giovedì, maggio 21, 2009

Migliaia in fuga da Mogadiscio privi di cibo e acqua

Il problema principale in questo momento è che i civili non sono davvero in condizione di farcela perché: c’è la stagione delle piogge, giungono nei campi dove c’è sovraffollamento totale e non c’è l’acqua, anche in termini di cure

Radio Vaticana - In Somalia continuano gli scontri tra militari, fedeli al governo di transizione, e gli estremisti islamici con il coinvolgimento di truppe eritree ed etiopiche. La comunità internazionale è sempre più preoccupata per la grave situazione umanitaria causata dal conflitto. L’ultima denuncia arriva da Medici Senza Frontiere: sono quasi 300 mila i civili in fuga, 45 mila, nelle ultime ore, da Mogadiscio. Molti di loro, addirittura, stanno rientrando nelle zone dei combattimenti, a causa della mancanza di generi di prima necessità nei sovraffollati campi per i rifugiati allestiti in Kenya. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Kostas Moschochorìtis, direttore generale di Medici Senza Frontiere (ascolta):

R. – In questo momento, c’è un inasprimento degli scontri in Somalia, specialmente nella zona di Mogadiscio, che ha causato un’ulteriore fuga dei civili, sia verso le aree fuori dalla capitale Mogadiscio, ma anche verso il Kenya dove ci sono da anni i campi nei quali hanno trovato rifugio tutti i civili che fuggono dalla guerra iniziata nel 1991. Ma il problema principale in questo momento è che i civili non sono davvero in condizione di farcela perché: c’è la stagione delle piogge, giungono nei campi dove c’è sovraffollamento totale e non c’è l’acqua, anche in termini di cure; parliamo di situazioni di malnutrizione, specialmente fra i bambini sotto i cinque anni, che è arrivato ai livelli di emergenza, e tutto questo quando le organizzazioni umanitarie e le organizzazioni delle Nazioni Unite non sono in grado di offrire quello che dovrebbero offrire per coprire una situazione così drammatica.

D. – Perché si è creata questa carenza di generi di prima necessità all’interno dei campi per i rifugiati?

R. – Innanzitutto, mancano anche i finanziamenti, per esempio al Programma alimentare mondiale, che di recente, per carenza di fondi, ha dovuto fare una riduzione del 30 per cento delle razioni del cibo che distribuisce nei campi in Kenya, al confine con la Somalia. Per questo motivo c’è bisogno di ulteriori aiuti da parte dei donatori. Parliamo di una catastrofe umanitaria che va avanti da anni e che adesso è arrivata a un picco: in campi dove normalmente dovrebbero stare 30 mila persone ce ne sono 90 mila! A questo va aggiunto che nella zona di Dadaab ci sono 200 mila rifugiati in fuga dal conflitto e che c’è una completa mancanza di cibo, acqua e ripari. Normalmente una persona, secondo gli standard internazionali, deve ricevere 20 litri di acqua ogni giorno. In casi di emergenza possiamo anche scendere a 15, fino a 10 litri al giorno. Ma in questo momento, in determinati campi, la gente ha solamente tre litri di acqua per tutto il giorno.

D. – Tornare nelle zone dei combattimenti, per molti dei rifugiati, a quale rischio espone?

R. – Il rischio è ovvio. Solamente in una settimana, il nostro team in una cittadina appena fuori Mogadiscio ha curato 112 feriti da arma da fuoco; tra questi oltre un terzo erano donne e bambini sotto i 14 anni. Siamo stati costretti a chiudere momentaneamente la nostra clinica chirurgica a Mogadiscio perché non c’erano le garanzie di sicurezza per il nostro staff, e ovviamente neanche per i civili … Noi, come Medici Ssenza Frontiere, chiediamo a tutte le parti coinvolte nel conflitto che rispettino e salvaguardino la comunità dei civili e ovviamente anche delle strutture sanitarie. E chiediamo alla comunità internazionale di supportare ancora di più i rifugiati nei campi in Kenya perché davvero la situazione è scandalosa!

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giovedì, maggio 21, 2009

Irak: nuovi gravi attentati a Baghdad e decine di vittime

Secondo un primo bilancio fornito da fonti ministeriali almeno 12 persone sono state uccise e altre 25 ferite, tra le “vittime” si troverebbero anche alcuni soldati americani

Agenzia Misna - Sembrano non fermarsi le violenze che sono tornate a scuotere Baghdad nelle ultime settimane. Almeno due attentati sono avvenuti questa mattina nella capitale irachena uccidendo, secondo un bilancio preliminare, almeno una quindicina di persone e ferendone oltre 50. L’episodio più grave è avvenuto in mattinata nei pressi di un mercato molto frequentato nel quartiere di Dora (nel sud di Baghdad), quando un uomo si è fatto esplodere al passaggio di una pattuglia dell’esercito americano. Secondo un primo bilancio fornito da fonti ministeriali almeno 12 persone sono state uccise e altre 25 ferite, tra le “vittime” si troverebbero anche alcuni soldati americani. Almeno due poliziotti sono morti e altre 20 persone sono state ferite nell’esplosione di una bomba avvenuta stamani all’interno di una stazione di polizia nella zona occidentale di Baghdad. Ma le violenze non si fermano a Baghdad, visto che tre persone sono morte e altre sette ferite in un attentato suicida avvenuto stamani nella città settentrionale di Kirkuk. Intanto è salito a 41 morti oltre 70 feriti il bilancio delle vittime provocate dall’autobomba esplosa ieri sera ad al-Shula, un quartiere alla periferia orientale della capitale. Da settimane Baghdad è teatro di attentati continui, alcuni dei quali tra i più gravi degli ultimi anni.



