via internet - in un motore di ricerca e "cliccare": martiri cristiani oggi. Sono numerose le pagine dedicate al tema.

Con le parole di Gesù appena citate, prese sul serio - come tutte le altre restanti del Vangelo - la Chiesa ha cercato sin dai primi momenti di dialogare e di parlare con tutti: con poveri e ricchi, vicini e lontani, comprese le autorità e i responsabili sociali. In Cristo, Dio si è fatto storia particolarmente visibile: Dio è diventato uomo. Perciò i suoi discepoli mai hanno cercato di rifugiarsi in sette per iniziati, come gli gnostici. Il cristianesimo è stato progettato verso l'universalità e la storia: Pietro e Paolo sono partiti verso Roma, allora il centro del mondo, dove hanno trovato il martirio ma anche molteplici loro amici, sia al Trastevere di allora che alla stessa sua corte imperiale - così ha affermato il presidente emerito della Pontificia Accademia.

Sul questo intrinseco "dialogo con il mondo", quello di allora e quello dei secoli seguenti, tutti voi conoscete certamente la Gaudium et Spes, del Vaticano II. Alcuni di voi avranno forse già letto l'interessante libro “Indagine su Gesù” di un vostro collega italiano,Antonio Soccì, che dal Novembre scorso ha avuto già sette edizioni. La sua tesi è che, in quel breve periodo della sua vita pubblica, cioè in meno di tre anni vissuti in una delle provincie sperdute dell'Impero romano, Gesù ha capovolto la storia del mondo e esercita un fascino su tutti, anche su molti dei suoi dichiarati nemici. In quella postrema norma di parlare di Lui con tutti si trova anche la radice della diplomazia pontificia: oltre che con gli individui, la Chiesa ha sempre inteso parlare con le comunità formate dagli individui.

Storicamente: La Santa Sede ha una diplomazia pontificia anche perché è parte creativa della diplomazia in genere. Essa non ha origine in privilegi esterni o artificiali, ma nella storia da lei stessa creata, insieme ad alcune entità nazionali e internazionali, come, per esempio, il Sacro Romano Impero, l'Impero d'Oriente con sede a Costantinopoli, la Spagna e il Portogallo, la Francia e la Gran Bretagna, Venezia e Firenze del Cinquecento.

Nell'ancor recente discussione sulle "radici cristiane dell'Europa", coloro che hanno voluto ignorarle hanno ignorato pure la storia della gestazione della diplomazia, il cui più recente ed ampio capitolo è la creazione delle Nazioni Unite (1945) e l'ascesso alla sovranità nazionale delle "colonie" negli anni ‘60 de secolo scorso. Nell’epoca carolingia ebbe inizio il potere temporale dei Romani Pontifici. Questi, alla loro potestà religiosa, cominciarono ad unire una potestà politica. L'occasione storica fu fornita da Peppino il Breve e da suo figlio Carlo Magno, i quali offrirono crescenti e generose donazioni al Successore di Pietro. Questi, alla loro potestà religiosa, cominciarono ad unire una potestà politica. L'occasione storica fu fornita da Pipino il Breve e dal suo figlio Carlo Magno, il quali offrirono crescenti e generose donazioni al Successore di Pietro. Sin dall'epoca carolingia, la diplomazia pontificia diventa sempre più attiva ed ascoltata. Non va infatti dimenticato che la cristianità si estendeva allora dal Portogallo agli Urali. Lo Scisma di Oriente avvenne soltanto nel 1054. In tale contesto di costante incremento delle attività diplomatiche, alla fine del XV secolo avvenne la creazione delle ambasciate permanenti dei paesi cristiani a Roma e della Santa Sede nelle capitali dei medesimi.

Tra i primi Ambasciatori a Roma vanno citati quelli di Castiglia e di Aragona (1482), Venezia (1488), Francia (1500). Tra i Nunzi Apostolici (chiamati anche Collectores) quelli in Spagna (1492), Venezia (1500), Francia (1500), Impero Germanico (1513), Napoli (1514), Polonia (1555), Toscana e Savoia (1560), Portogallo (1513), Belgio (1577).
La diplomazia pontifica dal 1500 ad oggi La creazione delle Ambasciate e delle Nunziature permanenti è avvenuta praticamente intorno a due avvenimenti di grande portata storica: la Scoperta dell'America e la Riforma luterana. Nell'attualità: “Ho stimato doveroso fare i brevi cenni storici che precedono. Esse costituiscono quelle che possiamo chiamare le radici storiche e geografiche della diplomazia pontificia, ma anche della diplomazia universale. La diplomazia attuale ha le sue radici in quella di ieri. Ne sono prova le due grandi Conferenze di Vienna, quella del 1815 - sorta dopo le vicende napoleoniche - e quella del 1961, promossa e celebrata dalle Nazioni Unite, cioè nel contesto sorto dopo la II Guerra Mondiale. In sintesi: tra il 1500 e il 1900 il numero di paesi o delle "entità politiche" con cui la Santa Sede ha avuto rapporti diplomatici si è aggirato intorno ad una ventina. All'inizio del secolo scorso le Nunziature erano appena 15. Il mondo era infatti abbastanza ristretto. Era l'epoca dei poteri assoluti e dei nazionalismi incipienti. Con l'Apertura della Breccia di Porta Pia, il 20 Settembre del 1870, la Santa Sede non cessò le proprie attività diplomatiche. Tra quella data e l'II Febbraio 1929, in cui furono firmati i Patti Lateranensi, il numero delle Rappresentanze Pontificie e delle Ambasciate presso il Vaticano non cessò di aumentare. Quando le truppe di Garibaldi entrarono a Roma, le Ambasciate presso la Santa Sede erano 16, al momento della firma dei Patti Lateranensi erano 29.

Pur considerandosi "prigionieri" in Vaticano, i successivi Papi esercitarono sempre lo lus Legationis, risultante dall'indiscutibile sovranità della Santa Sede. Il Vaticano aveva perso l'ultima delle "sue anacroniche guerre", fatto che oggi appare positivo. Ma non aveva perso i suoi diritti diplomatici, forgiati lungo una ben nota storia. La sua personalità internazionale non sarebbe stata più misurata in migliaia di chilometri quadrati. I 44 ettari riconosciuti dai Patti Lateranensi per disfarsi dal peso materiale che una lunga storia aveva aggiunto alla sua missione religiosa e pastorale fondamentale. Infatti, Pio XI non accettò la proposta del Governo italiano di allora (quello fascista presieduto Benito Mussolini) di aggiungere a tali 44 ettari l'ampio parco di Doria Pamphili. Cosciente della novità dei tempi, nonché del peso che lo stato temporale della Santa Sede aveva comportato per i suoi Predecessori e per la Chiesa, Papa Ratti volle esprimere in modo totalmente chiaro che, per l'esercizio della missione pastorale e diplomatica del Successore di San Pietro e per assicurare l'indipendenza totale della Santa Sede, erano sufficienti pochi ettari.”

Quale è, attualmente, la geografia e la storia della medesima, sulle cui attività voi informate ora i vostri lettori o i vostri ascoltatori?
Come abbiamo appena suggerito, all'inizio del XX Secolo le Rappresentanze Pontificie erano appena 15 e 29 nel 1929. Oggi - 80 anni dopo i Patti Lateranensi - sono intorno a 200: 179 Nunziature Apostoliche e una ventina di Missioni Permanenti presso le Organizzazioni Internazionali. Si tenga presente che, nel 2009, i paesi membri delle Nazioni Unite sono 192. Il Secolo XX è stato il secolo dell'espansione mondiale della diplomazia pontificia.

Una nota curiosa al riguardo: qualche anno fa si è avuto un appoggio importante delle Nazioni Unite alla diplomazia pontificia. Un elevato numero di ONG (Organizzazioni Non Governative) ha preteso che la Santa Sede fosse costretta ad avere lo stesso loro "statuto consultivo", rinunciando a quello di "Osservatore Permanente". Pretendevano di mettere la Santa Sede davanti alla disgiuntiva di diventare Membro di pieno diritto delle Nazioni Unite - con tutti gli oneri risultanti - o di andarsene... La manovra è stata considerata talmente illogica - ed antistorica! - che l'Assemblea Generale, il 1° Luglio del 2004, rifiutò all'unanimità (compresi alcuni dei pochi paesi privi di relazioni diplomatiche col Vaticano) la domanda delle ONG e mantenne, ampliandone i diritti, lo Statuto attuale della Santa Sede.

Davanti a questo panorama, appare logico domandarsi quanti sono i membri della Diplomazia pontificia. Essi si aggirano intorno a 350: 111 Capi Missione e 250 Segretari e Consiglieri di Nunziatura. Il numero relativamente ridotto del personale diplomatico della Santa Sede si spiega col fatto che, pur trattandosi fondamentalmente di una diplomazia religiosa e antropologica, il suo interesse si concentra su questioni di ordine generale: libertà religiosa, ecumenismo, etica familiare e sociale, educazione, pace e quanto può comprometterla. I temi di ordine politico, commerciale, culturale, finanziario e militare - sui quali versa la diplomazia civile - interessano la Santa Sede soltanto nella misura in cui possono affettare la vita umana, religiosa o pastorale. Il lavoro specifico dette Nunziature Apostoliche viene elencato nei canoni 364 e 265 del Codice di Diritto Canonico, promulgato nel 1983 da Giovanni Paolo II.