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giovedì, maggio 21, 2009

Guatemala: missionario ucciso, una vita vicino agli ultimi

Padre Rosebaugh, 74 anni, aveva lavorato a lungo al fianco dei più poveri nelle regioni settentrionali del Quiché e di Alta Verapaz, tra le più colpite dalla guerra civile (1960-’96)

Agenzia Misna - “Rivolgiamo un appello alla magistratura e alla polizia civile affinché si uniscano e indaghino su quanto accaduto, non perché la vittima è un sacerdote, ma perché la gente non può continuare a morire e questi crimini non possono restare impuniti”: lo ha detto padre José Manuel Santiago ai funerali di padre Lorenzo Rosebaugh, missionario degli Oblati di Maria Immacolata, ucciso lunedì da uomini armati non identificati mentre percorreva in automobile con quattro confratelli – di cui uno rimasto ferito - una strada rurale che collega le comunità di Chisec e Ixcán, 500 chilometri a nord di Città del Guatemala. All’appello si è aggiunto anche l’ufficio per i diritti umani dell’arcivescovado di Guatemala (Odhag), già guidato da monsignor Juan José Gerardi, ucciso nel 1998: “Esigiamo un’inchiesta e che si faccia presto chiarezza su questo nuovo atto di violenza diretto contro la Chiesa”. Di nazionalità statunitense, padre Rosebaugh, 74 anni, aveva lavorato a lungo al fianco dei più poveri nelle regioni settentrionali del Quiché e di Alta Verapaz, tra le più colpite dalla guerra civile (1960-’96). “Era molto vicino alla gente, di buon umore, negli anni precedenti alla firma dell’accordo di pace si recava a piedi nelle comunità devastate dalla violenza repressiva del conflitto” hanno ricordato i suoi confratelli in Guatemala. “La sua morte – hanno aggiunto - rientra nella violenza che ogni giorno si vive in questo paese”, il più popoloso dell’America Centrale, con quasi 14 milioni di abitanti la metà dei quali vive in povertà, che registra il tasso di omicidi più alto della regione con oltre 5000 l’anno, un dato superiore a quello del conflitto interno; “Si distingueva per la sua opzione radicale per i poveri. Era un missionario molto speciale, per la sua sincerità e lo stile di vita, povero tra i più poveri”. Dal Brasile il confratello padre Eduardo Figueroa ha ricordato che “padre Lorenzo fece parte anche della fondazione degli Oblati di Recife. Nel periodo della dittatura militare viveva in strada con i mendicanti, uno dei primi sacerdoti ad aver compiuto questa scelta nell’arcidiocesi all’epoca di monsignor Helder Camara. La sua vita – ha concluso padre Eduardo – ci chiama a una reale conversione al mondo dei più abbandonati”.

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giovedì, maggio 21, 2009

Impossibile ma vivo

Diciotto anni fa lo schianto, il coma, poi la sentenza: «È un tronco morto». Finché un giorno Massimiliano si è svegliato. E ha abbracciato quella mamma ostinata

Tempi.it - Agosto 1991. Massimiliano Tresoldi ha 19 anni. Con alcuni amici decide di trascorrere le ferie in Puglia, nella terra d’origine della famiglia. Carugate-Vieste. È il suo primo viaggio in automobile di una certa importanza. L’andata non presenta particolari problemi, la vacanza procede serenamente. Finché la combriccola, dopo qualche giorno, decide di cambiare destinazione. Obiettivo: le discoteche della riviera. Quella variazione a Massimiliano non piace, perciò accompagna gli amici fino a Rimini, poi si rimette in auto per tornare a casa. È la notte del 14 agosto, e a Carugate nessuno sa ancora di questo rientro anticipato. Fino al giorno dopo, il 15 agosto, quando Lucrezia ed Ernesto, i genitori, ricevono quella telefonata. Li informano che Massimiliano è in ospedale: ha avuto un incidente nei pressi di Melegnano, alle porte di Milano, verso le 7 di mattina. È gravissimo, non c’è tempo da perdere.
Da quel momento la vita dei Tresoldi di Carugate cambierà radicalmente. Il figlio è in coma, la sua vita è appesa a un filo. I medici non lasciano spazio a speranze. Massimiliano viene trasferito al Fatebenefratelli di Milano, terapia intensiva. Referto senza appello: il “cervelletto” è tranciato, non ci sono possibilità di recupero. Dopo 72 ore la soluzione sembra una sola: staccare il respiratore artificiale. Solo i due medici che prendono servizio alla sera suggeriscono di aspettare ancora per verificare se il ragazzo riesce a vivere senza l’ausilio delle macchine. Esiste un paradosso: gli esami sono ottimi, Massimiliano è sano, ma è in coma. Potrebbe non svegliarsi più e alla famiglia viene spiegato chiaramente. Qualcuno dice: «È un tronco morto». Ma lui resiste, e dopo qualche giorno respira autonomamente.
In terapia intensiva Massimiliano resta più di un mese, senza mai dare segni di risveglio. I medici escludono sviluppi positivi. È necessario il ricovero in un reparto di lunga degenza, spiegano, ma un “comatoso” richiede un’assistenza particolare, è un onere importante anche per un ospedale. Infatti Ezia ed Ernesto passano lunghe peripezie prima di trovare un ospedale che accolga Massimiliano in lunga degenza. Ma il calvario è appena cominciato. Per i medici il ragazzo “comatoso” è un ingombro, perciò sarà la famiglia ad accudirlo. Fino a quando mamma Ezia comprende che in quel luogo Massimiliano non migliorerà mai. È un malato ingestibile, sottolineano tutti, ma lei non demorde: «Dopo quei mesi d’inferno, senza alcun segno che ci lasciasse sperare – racconta la donna a Tempi – ho deciso che dovevamo fare di più. Ho chiamato a raccolta mio marito e gli altri miei due figli e ho comunicato la mia decisione: dovevamo portare a casa Massimiliano. È stata dura convincerli».
Medici, amici, parenti, persino il parroco: tutti tentarono di dissuaderla. Le dicevano che era una pura follia, un gesto irrazionale dettato dal dolore. «Ma Lucrezia ha lottato con tenacia e forza. È stata determinante. È lei che ci ha trainati», dice il marito. Così casa Tresoldi si è trasformata nel ricovero perfetto per un “comatoso”, con tutto il necessario per l’assistenza, ma soprattutto l’affetto. Per dieci lunghi anni, quel figlio definito «un tronco morto» ha ricevuto le visite quotidiane di amici e volontari. Tutto il paese si è riunito attorno alla famiglia. Mamma Ezia ha trovato fisioterapisti e medici che seguono il decorso della malattia, ha studiato le leggi e ha imparato a esigere dalle istituzioni tutto ciò che sulla carta è garantito a un cittadino. A casa Massimiliano è accudito tutti i giorni come un neonato, bisognoso di cure e di interpretazione, imboccato e coccolato. In questi dieci anni lo hanno portato al mare, in montagna, a Lourdes, ovunque.
«Quando arrivavano i suoi amici, a me sembrava che talvolta facesse una smorfia come per sorridere», confessa Ezia. «Quando però l’ho detto ai medici, mi hanno azzittita immediatamente, per loro quelle erano solo mie fantasie. Io continuavo a non arrendermi, anche se Massimiliano non dava alcun segno palese di risveglio». Dieci anni così. Una dedizione totale. Ogni giorno Ezia prendeva la mano di suo figlio per fargli fare il segno della croce. Poi una sera, stanca, affranta, quella madre forte e determinata ha avuto un momento di sconforto: «Mi sono sfogata. Gli ho proprio detto: adesso basta, questa sera non ce la faccio. Se vuoi farti il segno della croce, te lo fai da solo. Era una frase buttata lì, rivolta più a me stessa che a lui. Ma improvvisamente Massimiliano ha alzato la mano, si è fatto il segno della croce e mi ha abbracciato. Stentavo a crederci, si era “risvegliato”». Da quel momento, giorno per giorno, Massimiliano con piccoli segni ha iniziato a dare conferma della sua presenza. La famiglia ha aspettato un po’ prima di avvisare i medici, temevano la solita faccia incredula e l’obiezione di sempre: «È impossibile».
E invece il risveglio, lento, faticoso, c’è stato. E quante sorprese. A un certo punto Massimiliano cominciò a fare strani segni con la mano. Ma nessuno in famiglia riusciva a decifrare cosa chiedesse. «Fu un colpo quando capimmo che stava usando l’alfabeto muto». Il linguaggio “segreto” fatto di gesti che si impara alle elementari per “parlare” coi compagni senza farsi beccare dalla maestra. Massimiliano lo aveva ripescato dal fondo della memoria. Così, un po’ a gesti e un po’ usando quell’alfabeto, la sua capacità di comunicare col mondo è cresciuta esponenzialmente, mese dopo mese. Sono trascorsi quasi 18 anni dal 15 agosto del 1991, quando i medici sentenziarono la fine di Massimiliano. Poi la forza delle relazioni, delle parole, dell’amore ha vinto su tutto.

«Mi dispiace per Eluana»
«Un giorno abbiamo intuito che Massimiliano ricordava molte delle cose vissute nel periodo di coma», racconta Ezia. «Quando ad esempio abbiamo cercato di spiegargli il passaggio dalla lira all’euro, ci ha fatto capire che sapeva già tutto. Anche alcuni fatti avvenuti a casa nostra li conosceva già. Seppure “dormiente”, aveva ascoltato, si era infastidito». Oggi Massimiliano è seguito da fisioterapisti e da una logopedista che lo sta rieducando a parlare e a scrivere. E pensare che doveva essere «un tronco morto».
Come tutti in Italia, anche Ezia ed Ernesto hanno seguito la triste storia di Eluana Englaro con trepidazione e sgomento. Avrebbero voluto confrontarsi con Beppino, raccontargli la loro esperienza. Massimiliano, seduto sul divano, ha capito tutto. Ascoltando la tv, ha imparato a riconoscere la voce di quel padre e a manifestare, a modo suo, tutta la sua disapprovazione per quella scelta. Su un foglio di carta ha scritto: «Io sono contento così. Mi dispiace per Eluana».
La strada è ancora lunga e il progresso è lento e faticoso, ma l’importante è che Massimiliano è rinato. I Tresoldi raccontano la loro esperienza con gioia, fiduciosi che sarà di aiuto a molti. Anche Massimiliano è contento di far conoscere la sua vicenda. Prima di salutarlo, gli chiediamo se è d’accordo che scriveremo di lui. Ci fa capire che possiamo farlo. Tra pochi giorni, partirà nuovamente per Lourdes come ogni anno. Ha scritto un messaggio da lasciare alla Madonna: «Dai la forza a mia mamma per vivere ancora a lungo».
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giovedì, maggio 21, 2009

Letizia Moratti: «Sì alla sfida del cardinale»

Il sindaco: «Abbiamo 100 progetti, obiettivo l'Expo. La borghesia esiste anche se resta nascosta»

Milano — «Raccogliamo la sfida del nostro cardinale. Siamo pronti a dare il nostro contributo per fare sistema: con una raccolta di idee per la città e valorizzando il molto che già esiste». Letizia Moratti scorre l'intervista dell'arcivescovo Dionigi Tettamanzi e ad un tratto scuote la testa: «Questo no. Condivido molti passaggi dell'analisi dell'arcivescovo, ma non si può dire che Milano abbia perso la sua anima. Milano ha un'anima molto radicata, ha risorse molto grandi, ha consapevolezza del proprio ruolo e della propria missione».
Signor sindaco, l'arcivescovo Tettamanzi si chiede se esista ancora la borghesia milanese. Cosa gli risponde?
«La borghesia esiste ancora e fa ancora la sua parte, pur restando nascosta. Ma Milano oggi ha nuovi protagonisti, che sono cresciuti e si sono imposti di pari passo con la trasformazione della città. E in questi nuovi protagonisti vedo la volontà di partecipare al bene comune».

Ha in mente qualche nome?
«Basta leggere le cronache di questi giorni. Giuseppe Rotelli, che inventa un'eccellenza come il Policlinico San Donato, è un valore per Milano. Così Livia Pomodoro che ricorda sua sorella Teresa tenendo vivo un teatro sociale; la Fondazione Trussardi e le mostre che finanzia; la Fornace Curti frequentata da artisti internazionali; la Fondazione Rava che aiuta i bambini: e potrei continuare a lungo..».

Quindi, i milanesi ci sono?
«Certo. E ci hanno sostenuto anche nella vicenda di Expo: singoli cittadini, associazioni, imprenditori, banche e fondazioni. Milano c'è e ci crede».

Anche il cardinale riconosce che Expo sia un'occasione: ma l'impasse di questo anno?
«C'è un'altra Expo oltre a quella raccontata dai media, che si concentrano sui problemi della governance e dei fondi. Ci sono accordi, paesi che hanno avviato progetti grazie al nostro contributo: Milano si riconosce in questo».