Qualche breve cenno ai grandi temi cui s'interessa direttamente o indirettamente la diplomazia pontificia.
(1) La libertà religiosa e l'ecumenismo. Difendendo questi due valori fondamentali, la Chiesa difende tutte le libertà. Basti l'esempio dell'azione del Cardinale Casaroli nel contesto della Conferenza di Helsinki. La Ostpolitik della Santa Sede da lui condotta a diversi livelli appare tra le riuscite più clamorose dell'azione della Santa Sede - e in concreto di Giovanni Paolo II - nel XX Secolo.
(2) L'ecumenismo è uno dei grandi disegni del Vaticano II. Esso comporta che le confessioni religiose cristiane - cattolicesimo, ortodossia e protestantesimo - si purifichino da aderenze temporali o vengano adoperate da terzi - come purtroppo è accaduto in passato - a scopi poco consoni alla religione.
(3) Dialogo interreligioso, nel quale va valutato in particolare quello con l'Islam e gli insegnamenti di alcuni estremisti circa la "guerra santa".
(4) La persona umana e i suoi diritti fondamentali, continuamente minacciati anche in seno ad alcune democrazie. L'attuale crisi globale è un'evidente prova.
(5) La Bioetica, i suoi valori positivi e quelli potenzialmente negativi, come certi aspetti dell’ingegneria genetica" .
(6) La famiglia, direttamente vincolata al sacramento del matrimonio.
(7) L'educazione, la cultura e la scienza.
(8) La questione sociale, la pace e il disarmo.
(9) Le mediazioni tra Stati per evitare gravi tensione tra di loro. L'ultima si concluse il 2 Maggio 1985 con il Trattato di Pace e di Amicizia tra l'Argentina e il Cile durante il Pontificato di Giovanni Paolo II.

Sono cosciente di aver condotto una carrellata troppo rapida su una realtà assai vasta e che rappresenta una lunga storia di rapporti complessi, ma in ultima analisi postivi, tra la Chiesa cattolica e un numero sempre crescente di Stati antichi e moderni. Attraverso i suoi Rappresentanti, il Successore di Pietro è presente in tutte le Chiese particolari e ha rapporti diplomatici con quasi centottanta paesi tra i poco più di duecento presenti nelle Nazioni Unite. La morte di Giovanni Paolo II e l'elezione di Benedetto XVI tre settimane dopo hanno costituito due manifestazioni di questa presenza universale della Santa Sede nel concerto delle Nazioni. Anche paesi come la Cina, che ancora non hanno relazioni diplomatiche con la Santa Sede, furono presenti in tali momenti. Ciò dimostra l'attenzione che il mondo globalizzato presta all'istituzione bimillenaria che è la Chiesa cattolica. Come Cristo stesso, Essa cerca di dialogare con tutti, eventuali avversari compresi.
giovedì, aprile 30, 2009

Il negazionismo

Rifiuti e corruzione, ecomafie e usura, infiltrazioni nell’economia e negli appalti e riciclaggio, racket e droga, prostituzione e mafie straniere. Campanelli d’allarme a ripetizione nel corso di un 15ennio. Con tanto di visite ministeriali, istituzioni di corpi investigativi speciali, riflettori puntati da parte del Parlamento, della Dna, della Dia e della commissione antimafia. Eppure quel pendolo della consapevolezza oscilla, ciclicamente.

LiberaInformazione - La parabola sale. Da pochi mesi al Viminale, Bobo Maroni arriva in Abruzzo per incontrare il gotha delle istituzioni regionali e locali. La questione mafiosa è aperta. Dal solito procuratore De Nicola riceve un rapporto dettagliato, con un avvertimento: dopo la criminalità economica arriva quella armata. E una richiesta: gli organici delle procure, soprattutto a Pescara, sono ridotti. Maroni incassa e promette attenzione. La politica e le autorità giudiziarie mantengono la guardia, almeno a parole. Non durerà a lungo. Nel ’96, alla vigilia del varo del governo Prodi, dall’associazione Libera arriva la chiamata generale alle armi: citando i dati della Dia, si ravvisa come le estorsioni aumentino soprattutto nelle regioni “non convenzionali”, e cioè Lazio e Toscana, Marche e Abruzzo. Le mafie sono in tutt’Italia, vigilare.

La parabola scende. Prodi è presidente del consiglio e a guidare la commissione parlamentare antimafia va un abruzzese, famoso, Ottaviano Del Turco, leader dello Sdi, i socialisti sopravvissuti all’ecatombe di Mani pulite. Condizioni ideali, almeno sulla carta. Ma la lotta alle mafie in Abruzzo non si fa neanche a parole. Semplicemente perché la mafia torna a non esistere. O nella migliore delle ipotesi è un malanno in un corpo sano, da debellare con l’aspirina, ma facendo attenzione a non alimentare l’allarmismo (sacrosanto) perché altrimenti i turisti scappano (un po’ meno sacrosanto).

Il bomber del riduzionismo. Del Turco mette a segno una splendida tripletta tra il ’97 e il ’99, perle di negazionismo, ancora più gravi considerato il ruolo istituzionale ricoperto e lo spessore del politico. Uno. Nel ’97 la Legambiente lancia l’allarme ecomafie: troppe cave, troppi terreni disabitati e non controllati, le ecomafie sversano quello che vogliono. Traffici confermati dalla Dda di Roma. Per Del Turco esagerano. Perché “per parlare di mafia bisognerebbe rilevare un controllo militare della malavita sul territorio, un’omertà insopportabile e l’inquinamento della politica e della pubblica amministrazione, condizioni che francamente mi sembra ridicolo individuare in Abruzzo”. I fatti lo smentiranno clamorosamente. Due. Il vecchio socialista tira fuori la retorica dell’alibi, parlando a Oppido Mamertina in tempo di faide calabresi. E cioè a chi chiede lavoro per sconfiggere la ‘ndrangheta, il capo dell’Antimafia dice che “nel mio paese, in Abruzzo, la disoccupazione è uguale a quella di Oppido, ma l’ultimo crimine commesso risale a decenni fa”. Tre. Siamo nel ’99 e nelle supercarceri dell’Italia Centrale qualcosa non funziona, perché dal 41 bis arrivano papelli e proclami. Ci sono delle connivenze. E allora Del Turco si preoccupa di impedire che “l’Abruzzo e le altre regioni che non l’hanno ancora sperimentato come altre zone del Meridione conoscano il flagello della mafia”.

L’assist. Una sola realizzazione, ma davvero di notevole fattura quella di Edo Ronchi. Siamo ancora nel ’98 e si parla di ecomafie nelle lande della Marsica e sulla costa adriatica. Il ministro dell’Ambiente del centrosinistra è lapidario: “L’Abruzzo non fa registrare infiltrazioni di criminalità organizzata quali mafia, ‘ndrangheta e camorra”. Quando non spara, la mafia non esiste. Eppure la Dia decide pochi mesi dopo, nel ’99, di istituire un gruppo di lavoro sperimentale che si occuperà delle aree criminali non tradizionali, il Nat. Il compito è quello di studiare l'evoluzione degli assetti criminali reali, cioè “non visibili perché non ancora compiutamente individuati”.

L’emergenza rapine. Puntuali ogni anno arrivano analisi dai risultati costanti: la presenza mafiosa si stabilizza, si radica. Nuovi allarmi e nuove frontiere. Ma tanti silenzi. Addirittura nel 2005 prefetti e forze dell’ordine si siedono attorno a un tavolo per dire che in Abruzzo la mafia non esiste, ma ci sono troppe rapine, tanto che bisogna creare una task force intercorpi nelle quattro province. La mafia non si vede, quindi non c’è.

Ritorno all’isola felice. Ci sono voluti dieci anni, ma alla fine ci si è riusciti: l’Abruzzo è di nuovo un’isola felice. Anzi, non ha mai smesso di esserlo. Il negazionismo lascia ormai il campo alla rimozione. E se proprio c’è qualcosa che turba l’ordine e la pace, deve essere qualcosa di estraneo, di esterno come le mafie straniere (Anno giudiziario 2001, avvocato generale presso la Corte di Appello dell’Aquila, Brizio Montanaro). A cambiare è la prospettiva: le mafie non preoccupano più, perché non sono
Le mafie di passaggio. Ecco che nel ritornello incappa anche il ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu. Nel 2005 a Chieti si lascia andare all’ottimismo sfrenato: l’Abruzzo è la regione più sicura d’Italia. Perché? Il futuro presidente della commissione antimafia la mette sull’antropologico: sarà “l’indole pacifica degli abruzzesi”. Che non stuprano, non rubano, e non si ubriacano più di tanto. Peccato che troppi immigrati contribuiscono “ad innalzare il livello di delittuosità nella regione. E spesso si tratta di immigrati irregolari, di clandestini”. Quindi di delinquenti gioco-forza. Nel discorso di Pisanu trovano posto anche le mafie, ma solo “di passaggio”, o meglio l’Abruzzo è una “terra di passaggio” per il crimine organizzato. Che vorrebbe insediarsi ma non ci riesce. Anche se lo stesso Pisanu ammette che nel solo 2004 sono state sgominate 25 associazioni criminali, e catturati tre capi mafia latitanti. Che passavano di là. Il tono si fa minaccioso quando il ministro tira fuori una sfilza di gentilizi: “Avvertiamo i pericoli – dice ai chietini – nel muoversi di mafie interne e internazionali, non ci sfuggirà la presenza di cittadini albanesi, senegalesi, rumeni, cinesi, maghrebini, con forti inclinazioni a delinquere, né quella di organizzazioni eversive, come è successo con i mujaheddin del popolo iraniano o con appartenenti al movimento hezbollah libanese”. La promessa è stata mantenuta: la lotta armata medio-orientale non ha preso piede in

Lo stile Grasso. Diplomatico sin dall’avvio del mandato, il procuratore nazionale antimafia a domanda risponde: “Abruzzo isola felice? Se lo siete cercate di restarlo”. Ammette di non saperne troppo, però si rifiuta “di credere che la mafia sia a Pescara come a Palermo”.