Tettamanzi dice: «Occorre ricondurre tutte le scelte amministrative ad una grande, organica visione di città». Manca la visione?
«Manca, come ben spiega il cardinale in un altro passaggio, la capacità di fare sintesi. Mi spiego: è riduttivo parlare per compartimenti stagni e pensare all'ambiente, poi al sociale, poi alla cultura. Ci sono tanti fili e a noi spetta il compito di intrecciarli: per questo accettiamo la sfida e pensiamo a 50 progetti. Diamoci l'obiettivo del 2015, anno di Expo. Raccogliamo le 50 idee più significative che possano caratterizzare la nuova Milano. Accanto, però, diamo visibilità a 50 realtà che già esistono: è il nostro modo per far vivere e crescere la speranza, seguendo il monito di Tettamanzi».

«L'individualismo mina la solidarietà». Milano è una città aperta o ostile?
«Milano è una città apertissima e infatti arrivano qui stranieri e studenti, creativi e imprenditori che la scelgono per le molte opportunità che offre. Il problema dell'integrazione è giustamente posto: ma se si fa un giro nelle nostre scuole e nei nostri campi sportivi si vede che Milano è una città integrata».

Non può negare le difficoltà di questa integrazione e le spinte talvolta un po' eccessive in senso opposto.
«Non le nego, ma fanno parte delle realtà di tutte le metropoli. Il nostro obiettivo continua ad esser di fare politiche che siano equilibrate: politiche sociali e ordinanze sulla sicurezza. Sennò generiamo nei cittadini reazioni di chiusura e di autodifesa, che spesso sono giustificate e comprensibili».

Milano non è più un laboratorio ?
«Milano è tuttora un laboratorio di idee, progetti e vita. Certo, siamo molto esigenti e quindi vorremmo giustamente che si facesse meglio e di più. Infatti, guardiamo con attenzione a molte realtà in Europa e nel mondo che vogliamo riproporre da noi. Ma si sappia che molti all'estero prendono noi come esempio».

Giorgio La Pira ogni sera si chiedeva come era stato buon sindaco, quel giorno, per la sua città. Lei si pone questa domanda?
«Sì, spesso. Vorrei fare di più e meglio ma credo sia mio e nostro dovere dare fiducia a Milano, restituirle orgoglio».

Per cosa vorrebbe essere ricordata?
«Per avere lasciato una città sicura di sé, orgogliosa e bella da vivere».
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giovedì, maggio 21, 2009

La giunta birmana torna a chiudere le porte del processo

Ieri, per un giorno, era stata permessa la visita di diplomatici e la presenza di giornalisti durante le udienze del processo ad Aung San Suu Kyi. Membri della Nld giudicano la decisone di ieri un gesto di “facciata” che non porterà a un processo “giusto e libero”.

Yangon (AsiaNews/Agenzie) – Si svolge ancora a porte chiuse la quarta udienza del processo a carico di Aung San Suu Kyi, leader dell’opposizione democratica in Myanmar, in programma oggi nel carcere di Insein, a Yangon. Ieri la giunta militare aveva concesso l’ingresso a un gruppo di dieci giornalisti (5 stranieri e 5 locali) e a rappresentanti diplomatici internazionali.

Una fonte ufficiale birmana spiega che l’apertura del processo era “solo per un giorno”; una decisione presa, probabilmente, per allentare la morsa della diplomazia internazionale che ha condannato l’arresto della “Signora” e ne invoca il rilascio immediato.

I membri della Lega nazionale per la democrazia (Nld), il principale partito di opposizione, giudicano le concessioni della dittatura solo un mero “gesto di facciata”, che non porterà a un processo aperto al pubblico. Win Tin sottolinea che “permettere l’ingresso a giornalisti e diplomatici per un giorno” non significa che il procedimento sia “libero e giusto”.

Aung San Suu Kyi è incriminata per aver ospitato un cittadino americano che si era introdotto nella sua casa, a Yangon, eludendo il serrato controllo della polizia. Secondo la giunta, la Nobel per la pace avrebbe così infranto i termini degli arresti domiciliari – dove ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni – che scadono il prossimo 27 maggio. Diversi analisti e oppositori giudicano la vicenda una “montatura” architettata “ad arte” dal regime per escludere la leader della lotta democratica dalle elezioni politiche del 2010.
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giovedì, maggio 21, 2009

L’influenza suina sbarca a Tokyo. Oltre 10 mila gli infetti

Una ragazza 16enne, proveniente da New York è ricoverata all’ospedale con i sintomi del raffreddore. Nuovi casi in Cina, Taiwan, Australia. Negli Stati Uniti si nota che l’influenza colpisce soprattutto persone fra i 5 e i 25 anni. Persone più mature sembrano aver sviluppato una protezione, forse con le influenze del passato.

Tokyo (AsiaNews/Agenzie) – Una ragazza di 16 anni di Tokyo è l’ultima vittima affetta da influenza suina, che si è ormai diffusa in 41 nazioni. La ragazza proveniva da un viaggio a New York ed è il primo caso nella capitale giapponese, la metropoli più grande del mondo con 35, 7 milioni di abitanti. La ragazza è ricoverata all’ospedale con febbre, tosse,e gola infiammata. Il ministero giapponese della Sanità, che nelle scorse settimane aveva chiuso oltre 4 mila scuole per evitare l’avanzata del virus, rimane fiducioso che l’influenza possa essere contenuta. Il caso della ragazza mostra che non vi è ancora in Giappone una trasmissione da uomo a uomo e che il virus è per ora solo stato trasportato dall’America.

In Messico, l’epicentro dell’epidemia, il numero delle infezioni confermate è di 3817, con 75 morti. A livello mondiale gli affetti da virus H1N1 sono 10243 e comprendono 80 morti. In Cina si registra un quinto caso di influenza, uno a Taiwan e una dozzina in Australia.

Sebbene l’Organizzazione mondiale della sanità tenga ancora alta l’allerta (al n. 5 su 6), alcuni governi stanno allentando alcune misure di quarantena. Ad Hong Kong, da oggi, coloro che sono stati vicino a qualche persona infetta non saranno isolati, ma devono farsi controllare ogni giorno e prendere anti-influenzali.

Hatem al-Gabali, ministro egiziano della sanità ha messo in guardia dai pericoli infettivi che attendono i milioni di pellegrini che programmano di andare alla Mecca. Egli ha detto che non può fermare gli oltre 600 mila egiziani che si vogliono recare al luogo più sacro dell’islam, ma ha pure affermato che al loro ritorno potrebbero essere messi tutti in quarantena.

Gli Stati Uniti, sono il secondo Paese più colpito, con 5710 casi e 8 morti.

Gli studiosi cercano di spiegare come mai più del 60% dei casi sono fra persone di età fra i 5 e i 25 anni. Sembrerebbe che persone anziane, forse esposte ad altri virus in passato, abbiano sviluppato una qualche protezione.
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mercoledì, maggio 20, 2009

Green economy per uscire dalla crisi

La green economy deve favorire la fuoriuscita dalla crisi, ma soprattutto contribuire al riorientamento strategico di alcuni settori industriali e alla nascita di start-up in grado di competere in un contesto in rapido mutamento. L’esempio dell’auto negli Usa. L’editoriale di Gianni Silvestrini.

Qualenergia.it - Quali sono gli elementi di forza della “green economy” nell’attuale fase di crisi e di transizione? Una prima caratteristica strategica riguarda l’aiuto alla trasformazione delle economie e la capacità di rendere meno traumatico il passaggio al contesto che verrà imposto nei prossimi decenni dai vincoli energetico-ambientali. Prendiamo il caso dell’auto negli Usa. Era evidente che i modelli che continuavano ad essere sfornati erano poco competitivi, tanto che i rivali giapponesi avevano progressivamente eroso importanti quote di mercato. L’attuale crisi economica ha estremizzato le difficoltà e al contempo ha offerto una soluzione. L’amministrazione Obama ha infatti condizionato l’erogazione di aiuti federali ad una inversione delle scelte strategiche delle major automobilistiche.

Green economy e occupazione
Molti studi hanno dimostrato che investimenti nel campo dell’efficienza energetica e nelle fonti rinnovabili comportano ricadute occupazionali superiori rispetto ad investimenti in settori energetici convenzionali. E già questo è un buon argomento per lanciare piani incisivi, come quello programmato negli Usa, per migliorare le prestazioni energetiche degli edifici pubblici.
Per restare in Italia, una misura come quella delle detrazioni fiscali del 55% per la riqualificazione energetica degli edifici rappresenta uno strumento che, con costi limitati per lo Stato grazie all’emersione del sommerso e all’incremento del gettito fiscale, è in grado di dare un impulso all’economia e consente di ridurre le importazioni energetiche.
Si può però fare di più. L’Enea ha recentemente valutato l’impatto di un incisivo programma di riqualificazione dell’edilizia pubblica, evidenziando i vantaggi di una manovra di questa ampiezza. Infatti, a fronte di una spesa di 8,2 miliardi di euro, si avrebbe una crescita della produzione attivata di 19 miliardi di euro, un incremento complessivo del Pil nell’ordine dello 0,6 punti percentuali in un anno e un incremento della domanda di lavoro di circa 150.000 unità.

La green economy apre al futuro
Ma c’è una ragione più di fondo che motiva l’accelerazione nei confronti delle tecnologie verdi. Le prospettive sul medio e lungo periodo saranno infatti condizionate da alti prezzi dell’energia, come ci ricorda la IEA, e dalla necessità di ridurre drasticamente le emissioni climalteranti. E’ evidente che si profila una forte richiesta di nuove tecnologie e l’apertura di interessanti mercati. L’Amministrazione statunitense con il suo pacchetto “green” gioca in qualche modo d’anticipo accelerando la conversione di alcuni comparti e favorendo la creazione di nuovi settori per posizionarsi in maniera efficace nel futuro contesto di economie a basso contenuto di carbonio.
L’operazione Chrysler-Fiat in questo senso è emblematica di un cambio di pelle impensabile fino a poco tempo fa. Il caso dell’auto Usa indica la possibilità della trasformazione di un modello sociale, organizzativo e mentale, prima ancora che tecnologico. I veicoli efficienti, di dimensioni inferiori erano già in circolazione, ma non venivano considerati adatti dalle grandi case automobilistiche. La bancarotta all’orizzonte e un sostegno governativo condizionato ad una conversione “verde”, hanno determinato le condizioni per una rinnovata competitività di questo strategico comparto.

Nell’attuale delicata fase di crisi, i governi dovrebbero quindi calibrare con attenzione gli interventi in modo da facilitare la ripresa economica e al contempo attrezzarsi nei confronti delle sfide che verranno sul fronte energetico, non appena ripartirà la corsa dell’oro nero, e sul fronte climatico con gli obblighi al 2020.
Il nostro paese ha in passato sottovalutato le opportunità che derivavano dagli impegni di Kyoto, muovendosi in ritardo, mentre paesi come la Germania coglievano l’occasione creando interi nuovi comparti industriali, come nel caso delle rinnovabili che occupano 280.000 addetti. Adesso, con le trattative per il post-Kyoto, siamo entrati in un’altra fase delicata che delinea ancora maggiori spazi di intervento. La rapidità con cui negli ultimi due anni abbiamo recuperato un ruolo nelle rinnovabili e gli investimenti in atto nella produzione di tecnologie solari fanno ben sperare sulla capacità di riuscire a reinserirci nella grande partita.
La green economy non è una formula magica. Per essere vincente deve riuscire a favorire la fuoriuscita dalla crisi, ma soprattutto deve contribuire al riorientamento strategico di alcuni settori industriali e alla nascita di start-up in grado di competere in un contesto in rapido mutamento.

Gianni Silvestrini

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mercoledì, maggio 20, 2009

Clima, Cina e Usa trattano in segreto

Tra i due giganti delle emissioni, rivela il Guardian, sono in corso dall'autunno scorso negoziati segreti sulla lotta al global warming. Si è parlato anche di quote di riduzione delle emissioni. Forse un accordo entro l'autunno. Una buona notizia in vista del vertice di Copenhagen?

Qualenergia.it -Mentre mancano meno di 200 giorni al summit internazionale sul clima di Copenhagen, arriva una rivelazione che dà una speranza in più che al vertice si raggiunga un valido accordo. La notizia riguarda i rapporti tra i due giganti delle emissioni, Cina e Stati Uniti, che avranno un peso determinante per il futuro dell’accordo per il post-Kyoto. Già dall’autunno scorso – ha rivelato il Guardian ieri - le due superpotenze avrebbero dato il via a negoziati segreti sul clima e non si esclude la possibilità che possano riuscire a trovare una linea d’azione ufficiale condivisa già per l’autunno, in tempo per Copenhagen.