La rimozione. L’invito dalle procure è alla cautela nelle analisi, per evitare allarmismi, e soprattutto alla massima vigilanza, perché il rischio infiltrazioni è innegabile. Quello che sfugge alle analisi dei commentatori è la memoria del passato, del biennio ’92-’93, della relazione Smuraglia, delle presenze accertate, di un certo grado di inquinamento mafioso, nella politica e nell’economia, dati senza alcuna rilevanza penale, ma comprovati. Ecco che la relazione d’inaugurazione dell’anno giudiziario 2007 racconta di un “Abruzzo ancora isola felice”. Anche se è in corso un’inchiesta su infiltrazioni della ‘ndrangheta, si tratta di fatti dal “carattere sporadico”. Di stabili ci sono straccioni albanesi e sudamericani, che trattano in prostitute e in droga. Eppure, gli stessi magistrati dicono che usura, estorsioni, reati finanziari e fallimenti sono in vertiginoso aumento.

In controtendenza. Il presidente della commissione antimafia Francesco Forgione alza un po’ la media. Parlando nel marzo del 2007 ricorda la presenza degli agguerriti clan albanesi sulla costa, parla di usura e riciclaggio, di speculazioni edilizie e discariche abusive, alludendo poi a “certi investimenti”, che ben presto porteranno gli inquirenti al tesoro di Ciancimino (operazione Alba d’oro). Per Forgione “non c’è solo un terreno fertile, ma ci sono anche affari fertili”. Prima dello scioglimento delle Camere, in commissione antimafia era arrivata la proposta di una visita in Abruzzo, ma il tempo ha remato

Prestare attenzione. Nel 2008, Grasso aggiusta il tiro, anche perché le analisi della Dna parlano chiaro. Bisogna “prestare massima attenzione”,i capitali mafiosi girano e “sono invisibili perché non danno possibilità di manifestazioni esteriori”. In realtà, in quel ’93 non troppo lontano la commissione antimafia distribuì con la relazione Smuraglia anche un breve vademecum ad uso di tutti. Per testare la possibile presenza mafiosa in “aree non tradizionali” basta prestare attenzione ad alcuni indici regolatori: “L’eccessivo turn-over di licenze commerciali, la frequente acquisizione di immobili e licenze con pagamento in contanti, l’acquisizione di immobili cui non segue alcuna concreta utilizzazione, il diffondersi di società finanziarie al di là del normale sviluppo della zona, lo squilibrio in società registrate tra oggetto sociale e capitale dichiarato, la diffusione dell’usura; l’accentuato interessamento verso società in stato di crisi, tutti i fenomeni ricollegabili a fatti estorsivi e gli improvvisi arricchimenti”.

La quasimafia. Ci ha riflettutto qualche anno Brizio Montanaro. E nel gennaio del 2009, aprendo l’anno giudiziario a L’Aquila, arriva alla conclusione che “stanno aumentando

possibilità che soggetti di rango mafioso vengano ad operare nel territorio e sfruttino tendenze, filoni criminali favorevoli, onde radicarsi definitivamente”. Intanto “la mafia in senso tecnico in Abruzzo non c’è”, però ci sono le estorsioni “in aumento costante”. Ecco la capriola linguistica: “È questo un sistema di tipo paramafioso che può preparare il campo all’insediamento di gruppi mafiosi”.
giovedì, aprile 30, 2009

Crisitanesimo e Islam: la necessità del dialogo in Europa

Si è svolto a Bordeaux un primo importante incontro

Bordeaux (PapaBoys) - Per 2 giorni delegati delle Conferenze episcopali per i rapporti con i musulmani di Portogallo, Spagna, Francia, Inghilterra, Belgio, Germania, Svizzera, Bosnia ed Erzegovina, Slovenia, Polonia, Italia, Malta, Scandinavia, Austria e Turchia, insieme al Cardinale Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, si sono incontrati a Bordeaux per condividere quanto ciascun paese sta facendo nel campo del dialogo con i musulmani. La riunione è stata ulteriormente arricchita dalla presenza di don Andrea Pacini, esperto rinomato del dialogo con il mondo musulmano e che nel 2005 ha pubblicato un volume sulla realtà dei giovani musulmani in Europa, da Martino Diez, presidente della Fondazione Oasis di Venezia, da P. Hans Vöcking dei padri missionari africani e da contributi pervenuti dalle Conferenze episcopali dei Paesi Bassi, dell'Albania e della Conferenza Episcopale SS. Cirillo e Metodio.

L'incontro è iniziato con una presentazione del Card. Tauran sullo status quaestionis del dialogo con i musulmani. Momento importante del dialogo interreligioso è stato la pubblicazione della "Lettera dei 138". Da ciò è nata l’idea del primo incontro del Forum cattolico-musulmano che si è riunito nel mese di novembre 2008 a Roma. In questi mesi il dicastero presieduto dal cardinale Tauran ha lavorato su degli Orientamenti pastorali la cui pubblicazione è prevista dopo la pausa estiva. Altri punti significativi della presentazione del cardinale è stata l'importanza ma anche la complessità che la questione del dialogo con i musulmani riveste per la Chiesa, anche se a differenza di altri tempi, oggi la presenza musulmana è sostanzialmente pacifica. Questo dialogo ci offre l'opportunità di approfondire la nostra fede, così da testimoniarla e darne ragioni, solo e vero modo di avere un dialogo sincero, senza cadere nel relativismo.

La riunione è proseguita con la presentazione di rapporti che i delegati hanno preparato circa la situazione del dialogo nei loro paesi. In sostanza, quanto emerge è la domanda, sempre attuale, di come rapportarci ai musulmani oggi in Europa. Si nota chiaramente come, nonostante la grande diversità di approcci, la connessione della presenza musulmana in Europa non può più solo essere collegata e affrontata alla stregua della questione del fenomeno migratorio. Se ci sono ancora alcuni paesi in cui questo è vero, nella maggior parte dei paesi europei, i musulmani appartengono alla seconda, terza, quarta e addirittura quinta generazione, quindi persone nate ed educate in Europa, che sono e si riconoscono pienamente cittadini europei. Tra le sfide che il dialogo interreligioso mostra vi sono questioni legate al tema dei matrimoni misti, dell'istruzione e dell'integrazione nelle scuole e nei movimenti giovanili cattolici dei giovani musulmani, la questione di tensioni in alcune città europee circa la costruzione di moschee e minareti. Dall’altra parte si riscontra una certa sintonia su alcuni temi che indicano come questo dialogo può aiutare a elaborare posizioni in comune circa le questioni legate al tema della bioetica o della presenza della religione nello spazio pubblico.

La presentazione di don Andrea Pacini sui giovani musulmani europei ha permesso di evidenziare come, per capire l'identità dei musulmani, si dovrebbe vedere l'intersezione di tre fattori: il rapporto con l'Islam “etnico” delle prime generazioni di immigrati, il rapporto con la società europea e, infine, l'influenza dei flussi transnazionali dei musulmani in Europa. Inoltre si assiste sempre più ad una differenziazione tra un tipo più tradizionale di esperienze legate all’islam dei paesi di provenienza da altre forme più personalizzate segnate dalla cultura europea, di tendenza a volte più liberale e in altri casi di corrente "neo-ortodossa". Si tratta d’altra parte di un nuovo tipo di organizzazione, di tipo associativo, con obbiettivi non esclusivamente religiosi, in dialogo con la cultura europea. In ogni caso è chiaro che il musulmano si riconosce a livello personale e comunitario come appartenente all'Islam a prescindere della grande varietà di tradizioni.

Dal canto suo Martino Diez ha presentato il progetto Oasis promosso nel 2004 dal cardinale Angelo Scola di Venezia per sostenere il dialogo con i musulmani e con i cristiani che vivono in Paesi a maggioranza musulmana. Oasis è una Fondazione Internazionale che pubblica una rivista mensile in varie lingue, compreso l'arabo. Produce anche una newsletter inviata gratuitamente per e-mail e ha due collane di libri. La sua presentazione è stata incentrata sulla questione della identità dell’interlocutore. Si è visto come questa sia una questione molto delicata e come sia facile cadere in forme stereotipate non corrispondente alla realtà. Un punto importante da lui riferito è stato il tema del métissage (incontro fra culture diverse). Alle volte sembra un problema ma non deve essere visto come una tragedia, ma come un'opportunità per aumentare le possibilità di convivenza di persone con culture diverse. In una società in cui tutti siano sempre più in grado di riconoscere l’altro e di essere riconosciuti, senza questo riconoscimento reciproco, un vero dialogo sarà impossibile.

Il padre bianco Hans Vöcking, esperto di Islam per il CCEE, ha raccontato la già lunga storia del lavoro che il CCEE insieme alle altre chiese cristiane membri della KEK (Conferenza delle Chiese europee) hanno svolto nell’ambito del dialogo con l’Islam. Per lui anche la chiesa è chiamata a ripensare il suo approccio. “Solo fino a 30 anni fa, la presenza dei musulmani in Europa rientrava per le Chiese nella categoria degli aiuti agli immigrati. Oggi c’è la constatazione che i musulmani fanno parte integrante delle società europee e questa presenza necessita di una riflessione diversa che è al tempo stesso pastorale, sociale, caritativa e religiosa”.

Alla fine della riunione è stato espresso da molti partecipanti il desiderio di continuare questi incontri, perché possano essere occasioni per affrontare una serie di temi comuni e far conoscere ciò che i vari paesi stanno facendo per affrontare le diverse situazioni che, nonostante le caratteristiche specifiche di ciascun paese, sono simili.
mercoledì, aprile 29, 2009

Le biomasse? Peggio dei combustibili fossili

Lo dice l'Environment Agency (EA), l'ente ambientale britannico: nel 2030 le biomasse di origine agricola potrebbero produrre più CO2 dei combustibili fossili.

SalvaLeForeste - Secondo lo studio dell'Environment Agency, l'impiego di scarti legnosi produce i livelli più bassi di emissioni, mentre pioppi e salici, assieme alla colza, hanno gli indici più alti. L'agenzia ha quindi richiesto al governo di prevedere un dettagliato rapporto sulle emissioni di gas serra da tutte le imprese del settore.

Le biomasse sono state considerate a basso impatto, dato che il carbonio rilasciato durante la combustione viene nuovamente catturato dalle nuove piante in crescita. Ma non è così. Nel migliore dei casi le biomasse sono in grado di produrre 7kg di CO2 per kilowatt / ora: il 98 per cento in meno rispetto al carbone. Ma lo studio dell'Environment Agency ha dimostrato che questo vantaggio può essere facilmente riassorbito, soprattutto quando le colture a biomassa sono impiantate in praterie. E' quanto avviene in vasti tratti del Sudamerica, dove le piantagioni sostituiscono progressivamente le praterie. Queste piantagioni producono trucioli fin'ora impiegati per la produzione di carta e compensato, ma il loro mercato ha subito una forte impennata in seguito al boom delle biomasse. Inoltre, molti impianti a biomasse inoltre sono scarsamente efficienti, e il limitato vantaggio è velocemente disperso. "Le biomasse sono una risorsa limitata, e dobbiamo assicurarci che non sia buttata via in generatori inefficienti, che ad esempio non ottimizzano l'energia prodotta combinando il riscaldamento con la produzione di energia elettrica" ha spiegato Tony Grayling, dell'Environment Agency.

Proprio in questi giorni il World Rainforest Movement e la Global Forest Coalition hanno presentato una richiesta al Forum Foreste dell'Onu chiedendo che le piantagioni siano escluse da sovvenzioni e finanziamenti, proprio a causa del loro impatto sul clima, sulla biodiversità e sulle popolazioni native.
mercoledì, aprile 29, 2009

Papa Pacelli e gli Ebrei

dal nostro collaboratore Carlo Mafera

Le accuse mosse
dopo la sua morte a Pio XII riguardo all'Olocausto non sono state rivolte a quello che avrebbe potuto fare in più, ma soprattutto ai suoi presunti silenzi. E’ una critica che si dimostra infondata perché già in qualità di nunzio apostolico in Germania, prima che diventasse papa, mons. Pacelli aveva scritto ben quaranta discorsi contro l’emergente ideologia nazista e nel 1935 in una lettera scrisse che i nazisti erano “falsi profeti con l’orgoglio di lucifero”. Nel 1937 fu l’anno dell’enciclica “mit brennender Sorge” che vuol dire “Con Viva Ansietà” nella quale si condannava apertamente il razzismo nazista e per giunta era scritta in lingua tedesca. La stesura di questo documento fu a cura del cardinal Pacelli che la sottopose poi al vaglio di papa Pio XI. Il Papa molto malato appose solo qualche piccola correzione prima di apporvi la sua firma. L’enciclica procurò un effetto completamente nullo rispetto all’obiettivo che si era prefisso.

Il Cardinale Pacelli nel frattempo divenne Papa con il nome di Pio XII. Il nuovo pontefice,
con tutti i mezzi possibili, non si risparmiò di condannare le dottrine razziste con le quali si negava l’unità del genere umano. Le parole del Papa erano molto chiare tanto che i giornali tedeschi lo criticavano aspramente utilizzando anche insulti. Erano però parole che servivano da incoraggiamento per tanti cattolici che si sentivano stimolati ad aiutare ed assistere gli ebrei. I documenti ufficiali e gli interventi pubblici furono apprezzati soprattutto dal mondo ebraico che espresse più volte e in più occasioni il proprio ringraziamento per la posizione assunta dal Papa ritenuta “sorgente di conforto notevole per i nostri fratelli”.

Ma nonostante tale eloquenza, i detrattori di Pio XII ritennero che le sue parole erano ambigue e reticenti. Probabilmente i suoi critici, leggendo i testi a sessanta anni di distanza, non hanno avuto una visione storicistica ovvero non si sono calati nella situazione storica del momento. Qualsiasi condanna esplicita, infatti, anche con il ricorso alla scomunica, avrebbe acuito ed esacerbato ancor più la persecuzione nazista, come del resto avvenne realmente ogni volta che veniva manifestata una qualsiasi forma di protesta. A riprova di ciò il 2 giugno 1943, Pio XII ebbe ad affermare: “Ogni parola da noi pronunciata a questo scopo e rivolta alle autorità competenti, e qualsiasi riferimento da noi fatto in pubblico, devono essere seriamente ponderati e pesati, nell’interesse di coloro che soffrono, per non aggravare inconsapevolmente la loro situazione rendendola intollerabile.” Anche Don Sturzo espresse lo stesso parere e dietro a lui, numerosi altri studiosi ebrei e cattolici si allinearono tutti alla saggia e opportuna posizione del Papa. E i fatti diedero ragione a Pio XII perché laddove la condanna fu molto esplicita, come nel caso dell’Olanda occupata dai tedeschi, la persecuzione si esacerbò notevolmente. Ci furono infatti numerose lettere apostoliche da parte dei vescovi olandesi nel 1942 contro il regime nazista e il risultato fu che proprio l’Olanda vide il maggior numero di ebrei deportati nei campi di sterminio (nella percentuale del 79%) cioè più di qualsiasi altro stato europeo. E così altri casi dimostrano la scelta opportuna del Papa.

Anche in Polonia la situazione era gravissima: tremila preti internati, la maggior parte dei quali deceduti e tanti vescovi arrestati ed esiliati. Anche lì un arcivescovo rispose al Papa di non poter pubblicare le sue lettere per timore di nuove persecuzioni. Così alcuni rifugiati berlinesi a Roma ebbero a dichiarare: “Nessuno di noi ha mai desiderato che il Papa parlasse apertamente…...la Gestapo....avrebbe intensificato le sue inquisizioni.”

In conclusione i deportati e i perseguitati chiedevano un aiuto concreto e non prese di posizione clamorose. E fu questo aiuto che Pio XII profuse in modo incommensurabile durante la guerra e furono proprio gli ebrei per primi a riconoscergli il merito tributandogli una gratitudine calorosissima.Per citarne uno molto famoso, Albert Einstein dichiarò: “Soltanto la Chiesa si oppose pienamente alla campagna di Hitler che mirava a sopprimere la verità. Non avevo mai avuto un interrese particolare per la Chiesa, ma ora sento per essa grande amore e ammirazione, perché soltanto la Chiesa ha avuto il coraggio e la perseveranza di difendere la verità intellettuale e la libertà morale. Sono quindi obbligato a confessare che ciò che prima avevo disprezzato ora elogio senza una qualsiasi riserva”. E così anche il rabbino di Roma, Elio Toaff, salvato da un sacerdote durante uno dei tanti rastrellamenti avvenuti a Roma, nel periodo nazista, affermò nel 1964, quando cominciarono a circolare le prime diffamazioni su Pio XII: “La comunità israelitica di Roma, dove è sempre vivissimo il senso di gratitudine per quello che la Santa Sede ha fatto in favore degli ebrei, ci ha autorizzato a riferire.... che…..quanto è stato fatto dal clero……non può essere avvenuto che con la espressa approvazione di Papa Pio XII.”

Ci si chiede allora come è stato possibile che, a partire dagli anni sessanta, Pio XII sia stato oggetto di accuse sempre più gravi. Probabilmente è stato un attacco al papato come istituzione e in particolare un’ aggressione da parte dei cattolici progressisti nei confronti di un modo di gestire la Chiesa prima del concilio vaticano II, ritenuto antiquato e per il quale l’argomento dell’olocausto poteva essere un ottimo strumento per denigrare Pio XII. Ma al di là di questi sterili attacchi, i fatti storici parlano da sé e il bilancio a favore della Chiesa, per quanto riguarda l’aiuto dato agli Ebrei, è palesemente positivo. L’ebreo Pinchas E. Lapide scrisse un libro “Roma e gli Ebrei : l’azione del Vaticano a favore delle vittime (Mondadori 1967). In tale libro egli scrive tra l’altro (senza prima aver risparmiato di critiche la Chiesa stessa) : “La Chiesa cattolica sotto il papato di Pio XII fu lo strumento di salvezza di almeno settecentomila ebrei …… che dovevano morire per mano nazista ……Inoltre tale cifra è in notevole contrasto, con l’ipocrita assistenza a parole e l’imperdonabile mancanza di buona volontà di coloro che erano fuori portata di Hitler e che disponevano di mezzi certo ben più efficaci per salvare gli ebrei quando ciò poteva ancora essere possibile : la Croce Rossa Internazionale e le democrazie occidentali”. L’evidenza più chiara, che le cifre dimostrano, è che solo la Chiesa fu lo scudo più forte in difesa degli Ebrei. Non possiamo dimenticare i gravi peccati di omissione degli Alleati : Inghilterra e Stati Uniti. Per esempio, il famoso libro bianco che limitava rigorosamente l’immigrazione ebraica in Palestina per il quale gli Inglesi respingevano le navi cariche di profughi ebrei. Oppure l’episodio del transatlantico Saint Louis che fu rispedito a casa dagli Stati Uniti rimandando in Germania ben 930 ebrei. Per non parlare del rifiuto di aprire le frontiere dell’Alaska ai profughi ebrei tedeschi. Infine, ricollegandomi al mio precedente articolo, non si può dimenticare l’esecranda collaborazione tecnologica e mercenaria dell’ IBM con i nazisti per il censimento degli Ebrei, facilitandogli il nefando compito del loro sterminio.