Già nell’estate del 2008, per iniziativa cinese, sarebbero iniziati dei colloqui segreti, inizialmente per cercare una collaborazione nello sviluppo della cattura della CO2. Poi, negli ultimi due mesi dell’amministrazione Bush, una delegazione composta da repubblicani e democratici si sarebbe recata per due volte in segreto in Cina per parlare di lotta al cambiamento climatico.L’iniziativa - portata avanti tra gli altri da John Holdren, ora consulente scientifico della Casa Bianca e da altri che sono poi andati a coprire cariche importanti con Obama - avrebbe prodotto una bozza d’accordo già a marzo, solo due mesi dopo l’inizio del mandato del primo presidente Usa disponibile a sottoscrivere un accordo internazionale sul global warming. La bozza non è ancora stata firmata, ma secondo i diplomatici coinvolti nelle trattative segrete - scrive il quotidiano inglese - potrebbe essere la base per un accordo Cina-Usa sul clima.

Lo sforzo internazionale di Obama per il clima sarebbe quindi iniziato ancora prima del suo insediamento alla Casa Bianca e l’obiettivo prioritario posto è stato da subito di coinvolgere l’altro colosso delle emissioni mondiali. Anche nella diplomazia alla luce del sole gli Usa hanno sempre cercato di migliorare la relazione con la Cina; si pensi alle molte dichiarazioni in questo senso o alla visita cinese del Segretario di Stato Hillary Clinton. Con i "canali segreti" però i negoziati avrebbero fatto notevoli progressi, arrivando già a parlare di riduzioni delle emissioni. Nella bozza di accordo di marzo - rivelano i diplomatici americani - c’erano impegni precisi di tagli alla CO2, collaborazione su tecnologie come la CCS e le motorizzazioni efficienti delle auto e il consenso delle due nazioni a collaborare per l’accordo di Copenhagen. La bozza avrebbe dovuto essere approvata già a marzo, con la visita del Ministro cinese per lo sviluppo Xie Zhenhua, ma ciò non è avvenuto. Troppo prematuro per i due paesi impegnarsi formalmente, dicono le fonti del Guardian.

La Cina ha sempre negato la possibilità di attuare riduzioni dei gas serra imposte dal’esterno, con l’argomentazione che avrebbero frenato lo sviluppo economico e, di conseguenza, minato il diritto alla ricerca del benessere della popolazione. Obiettivi ambientali ed energetici la Cina li ha già, ma non si si è mai parlato di riduzione netta delle emissioni, tantomeno concordata con altri paesi: nel piano quinquennale 2006-2010 c’è l’impegno (che il paese starebbe mantenendo) a far scendere l’intensità energetica (il rapporto tra Pil ed energia consumata) del 20% e a ridurre del 10% l’inquinamento.
Di recente però il governo di Pechino aveva fatto alcune aperture, che fanno sperare in impegni più concreti per il prossimo piano quinquennale. Che le aperture fossero collegate anche ai negoziati segreti con gli Usa? Senza bisogno di ribadire l’importanza per il post-Kyoto degli obiettivi che Usa e Cina si porranno e del fatto che su questi trovino un accordo, non ci resta che aspettare i prossimi sviluppi nei rapporti tra le due superpotenze, “sorvegliate speciali” in vista del vertice di Copenhagen.
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mercoledì, maggio 20, 2009

"Un goal per Padre Pio"

In ricordo della sua nascita, 25 maggio 1887, triangolare di calcio tra la Nazionale Sacerdoti, Vip Italia e nazionale Tradizioni Popolari. madrina dell'evento Bianca Guaccero

San Giovanni Rotondo - Lunedì 25 maggio prossimo, allo stadio Massa di San Giovanni Rotondo alle 15,30, l'Assoclub Eventi organizza un triangolare di calcio tra la Nazionale Sacerdoti, Vip Italia (attori, giornalisti, magistrati, autorità civili, militari,calciatori e altri) e la Nazionale F.I.T.P (Federazione Italiana Tradizioni Popolari) un giorno per ringraziare l'Altissimo per i doni della nascita di Padre Pio da Pietrelcina e della imminente visita di Sua Santità Papa Benedetto XVI in San Giovanni Rotondo.
La Seleçao Internazionale Sacerdoti Calcio (Nazionale Sacerdoti), già ospite di importanti programmi televisivi Rai e Mediaset, è nata come associazioni NO PROFIT per partecipare ad eventi in tutta Italia donando la propria immagine di " pastori di anime" in qualcosa che riesca al contempo a portare il Vangelo e le carità anche attraverso una partita di calcio.

L'incasso dello stadio sarà consegnato nelle mani di Fra Donato Ramolo, domiciliato nel Convento dei Frati Cappuccini di San Giovanni Rotondo e referente per la Comunità dei Frati Cappuccini Missionaria presenti in Africa (Diocesi di Gorè-Ciad - www.diocesigore.org ), per contribuire alla realizzazione della costruzione di una Scuola Materna nel villaggio di Borò. <<>>, questo è quanto ha scritto Fra Donato Ramolo a Stefano De Bonis e Italo Caratù , ideatori dell'evento in argomento. Il triangolare sarà diretto dall'arbitro internazionale il Sig. Ayroldi di Molfetta assistito da Stefano Ayroldi e Lanciano Flaviano. Al momento tra i giocatori vip che scenderanno in campo, spiccano i nomi di : Diego Armando Maradona Jr., Beppe Signori, Esposito Massimiliano, Giancarlo Magrini, Mambelli Alberto, Aldair, Michele Pirro, Zambrotta e altri ancora. Prima della partita, alle ore 10, il Sindaco Giuliani saluterà gli ospiti della manifestazioni, seguirà conferenza stampa poi,. tutti visiteranno l'emozionante Museo delle Cere di Padre Pio e alle 11, 30 Santa Messa nel Convento dei Cappuccini.

La kermesse gode del patrocinio della Regione Puglia, Provincia di Foggia, Comune di San Giovanni Rotondo, F.I.G.C. , Lega Nazionale Dilettanti, Coni Foggia, Frati Minori Cappuccini di San Giovanni Rotondo, Museo delle Cere di Padre Pio e dell'Ospedale Casa Sollievo della Sofferenza.

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mercoledì, maggio 20, 2009

La Cei: i profughi respinti tornano su strade di fame e di morte

Un incontro tra Italia, Malta, Libia e Alto commissariato Onu per I rifugiati è stato sollecitato dall’Unhcr al vicepresidente della commissione europea Barrot

Radio Vaticana - I migranti respinti dalle autorità italiane in Libia sono stati costretti a tornare su strade di fame e di morte che già conoscevano: non tutti erano bisognosi di asilo, non tutti santi ma poveri lo sono di certo: è quanto scrive il presidente della Commissione Cei per i problemi sociali e il lavoro, mons. Arrigo Miglio, in un intervento pubblicato dal Sir, l'agenzia della conferenza episcopale italiana. Non possiamo farci condizionare da culture xenofobe o che finiscono per colpire anche tutte le presenze positive e necessarie degli immigrati La Chiesa, conclude mons. Miglio, è per sua natura multi etnica, e la solidarietà cui è chiamata comprende sia il pane quotidiano sia il pane dell'accoglienza e dell'apertura di cuore verso ogni persona.

Un incontro tra Italia, Malta, Libia e Alto commissariato Onu per I rifugiati è stato sollecitato dall’Unhcr al vicepresidente della commissione europea Barrot. La richiesta è soprattutto quella di lavorare ad una strategia comune nei confronti dell’immigrazione, dopo la politica dei respingimenti adottata dal governo italiano. Intanto da Tripoli il segretario generale per la sicurezza pubblica respinge le accuse di trattamento inumano nei centri per gli immigrati libici centri che, secondo Al Obiedi, non sarebbero peggiori di quelli italiani. Non è della stessa opinione padre Ambroise Tine, direttore di caritas Senegal, intervistato da Francesca Sabatinelli (ascolta)

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mercoledì, maggio 20, 2009

Dialogo cattolico-musulmano: concluso l'incontro di Amman

Entrambe le parti hanno poi ribadito "l'importanza della democrazia e dello Stato di diritto", nel rispetto dei "diritti umani fondamentali

Radio Vaticana - Si è concluso oggi ad Amman, in Giordania, il primo Colloquio tra il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, guidato dal cardinale presidente Jean-Louis Tauran, e l’Istituto Reale per gli Studi tra le Fedi, guidato dal suo direttore, l’ambasciatore Hasan Abu Nimah. Durante l’incontro, dedicato al tema "Religione e società civile" - riferisce un comunicato finale - le parti hanno sottolineato che "le religioni hanno un ruolo specifico da svolgere nella società civile" offrendo il loro contributo al bene comune, trascendendo "interessi politici e ricerca del potere". I partecipanti hanno sottolineato "l'importanza di educare i giovani ai valori del rispetto reciproco e della cultura del dialogo, al rifiuto della violenza, in modo da promuovere la pacifica convivenza". Entrambe le parti hanno poi ribadito "l'importanza della democrazia e dello Stato di diritto", nel rispetto dei "diritti umani fondamentali, in particolare della libertà e della giustizia", del riconoscimento delle minoranze etniche, delle diversità culturali e religiose e dell'uguaglianza tra i cittadini. E’ stato quindi sottolineato "il ruolo che le religioni possono svolgere nel rafforzare la partecipazione e la coesione sociale, dando il loro sostegno specifico per la costruzione di una società stabile e prospera, sulla base del principio di sussidiarietà". È stato infine deciso che il prossimo Colloquio si terrà a Roma entro due anni preceduto da una riunione preparatoria in cui il tema e le modalità sono da definire. Tra gli altri, hanno preso parte al Colloquio, per la Chiesa cattolica: mons. Pier Luigi Celata, segretario del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, mons. Francis Assisi Chullikatt, nunzio apostolico in Giordania e Iraq, mons. Yasser Ayyash metropolita greco-cattolico in Giordania, mons. Salim Sayeg, vicario patriarcale latino per la Giordania. La delegazione musulmana era composta anche da Seyed Mohammed Ali Abtahi, presidente dell’Istituto per il Dialogo Interreligioso dell’Iran, dal prof. Mohammed al-Sharkawi, docente presso l’Università del Cairo, il prof. Abdul Nasser Abul-Basal, presidente del World Islamic Science and Education University, dal prof. Saoud el Mawla, dell’Università di Beirut. Nella sessione pubblica, tenuta alla fine del Colloquio, il cardinale Tauran e il principe El Hassan bin Talal hanno ringraziato i partecipanti per il loro contributo all’incontro.

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mercoledì, maggio 20, 2009

Notizie dal Chaco

Pubblichiamo una lettera di fra Tarcisio Ciabatti, della Scuola di Salute Pubblica nel Chaco

Amici carissimi,
scusate i lunghi silenzi. In questo caso sono dovuti all’attività intensa che abbiamo vissuto in quest’ultimo periodo, specialmente per ciò che riguarda la ripresa delle attività “Salud sin Fronteras en el Chaco Suramericano”; lungo lavoro di formica per flessibilizzare le frontiere e per raggiungere l’unità dei popoli indigeni della regione, prima separati con la creazione degli stati moderni poi dagli interessi economici e razziali. Ancora una volta la OMS (Organizzazione Mondiale della Salute) ci ha appoggiato con tutto l’equipe di Washington, del Paraguay, dell’Argentina e della Bolivia per lanciare la settimana di vaccinazioni per tutte le Americhe, concentrando l’inaugurazione di questa importante campagna nelle città di frontiera di queste tre nazioni. Come d’abitudine il tutto è stato accompagnato da una grande festa in cui la nostra Scuola ha partecipato attivamente con canti e balli, insieme alla nuova orchestra di Palmarito che con i loro violini hanno incantato i ministri e le autorità presenti.

Tante le cariche presenti, cominciando dai Ministri di Salute dell’Argentina, del Paraguay e della Bolivia, la direttrice dell’OPS, il direttore dell’UNICEF, il rappresentante di salute dell’APG dott. Higinio Segundo, sindaci, prefetti, governatori, direttori delle Gerencias de Salud, autorità delle comunità indigene, organizzazioni sociali, scuole ecc.

L’inaugurazione di questa campagna di vaccinazione è partita il 26 aprile da Mariscal Estigarribia in Paraguay, ha continuato in Yacuiba, città di confine della Bolivia e si è conclusa il 27 aprile a Tartagal in Argentina.