Di fronte a questi avvenimenti non si può che concludere con le parole del rabbino G. Dalin : “…la gente di quel tempo, in uguale misura, i nazisti e gli ebrei, compresero che il Papa era l’oppositore più chiaro dell’ideologia nazista”.
mercoledì, aprile 29, 2009

Messaggi contrastanti

Secondo Amnesty International, i primi 100 giorni della presidenza Obama sono stati caratterizzati da "promesse di cambiamento accompagnate da azioni limitate" nel campo della lotta al terrorismo.

Amnesty International - "I provvedimenti presi entro le prime 48 ore dall'insediamento, e cioè chiudere Guantánamo entro un anno, porre fine alle detenzioni segrete ad opera della Cia e spezzare il clima di segretezza che copriva l'operato dell'amministrazione Bush, sono stati molto positivi" - ha affermato Irene Khan, Segretaria generale di Amnesty International. "Ma questa politica di chiusura e apertura non sarà completa fino a quando non sarà seguita dalla fine di ogni detenzione illegale, dalla consegna alla giustizia di tutte le persone responsabili delle torture e delle altre gravi violazioni dei diritti umani perpetrate durante l'amministrazione Bush e, infine, dalla previsione di rimedi giudiziari effettivi per le vittime".

"Abbiamo assistito a importanti sviluppi positivi in questi primi 100 giorni, ma alcune azioni restano incomplete e altre ancora sono tutte da avviare, per esempio a Bagram, Afghanistan, dove per centinaia di persone ancora detenute non ci sono soluzioni in vista" - ha aggiunto Irene Khan.

In occasione dei primi 100 giorni della presidenza Obama, Amnesty International ha diffuso un rapporto che analizza l'operato delle nuova amministrazione sulle politiche di detenzione nel contesto della guerra al terrore.

Il documento mette in evidenza una serie di sviluppi positivi che hanno avuto luogo già il terzo giorno dopo l'insediamento del presidente Obama, come la promulgazione degli ordini esecutivi sulla chiusura di Guantánamo, la fine del programma della Cia di detenzioni segrete a lungo termine e l'adozione di nuovi standard per gli interrogatori, che dovrebbero escludere le cosiddette tecniche di "interrogatorio avanzato".

Amnesty International ha anche notato una serie di messaggi contrastanti, specificamente quando il presidente Obama e la sua amministrazione:

* hanno reso pubblici quattro memorandum in cui si autorizzava la Cia a usare tecniche di interrogatorio costituenti tortura e altri maltrattamenti nei confronti di prigionieri detenuti in centri segreti diretti dalla stessa agenzia. Il presidente Obama ha condannato l'uso della tortura ma ha affermato che coloro che avevano perpetrato quei crimini non sarebbero stati portati di fronte alla giustizia nei casi in cui avevano seguito le direttive legali del dipartimento della Giustizia. Il presidente ha posto l'accento sul fatto che egli preferisce guardare avanti e non al passato e ha aggiunto che spetta al Procuratore generale decidere se avviare o meno le indagini "su coloro che hanno formulato quelle decisioni legali", sottolineando che egli non intendeva "anticipare un giudizio" su questo aspetto;
* hanno emanato un ordine esecutivo sulla chiusura del centro di detenzione di Guantánamo senza prendere l'impegno di processare i detenuti in un tribunale civile o rilasciarli, lasciando così nell'incertezza sul proprio futuro 240 detenuti;
* hanno promesso che i casi dei detenuti di Guantánamo sarebbero stati rivisti "uno dopo l'altro e il più velocemente possibile" per determinare chi avrebbe potuto essere trasferito o rilasciato. Tuttavia, dopo anni di prigionia seguiti da mesi sotto l'attuale amministrazione, a partire da gennaio nessun detenuto è stato processato e solo uno è stato rilasciato. Inoltre, molti rimangono in detenzione a tempo indeterminato, sebbene siano trascorsi mesi da quando i giudici federali americani ne hanno ordinato il rilascio immediato;
* hanno ordinato alla Cia di chiudere le strutture di detenzione segreta e hanno proibito all'agenzia di utilizzarle in futuro, ma hanno lasciato aperta la possibilità che la Cia possa rapire e trattenere persone in strutture definite "a breve termine e transitorie";
* hanno emanato un ordine esecutivo che vieta l'uso della tortura e degli altri maltrattamenti ma al contempo hanno fatto proprio, senza riserve, il Manuale operativo delle forze armate, che può autorizzare la privazione prolungata del sonno e l'isolamento, così come la manipolazione delle paure dei detenuti in forma tale da violare la proibizione internazionale della tortura e degli altri maltrattamenti;
* hanno annunciato che avrebbero preso le distanze dal clima di segretezza dell'amministrazione Bush, ma hanno invocato il segreto di stato, bloccando di fatto l'accesso a un rimedio legale per le violazioni dei diritti umani, e rifiutato di fornire informazioni pubbliche sui 500 uomini che si ritiene siano detenuti nella base militare Usa di Bagram, Afghanistan;
* hanno apparentemente cessato di usare le espressioni "guerra al terrore" o "combattente nemico", ma continuano a basarsi sulle leggi di guerra piuttosto che considerare la giustizia penale ordinaria e i diritti umani come l'architrave delle misure contro il terrorismo.

Il rapporto di Amnesty International mette in luce l'assenza di passi avanti in tema di diritti umani quando il presidente Obama e la sua amministrazione:

* hanno stabilito che gli agenti della Cia che avevano seguito le direttive legali del dipartimento della Giustizia nel compiere il loro dovere non saranno perseguibili, a quanto pare anche se hanno commesso torture (per esempio ricorrendo alla pratica del "waterboarding"). Questo equivale a garantire l'impunità ai responsabili di atti di tortura e contravviene al diritto internazionale;
* hanno espresso opposizione a ogni tentativo di esercitare il diritto a una revisione giudiziaria, nei tribunali americani, da parte dei cittadini stranieri detenuti nella base aerea di Bagram, Afghanistan;
* non hanno adottato misure concrete per favorire l'accertamento delle responsabilità per le massicce violazioni dei diritti umani commesse nel contesto della "guerra al terrore". Verso la fine dei 100 giorni, comunque, il presidente Obama ha prospettato un certo supporto in favore di un percorso "bipartisan" per esaminare le politiche e le pratiche del passato. Amnesty International chiede dal 2004 una commissione d'inchiesta indipendente su tutti gli aspetti delle pratiche di detenzione e di interrogatorio che l'amministrazione Bush ha usato in nome della "guerra al terrore".

"La domanda che stiamo ponendo è se la promessa di cambiamento del presidente Obama e i passi iniziali presi dalla sua amministrazione preludano o meno a un fondamentale, sostanziale e duraturo cambiamento verso il rispetto dei diritti umani nella lotta contro il terrorismo. Amnesty International continuerà a svolgere campagne in tale direzione, nei giorni, nei mesi e negli anni a venire" - ha concluso Irene Khan.
mercoledì, aprile 29, 2009

Alla faccia dei diritti umani

Alvaro Uribe riceve in Spagna il premio "Libertà" per il suo impegno contro il sequestro. Ma le Ong in difesa dei diritti umani protestano.

PeaceReporter - "Per i suoi sforzi in favore della libertà in Colombia e per la sua aperta opposizione alle situazioni terroristiche che la disprezzano, privando del diritto alla medesima tutte quelle persone sequestrate da gruppi cosiddetti terroristi, tutti coloro che stanno tenendo prigionieri da anni privandoli della loro libertà e di vivere con i loro cari". Questa la motivazione del premio 'Libertad Cortes de Cádiz' che verrà consegnato oggi nella città spagnola. Ma a riceverlo non sarà, come sembrerebbe logico, un rappresentante di una delle tante Ong che difendono i diritti umani nel pericoloso paese andino a rischio della vita. No. A essere premiato è il presidente della Repubblica di quel paese, Alvaro Uribe, colui che da anni è al centro dello scandalo della parapolitica, perché sospettato di avere legami con i gruppi paramilitari responsabili oltre che di sequestri, anche di veri e propri genocidi. È degli ultimi giorni la dichiarazione del capo paracos estradato negli Usa, Don Berna, sui finanziamenti che il suo gruppo avrebbe dato alla campagna elettorale del presidente "esempio di libertà".

manifestazione contro il sequestroLe proteste. Un premio che ha suscitato la protesta dei collettivi pacifisti e dei sindacati, che non si stancano di denunciare che la Colombia è uno dei paesi dove si registra un numero di sindacalisti morti ammazzati tra i più alti del mondo, dove gli omicidi e le sparizioni sono all'ordine del giorno, e dove l'impunità regna sovrana. Amnesty International, a questo proposito, ha dichiarato ieri: "Uribe non può continuare eludendo l'argomento", la situazione dei diritti umani e umanitaria in Colombia continua a essere molto grave, il paese è nel bel mezzo di un conflitto armato e i gruppi paramilitari continuano a operare nonostante il processo di smobilitazione promosso dal presidente. E quindi la richiesta al primo ministro spagnolo, José Luis Rodríguez Zapatero, che incontrerà Uribe per rafforzare i legami commerciali tra i due paesi (la Spagna è il secondo paese straniero che più investe nel paese andino): "Zapatero, non appoggi iniziative che aiutino a perpetrare le violazioni dei diritti umani in Colombia".

In Italia. Dopo Zapatero, Uribe sarà ricevuto dal re Juan Carlos, dal presidente del Parlamento, José Bono, e dai rappresentanti delle imprese spagnole più importanti. La sua visita continuerà in Italia, dove incontrerà Silvio Berlusconi e il Papa.

mercoledì, aprile 29, 2009

Si tenta in ogni modo di fermare l’influenza suina

Dal blocco dei voli da e per il Messico agli scanner termici negli aeroporti e alle limitazioni per i visti ai messicani. L’esperienza della Sars e dell’aviaria si rivelatile per la Cina e i Paesi del sudest asiatico. In perdita i titoli legai al turismo e ai viaggi, guadagnano i farmaceutici.

Hong Kong (AsiaNews/Agenzie) - “Se c’è qualcosa di buono che è venuto dalle epidemie della Sars e dell’aviaria è che ora la Cina è preparata più del resto del mondo” ad affrontare l’influenza suina. “Ciò che è importante è la trasparenza e l’apertura non solo verso l’Oms, ma anche verso la gente”. E’ il commento di Hans Troedsson, rappresentante dell’Organizzazione mondiale della sanità in Cina - ma le sue considerazioni valgono per gran parte del sudest asiatico - che rappresenta l’atteggiamento col quale gran parte del Continente si prepara ad affrontare il pericolo rappresentato da questa epidemia mondiale. Il bilancio resta fermo a 159 morti, tutti in Messico, anche se la stessa Oms ne “riconosce” solo sette. I malati sono 2.498 “sospetti” e 18 “confermati” in Messico, 70 in Australia, 65 negli Usa, 42 in Colombia, 24 in Cile, 14 in Nuova Zelanda, 13 in Canada, sei in Corea del Sud, quattro a Hong Kong, due in Scozia, due in Spagna, due in Israele, uno in Costarica e uno in Germania.

Un po’ ovunque si stanno predisponendo o già attuando misure di prevenzione. A Hong Kong e in molti altri aeroporti asiatici sono in funzione gli scanner termici, che permettono di individuare passeggeri che fossero colpiti dalla febbre. Il Giappone ha annunciato un passo successivo, imponendo restrizioni ai visti per i messicani, oltre ad invitare i propri cittadini e evitare di recarsi in quel Paese e a esortarli, ove vi si trovassero, a rientrare in patria. Jiji Press riporta anche che il governo ha riservato 500 camere nelle vicinanze del Tokyo's Narita International Airport, per la quarantena di viaggiatori che fossero infetti.

Divieti o forti limitazioni ai voli da e per il Messico sono stati imposti anche da Argentina e Cuba, Stati Uniti ed Europa per ora si limitano a sconsigliarli.

In India e Thailandia si sta cercando di rintracciare coloro che di recente sono rientrati da Messico e Stati Uniti per sottoporli a controlli medici.

L’Arabia Saudita annuncia di avere allo studio l’istallazione degli scanner termici per monitorare tutti coloro che via cielo, mare o terra arrivano da zone ove è sospettata la presenza del virus. Comitati per decidere le misure preventive sono annunciati anche dagli Emirati arabi uniti e dallo Yemen.

In Israele, accanto ai due casi accertati e ai due sospette c’è un’altra persona sotto controllo. In nottata c’è stata una riunione di emergenza del governo. Domani dovrebbe esserci un incontro tra responsabili della salute israeliani, egiziani e palestinesi per concordare misure da prendere.

Quasi tutte le borse mondiali registrano un calo per i titoli legai al turismo e ai viaggi e un incremento per quelli farmaceutici.
mercoledì, aprile 29, 2009

Fermate il genocidio dei tamil nello Sri Lanka

Sit-in ecumenico a New Delhi: centinaia di religiosi protestano contro le violenze ai danni della popolazione tamil. Sotto accusa anche il governo di New Delhi che “sta fornendo personale e assistenza tecnica all’esercito dello Sri Lanka e nel frattempo fa appelli per la fine della guerra”.

New Delhi (AsiaNews) - Un sit-in ecumenico per protestare contro il genocidio in Sri Lanka. Dalle 9 di questa mattina, nel parco di Jantar Mantar a New Delhi, centinaia di indiani manifestano contro la guerra nello Sri Lanka e chiedono al governo Indiano e all’Onu di impegnarsi per l’immediata sospensione del conflitto. All’iniziativa, promossa dall’Ecumenical Clergy Forum for Human Rights (ECFoHR), prendono parte circa 500 religiosi tra sacerdoti, suore, pastori protestanti, seminaristi. Tra questi anche mons. Vincent M. Concessao, arcivescovo della capitale indiana, che ha aperto la manifestazione condannando la carneficina in atto nello Sri Lanka e manifestando la solidarietà dei cristiani indiani verso le vittime della guerra.

P. Benedict Barnabas, tra gli organizzatori del sit-in, interpellato da AsiaNews accusa New Delhi di ipocrisia: “Il governo indiano sta fornendo personale e assistenza tecnica all’esercito dello Sri Lanka e nel frattempo fa appelli per la fine della guerra”. Il sacerdote cattolico accusa anche “i leader politici del Tamil Nadu che stanno mettendo in scena una commedia per assicurarsi voti e la vittoria del loro partito alle elezioni generali”.

L’Ecfohr, promotore di diverse iniziative in tutta l’India nell’ultimo mese, chiede che “sia concesso alle ong di soccorrere i civili nella regione dell’Eelam [la zona a maggioranza tamil, ndr] e in particolare nella zona di sicurezza”. Tra le sigle che aderiscono all’iniziativa figurano le principali istituzioni delle diverse confessioni cristiane del Paese: il Consiglio nazionale delle Chiese dell’India, la Conferenza episcopale cattolica, l’Associazione della Chiese evangeliche e la Church of North India, che raccoglie varie denominazioni protestanti.

Per p. Barnabas, nonostante le assicurazioni del governo di Colombo, le operazioni di guerra proseguono in una “grave e reiterata violazione dei diritti umani”. “È stato detto in lungo e in largo che la guerra è finita. Le notizie che giungono dal campo dicono che solo i bombardamenti sono sospesi - afferma il sacerdote - mentre le atrocità conto i tamil continuano”.

Il sacerdote afferma che “non ci può essere altra soluzione alla guerra che quella politica” perché la popolazione tamil dello Sri Lanka “da decenni è umiliata, discriminata e trattata alla stregua di cittadini di seconda classe”. Le autorità di Colombo sono colpevoli di “manipolare e stravolgere la storia dei tamil che sono abitanti indigeni dello Sri Lanka”. Davanti a questa “falsificazione della realtà”, padre Barnabas chiede alla comunità internazionale di passare dai proclami ai fatti “per trovare una soluzione che garantisca alla minoranza tamil dello Sri Lanka la libertà”.
martedì, aprile 28, 2009

All'ombra del virus

Un grande affare per le case farmaceutiche. La strana natura del virus. I piani di emergenza Usa

PeaceReporter - L'influenza suina continua a mietere vittime in Messico e a seminare il panico in tutto il mondo, non solo tra la popolazione, ma anche sui mercati azionari che, nel timore di un blocco delle frontiere e delle attività commerciali ed economiche globali, registrano forti perdite in tutte le borse. Gli unici che festeggiano sono i dirigenti e gli azionisti delle due multinazionali farmaceutiche, la svizzera Roche e la britannica GlaxoSmithKline, produttrici dei farmaci antinfluenzali di cui tutti i governi del pianeta stanno facendo incetta in questi ultimi giorni: il Tamiflu (Roche) e il Relenza (Glaxo).

Mentre tutti i titoli di borsa sono in calo, le quotazioni della Roche e della Glaxo stanno guadagnando su tutte le piazze mondiali. Per non parlare delle due aziende che detengono i brevetti dei due farmaci, la californiana Gilead (Tamiflu) - che ha tra i suoi principali azionisti l'ex capo del Pentagono, Donald Rumsfeld - l'australiana Biota (Relenza), i cui indici azionari sono schizzati alle stelle negli ultimi giorni.
Festeggiano anche le multinazionali farmaceutiche che hanno già preso accordi con l'Organizzazione mondiale per la sanità (Oms) per lo studio e la produzione di vaccini contro l'influenza suina: la francese Sanofi Aventis - che a inizio marzo aveva annunciato l'apertura, proprio in Messico, di uno stabilimento per la fabbricazione di un vaccino contro eventuali influenze pandemiche - la statunitense Baxter - recentemente coinvolta in un grave scandalo: aveva distribuito, in diciotto paesi, vaccini antinfluenzali contaminati dal virus dell'influenza aviaria - e la svizzera Novartis.

Un virus ibrido così strano da sembrare artificiale. Non sarà molto facile trovare un vaccino per questa influenza. Gli scienziati del Centro per il controllo delle malattie (Cdc) di Atlanta, il principale istituto epidemiologico statunitense hanno dichiarato che questo ceppo virale contiene una combinazione unica, mai vista prima, di sequenze genetiche di due diversi virus influenzali suini (uno di origine nordamericane e uno eurasiatico), del noto virus dell'influenza aviaria e della familiare influenza umana. Un ‘riassortimento' genetico così particolare, da far addirittura sorgere dubbi sull'origine naturale di questo nuovo supervirus.
Negli ultimi anni i riassortimenti artificiali di virus sono diventati una pratica comune nei più avanzati centri di ricerca epidemiologica di tutto il mondo, e soprattutto negli Stati Uniti.
Nel 2005, ad esempio, i bioingegneri del Cdc di Atlanta hanno creato in laboratorio un virus pandemico artificiale combinando il ceppo dell'influenza aviaria con quello della normale influenza umana. Lo stesso hanno fatto gli scienziati della già citata Baxter. Esperimenti, questi, giudicati molto pericolosi, ma considerati necessari per studiare le modalità di contagio e i possibili vaccini.
Analoghi virus artificiali ibridi vengono prodotti, ma a scopi ben diversi (la guerra batteriologica), anche nei laboratori militari dell'Istituto di medicina per le malattie infettive dell'esercito Usa (Usamriid) di Fort Detrick, in Maryland, lo stesso da cui proveniva l'antrace usato negli attacchi bioterroristici del 2001.

Usa: in caso di emergenza potrebbe intervenire l'esercito. In attesa che venga scoperto un vaccino contro questa pandemia influenzale, i governi di mezzo mondo, oltre a fare scorta di Tamiflu e Relenza, si preparano al peggio. In particolare il governo degli Stati Uniti: i più vicini al focolaio influenzale, dove da tempo sono pronti appositi piani di emergenza che prevedono addirittura l'utilizzo delle forze armate per mettere in quarantena la popolazione infettata, compiere evacuazioni forzate e mantenere l'ordine pubblico. Sulla base delle linee guida della ‘Strategia nazionale per l'influenza pandemica', elaborata dall'amministrazione Bush nel novembre 2005, il Pentagono ha preparato nell'agosto 2006 un ‘Piano di implementazione per l'influenza pandemica' in cui si legge: "Al fine di bloccare la diffusione del virus, il dipartimento della Difesa può essere chiamato a intervenire per assistere le autorità civili nell'isolare e quarantenare singoli individui o popolazioni, anche contro la loro volontà (...) e per ristabilire e mantenere l'ordine pubblico in caso di disordini".

martedì, aprile 28, 2009

Il Papa in Abruzzo: soluzioni rapide e solidarietà duratura

L'Aquila anche se ferita tornerà a volare

Radio Vaticana - “Vorrei abbracciarvi con affetto uno a uno”. E poi, più avanti: “Non resterete soli”. In queste frasi pronunciate prima nella tendopoli di Onna e poi davanti alla folla di Coppito sta il sentimento più profondo di solidarietà, ma anche la grande commozione, che ha accompagnato oggi Benedetto XVI durante tutto il tempo della sua visita fra i terremotati dell’Abruzzo. Il maltempo che imperversa in queste ore su gran parte dell’Italia aveva costretto questa mattina il Papa a raggiungere in auto anziché in elicottero le zone colpite dal sisma, facendo slittare in avanti di un’ora i vari appuntamenti.
L’ultimo, in ordine di tempo, si è concluso mezz’ora fa, nella Caserma della Guardia di Finanza di Coppito, da dove Benedetto XVI è ripartito in auto per il Vaticano dopo aver rivolto un discorso alla popolazione abruzzese, alle sue autorità civili e religiose, ai soccorritori. Il servizio di uno dei nostri inviati, Massimiliano Menichetti (ascolta):

La pioggia mista alle lacrime ai sorrisi dei sopravvissuti al terremoto hanno accolto il Papa arrivato ad Onna, uno dei luoghi simbolo del sisma del 6 aprile che ha flagellato 49 comuni abruzzesi devastando il centro storico dell’Aquila. “Sono venuto di persona in questa vostra terra splendida e ferita”, ha detto il Papa, stretto dall’abbraccio della gente di Onna, dagli applausi: persone che hanno perso la casa, spesso gli affetti ma non la forza della fede. Benedetto XVI ha rimarcato il “dolore e la precarietà” seguiti al sisma, la sua vicinanza, la preghiera fin dai primi momenti della catastrofe: “La Chiesa tutta è qui con me, accanto alle vostre sofferenze, partecipe del vostro dolore per la perdita di familiari ed amici, desiderosa di aiutarvi nel ricostruire case, chiese, aziende crollate o gravemente danneggiate dal sisma. Ho ammirato e ammiro il coraggio, la dignità e la fede con cui avete affrontato anche questa dura prova, manifestando grande volontà di non cedere alle avversità”. Guardando la voglia di reagire di questo popolo che più volte ha conosciuto il dramma del terremoto, il Papa ha parlato di una forza d’animo che suscita speranza e, citando un detto degli anziani aquilani, ha aggiunto: “Ci sono ancora tanti giorni dietro il Gran Sasso”: “Se fosse stato possibile, avrei desiderato recarmi in ogni paese e in ogni quartiere, venire in tutte le tendopoli e incontrare tutti. Mi rendo ben conto che, nonostante l’impegno di solidarietà manifestato da ogni parte, sono tanti e quotidiani i disagi che comporta vivere fuori casa, o nelle automobili, o nelle tende, ancor più a causa del freddo e della pioggia”. “Il Signore crocifisso è risorto e non vi abbandona”, ha evidenziato, rispondendo così alle tante paure spesso serbate nel cuore: “Non lascerà inascoltate le vostre domande circa il futuro, non è sordo al grido preoccupato di tante famiglie che hanno perso tutto: case, risparmi, lavoro e a volte anche vite umane. Certo, la sua risposta concreta passa attraverso la nostra solidarietà, che non può limitarsi all’emergenza iniziale, ma deve diventare un progetto stabile e concreto nel tempo. Incoraggio tutti, istituzioni e imprese, affinché questa città e questa terra risorgano”. Rivolgendosi a chi ha perso i propri cari Benedetto XVI ha esortato ad una testimonianza forte di vita e di coraggio nella consapevolezza che l’amore rimane anche al di là della “precaria esistenza terrena”, perché l’Amore vero è Dio. “Chi ama vince, in Dio, la morte e sa di non perdere coloro che ha amato”, ha concluso. Poi il Papa ha pregato per le vittime del terremoto e, tra gli applausi e la commozione della popolazione, si è recato presso la Basilica di Collemaggio dove ha venerato l’urna di Celestino V e dove ha deposto il Pallio che gli venne imposto nella celebrazione di inizio Pontificato. Quindi, dopo una breve sosta il raccoglimento davanti alla Casa dello Studente nel centro de L’Aquila dove sono morti 8 ragazzi, infine l’arrivo, tra gli applausi, nella Caserma della Guardia di Finanza di Coppito. Commovente l’incontro con i fedeli, i volontari, i militari in prima linea nell’emergenza; poi il saluto dell’arcivescovo de L’Aquila, mons. Giuseppe Molinari, che ha consegnato al Papa una città ferita ma viva nella fede. Sulla linea della ricostruzione l’intervento del sindaco de L’Aquila, Massimo Cialente, e quello del presidente della Regione, Gianni Chiodi. Benedetto XVI ha ripercorso idealmente i luoghi del terremoto e volgendosi ai tanti fedeli ha portato la sua testimonianza in Cristo: “Eccomi ora qui, in questa Piazza su cui s’affaccia la Scuola della Guardia di Finanza, che praticamente sin dal primo momento funziona come quartiere generale di tutta l’opera di soccorso. Questo luogo, consacrato dalla preghiera e dal pianto per le vittime, costituisce come il simbolo della vostra volontà tenace di non cedere allo scoraggiamento”. Il Papa, guardando il piazzale che ha ospitato le salme delle tante vittime per la celebrazione delle esequie presiedute dal cardinale Tarcisio Bertone, ha sottolineato che oggi questo stesso spazio “raccoglie le forze impegnate ad aiutare L’Aquila e l’Abruzzo a risorgere presto dalle macerie del terremoto”. Poi ha sottolineato il valore della solidarietà: “E’ come un fuoco nascosto sotto la cenere. La solidarietà è un sentimento altamente civico e cristiano e misura la maturità di una società. Essa in pratica si manifesta nell’opera di soccorso, ma non è solo una efficiente macchina organizzativa: c’è un’anima, c’è una passione, che deriva proprio dalla grande storia civile e cristiana del nostro popolo, sia che avvenga nelle forme istituzionali, sia nel volontariato. Ed anche a questo, oggi, voglio rendere omaggio”. “Che cosa vuole dirci il Signore attraverso questo triste evento?”, ha chiesto il Papa volgendosi al mistero salvifico del Cristo risorto che porta “nuova luce”, illumina e dà senso. Poi l’invito alla comunità civile : “Ma anche come Comunità civile occorre fare un serio esame di coscienza, affinché il livello delle responsabilità, in ogni momento, mai venga meno. A questa condizione, L’Aquila, anche se ferita, potrà tornare a volare”. Quindi l’invito a volgere lo sguardo verso la statua della Madonna di Roio alla quale il Papa a affidato la città e tutti gli altri paesi toccati dal terremoto. A Lei il Papa ha lasciato una Rosa d’oro, quale segno della sua preghiera.
martedì, aprile 28, 2009

Dalla chiamata alle stimmate: Padre Pio diventa musical

Castelnuovo sarà la voce recitante. Cionfoli canterà le sue lettere. Sabato debutto a Napoli In 2500 hanno partecipato ai casting del coreografo Miseria.

La Stampa.it - Dunque l'effetto è garantito: la vita di Padre Pio diventa un musical. E il cast è un signor cast. Detta così, sembra la solita operazione furbetta, di quelle pensate apposta per raccogliere tanto pubblico e poca stima, rabberciate su due piedi per far cassa e tanti saluti a tutti. In realtà, dietro a Recital - Le canzoni di Padre Pio c'è una macchina organizzativa da fare invidia a tante altre, diretta da Giancarlo Amendola, che ha già prodotto anche i musical di Riccardo Cocciante. E le coreografie sono frutto delle intuizioni di Franco Miseria, uno dei più famosi coreografi italiani sin dai tempi del Fantastico televisivo.

Difatti, il suo nome ha attirato ai casting ben 2.500 aspiranti ballerini, dai quali è stato selezionato un corpo di ballo di sedici elementi che sarà una delle spine dorsali dello show. Tanto per capirci, Recital sarà un viaggio rispettoso e fedele nella vita del frate cappuccino che Giovanni Paolo II ha santificato nel 2002 dopo una lunga querelle che ha richiamato attenzione in tutto il mondo e paginate su ogni giornale. Si tratta, in poche parole, della sua biografia portata in scena con garbo, senza spettacolarizzazioni esasperate o facili cadute nello scandalismo purchessia. La chiamata alla Fede. Gli ostacoli. Le stimmate. L'enorme dedizione dei fedeli.

D'altronde la principale voce recitante sarà quella di Nino Castelnuovo, uno dei maestri del nostro teatro dall'alto di una carriera lunga più di mezzo secolo. A lui si affiancheranno Alessio Di Clemente e Maurizio Aiello, tutti impegnati a seguire un filo conduttore che, oltre a prosa, danza e musica, unisce anche proiezioni dei filmati originali di Padre Pio scelti in modo da fotografare i momenti decisivi della sua vita terrena. In più c'è la musica. Sul palco ci sarà una band niente male, composta da strumentisti che abitualmente suonano con Gianni Morandi e Massimo Ranieri e che sanno come mantenere alta la tensione durante un concerto (ossia Ezio Zaccagnini, Bob Masala, Alfredo Bochiccio, Riccardo Ciaramellari).

Però il punto d'attrazione della colonna sonora saranno i testi delle canzoni, tutti fedelmente tratti dall'Epistolario di Padre Pio e cantati quasi per intero da Giuseppe Cionfoli (con l'aggiunta di Tom Sinatra e Margary Signorino). Certo, Cionfoli ormai lo conoscono tutti: ora ha 57 anni, ma ne aveva trenta quando debuttò a Sanremo nel 1982 diventando uno dei casi più rumorosi della storia del Festival. Poi ritornò l'anno successivo e fece pure un'altra apparizione nel 1994 con la Squadra Italia. Aveva quasi concluso il noviziato, vestiva il saio dei frati cappuccini, era perfetto per suscitare scalpore e difatti ne suscitò moltissimo, arrivando addirittura a vendere mezzo milione di copie del suo primo ellepì.

Senz'altro, a dispetto delle facili critiche e pelose, Cionfoli qualche talento musicale ce l'ha e lo dimostra anche nel disco Le canzoni di Padre Pio vol. 1 che raccoglie i brani del recital e che sarà in distribuzione nei prossimi giorni. D'accordo è musica che ha connotati ben precisi e che non passerà mai sui grandi circuiti radiofonici. Però è strutturata egregiamente, arrangiata con bel mestiere e cantata con quello spirito leale e fedele che fa di Cionfoli un interprete degno di nota. Perciò sarà lui, oltre naturalmente a Nino Castelnuovo, il fulcro di questa sorta di musical atipico che debutta al Palapartenope di Napoli il 2 e 3 maggio e poi replica a Eboli il 16 maggio prima di preparare una lunga tournée in partenza alla fine dell'estate. Il cast si troverà domani a Fiuggi per le prove generali. E poi la parola passerà al pubblico, chiamato a valutare un esperimento che una volta tanto mescola gli ingredienti giusti per diventare un successo.

«Sulla sua tomba ho avuto l'ispirazione»
Milano - Insomma, rieccolo. Della sua gioventù, Giuseppe Cionfoli conserva senz'altro la grinta. Adesso che ha 57 anni parla come quando debuttò come Fra' Cionfoli al Festival di Sanremo e scatenò quel putiferio di polemiche che tutti ricordano: un frate all'Ariston, una specie di ossimoro. «Avevo fatto il noviziato indossando il saio per undici mesi», dice ora e poi precisa che ha sempre partecipato agli show tv «in ubbidienza», ossia con il permesso dei superiori che lui definisce «il foglio di via». Per farla breve, questo brindisino che non le manda a dire non è più frate, ha tre figli, si è sposato nell'88 con la figlia dell'autista e ora si gioca la carta del rilancio con il musical su Padre Pio che è forse l'operazione più complessa e prestigiosa di tutta la sua carriera.

Giuseppe Cionfoli, la sua sembra un'operazione fatta apposta per suscitare scalpore.
«Mi sono avvicinato a Padre Pio quando avevo 16 anni. Mi invitarono a fare una gita San Giovanni Rotondo ma non avevo le 4mila lire necessarie per andarci».
E poi?
«Mi avvicinai alle sue parole e successivamente volli diventare frate cappuccino come lui».
Lei però adesso non è più frate. E il suo abbandono è stata una vicenda complessa.

«Sono uscito definitivamente dall'Ordine nel 1988, poco prima di sposarmi. Mia moglie è la figlia dell'autista che mi accompagnava ai concerti e ho tre figli, Samuel, Vera e Consuelo. Ma la mia spiritualità non ne ha risentito: frate ero e frate sono rimasto. Ogni tanto mia moglie dice: vai un po' a riflettere in convento. E in effetti il chiostro mi manca».
Ma da civile che lavoro fa?
«Io sono pittore e scultore. E ho sempre continuato a esibirmi in pubblico, soprattutto d'estate. Però è difficile fare il cantante cantando Gesù Cristo».
Adesso la aspetta un debutto importante.
«Questa opera l'ha voluta Padre Pio».

Addirittura.
«Tre anni fa ho cantato sulla sua tomba. Ero a un bivio: volevo smettere di cantare, trovarmi un'altra sistemazione. Ma lì, appena ho cominciato, ho perso la cognizione del tempo e ho capito che avrei dovuto mettere in musica la sua Fede. Poi ero sicuro che Padre Pio mi avrebbe messo sulla strada giusta. E così è stato».

martedì, aprile 28, 2009

La resistenza delle religiose tra i terremotati de L'Aquila

di Chiara Santomiero

Zenit.org - Il terremoto del 6 aprile scorso a L'Aquila, ha danneggiato gravemente anche le case delle religiose presenti nel capoluogo abruzzese. In via XX settembre, una delle strade del centro che ha registrato maggiori crolli tra i quali la Casa dello studente, c'era il convento delle Suore Francescane Alcantarine con il pensionato universitario, ugualmente inagibili. Suor Oliva Lombardi abitava lì con altre 14 consorelle, adesso è nella tendopoli di Collemaggio con otto di esse. Mentre le altre suore si recano con due pulmini nelle frazioni di Tornimparte e di Onna per collaborare all'animazione delle aree di ricovero, suor Lombardi continua il lavoro in Caritas.

Da quattro anni si occupa della formazione dei nuovi cooperatori, adesso collabora con il Centro di coordinamento istituito a Pettino da Caritas italiana. "Il futuro si vedrà - afferma suor Lombardi, maremmana, che a 72 anni è già passata per la guerra civile in Nicaragua e l'Albania dopo la caduta del regime comunista -; adesso c'è da fare qui. Poi andremo dove sarà più utile la nostra presenza".
In via Fortebraccio, è crollata giù anche la casa delle Suore francescane missionarie di Gesù bambino, fondate da Barbare Micarelli, un edificio storico del 1400 che ospitava oltre la casa madre dell'ordine, le scuole elementari e medie gestite dalle religiose e un pensionato universitario.

"Già dai primi giorni - racconta la superiora suor Luciana Fagnano - abbiamo cercato di metterci in contatto con i ragazzi, ma gli elenchi con i numeri di telefono erano rimasti nella scuola. Da un alunno che sapevamo a Lanciano dai nonni, piano piano, a catena, siamo risaliti ai numeri di tutti gli altri".
Una "caccia al tesoro" dall'esito felice perché i ragazzi stanno tutti bene. "Sia i genitori che i ragazzi - afferma la superiora - ci chiedono di continuare la scuola e sono preoccupati di cosa accadrà a settembre, per il prossimo anno scolastico".

"Per molti ragazzi, che hanno compiuto da noi tutto il ciclo della scuola primaria, la nostra casa è un ambiente familiare; nel chiostro giocavano a pallone - aggiunge -. Nemmeno noi abbiamo risposte per il futuro, tranne la nostra intenzione di non andar via da L'Aquila e ricominciare appena possibile".
Le suore zelatrici del Sacro Cuore, o Istituto Ferrari, avevano, oltre alla casa madre di via S. Chiara d'Aquili, la casa di ospitalità "S. Giuseppe" e l'Istituto S. Caterina per universitarie e anziane, sempre a L'Aquila, e una casa famiglia a S. Gregorio, altro piccolo paese gravemente danneggiato dal terremoto. Nel crollo di questo edificio hanno perso la vita due suore della congregazione. Suor Lidia Pupatti, la madre generale, spiega: "Il nostro ordine appartiene a L'Aquila, dove è stato fondato nel 1890 dalla nobildonna Maria Ferrari, per un'attenzione ai malati e agli anziani, ma soprattutto all'educazione della gioventù".

Per questo: "non abbiamo altre sedi dove trasferirci e anche se ci dessero una struttura fuori diocesi, tutte le nostre attività sono qui".
Intanto i bambini presenti nella casa famiglia di S. Gregorio sono stati trasferiti a Silvi, vicino Pescara: "Abbiamo ricevuto tantissima solidarietà - conclude madre Pupatti - e vogliamo ringraziare tutti di cuore. E' difficile immaginare in questo momento come e dove ricominciare ma ci affidiamo a Dio e alla preghiera di quanti ci sostengono".



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