Abbiamo seguito tutte e tre gli incontri, quasi contemporanei, con i nostri studenti del Paraguay e dell’Argentina, approfittando dell’occasione per recuperare il terreno, in parte perduto per divisionismi provocati da “los de siempre” …

A coronazione di questi meeting, il Primo di Maggio la scuola Tekove Katu è stata scelta, sempre dall’Organizzazione Panamericana della Salute, per celebrare il 30° Anniversario della Dichiarazione della Conferenza di Alma –Ata, nostro “manifesto” per raggiungere l’Attenzione Primaria della Salute.

In questo grande incontro erano presenti anche amici venuti dall’Italia.

Il prof Franco Paradisi ha esposto le attività svolte in questi venti anni dalla cattedra di Malattie Infettive dell’Università di Firenze in collaborazione con l’Università di Siena, Catania, Pisa ecc.

In questa occasione la OPS –OMS ha conferito alla nostra scuola il titolo di “Scuola Modello”.

Questo attestato di riconoscenza è per noi e voi tutti il risultato del nostro e vostro lavoro comune che ci unisce e ci stimola a continuare.

Vogliamo riprendere anche i contatti attraverso il sito web www.tekovekatu.org, che nei prossimi giorni cercheremo di aggiornare.

Un abbraccio

Tarcisio e Amici
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mercoledì, maggio 20, 2009

Brasile: migliaia di vittime i senzatetto per le alluvioni

Peggiora la situazione in Brasile, alluvioni al nord e nel sud del paese permane un stato di siccità che provoca molti morti

Agenzia Misna - Sono almeno 45 le vittime, quasi 380.000 i senza-tetto e complessivamente un milione le persone in qualche modo colpite dalle inondazioni che da oltre un mese si registrano in 13 stati brasiliani, soprattutto nel nord e nel nord-est, mentre il sud patisce le conseguenze di un prolungato periodo di siccità, giudicato il più grave degli ultimi 80 anni. Secondo gli ultimi dati della segreteria nazionale della difesa civile (Sedec), la situazione più grave si riscontra negli stati di Ceará, Marañhao, Bahia, Alagoas, Paraíba, Sergipe, Pernambuco e Santa Catarina; i municipi che hanno dichiarato lo stato d’emergenza sono saliti a più di 400, ma molti restano del tutto isolati a causa degli allagamenti. Nel Piauí le intense precipitazioni hanno provocato la fuoriuscita di un’imponente massa d’acqua da una diga capace di contenere fino a 52 milioni di litri che ha costretto all’evacuazione di 2000 persone. I danni totali stimati dal governo ammontano finora a oltre 500 milioni di dollari. Inondazioni e siccità “sono un’allerta sugli effetti dei cambiamenti climatici. Accadono cose che ci ricordano l’importanza di avere più cura per il pianeta Terra” ha detto il presidente Luiz Inacio Lula da Silva, visitando di recente alcune zone colpite.

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mercoledì, maggio 20, 2009

Usate l’intelligenza

«Certi ambienti laicisti sono spiazzati da un capo della Chiesa che parla della fede secondo ragione. Per questo lo aggrediscono». Intervista esclusiva ad Angelo Bagnasco

Tempi.it - Se per una volta trovassero la strada della considerazione spassionata di ciò che ascoltano, se non proiettassero su ciò che ascoltano l’amor proprio e l’interesse dell’approvazione luogocomunista, perfino il Manifesto avrebbe capito tutto. Ida Dominijanni ha letto la prolusione del presidente della Conferenza episcopale italiana, il cardinale Angelo Bagnasco, e ne ha colto il succo: «Dallo “scontro di civiltà” a quello “fra due diverse, per molti aspetti antitetiche, visioni antropologiche”». Sintesi perfetta. Peccato che poi l’autrice glissi sull’argomento e non discuta l’osservazione del capo della Cei se non con una ritirata strategica in politica. E nell’accusa, incomprensibile, di «fondamentalismo ontologico». Ma insomma, cos’è questa benedetta ontologia? Può perfino essere che si annidi nella creazione di un fondo nazionale a favore dei lavoratori e delle famiglie. Fondo annunciato dallo stesso Bagnasco e istituito da una Chiesa cattolica essa stessa dipendente dalla generosa e libera carità della gente italiana (l’8 per mille) e non dal prelievo automatico dalla cassa dello Stato. Coincidenza vuole che sua eminenza ci riceva in una casa di ospitalità delle suore di Eugenia Ravasco, una milanese nobile e agiata del tempo di Manzoni, beatificata da Giovanni Paolo II nel 2003, orfana dei genitori, che rinunciò a un ingente patrimonio (e al matrimonio con un marchese) «per consacrarsi al Sacro Cuore di Gesù», ospitare nella sua casa l’“Associazione per il bene” e dedicare la vita alle scuole per i giovani e all’assistenza di ammalati e bambini poveri. Su cosa abbiamo discusso e ci siamo divisi a proposito di Eluana Englaro? Su cosa discute e si divide il Parlamento italiano in materia di disposizioni di fine vita? E poi c’è l’aborto che assedia i nuovi poveri. C’è l’annosa “emergenza educativa”. Insomma parliamo di tentativi di associazione per scongiurare il male e sostenere il bene. Personale e sociale. Al contrario di quanto faccia trasparire una certa rigidità di figura e di biografia (è stato ordinario militare e la sua severa e ieratica postura non lo dimentica), i modi del cardinale Bagnasco sono molto cortesi e affabili. Si capisce che siamo di fronte a un uomo che sa ascoltare e volentieri concede quaranta minuti della sua impegnativa giornata per rispondere a domande, anche impertinenti.

Eminenza, la lettera che Benedetto XVI ha scritto ai vescovi per chiarire le ragioni e i confini del suo “gesto di misericordia” nei confronti dei lefebvriani ha colpito tutti. Il Pontefice ha rilevato gli errori compiuti dalla stessa istituzione ecclesiale, ha spiegato il suo gesto e ha richiamato i cattolici, conservatori e progressisti, a non compiere lo speculare errore di considerare la Chiesa un fatto precedente o conseguente al Concilio Vaticano II. Ha sorpreso, inoltre, il modo particolarmente profetico, confidente, apostolico, con cui il Papa ha richiamato i fondamenti del primato petrino e chiesto l’unità del popolo cristiano, smettendola i cristiani di “divorarsi” a vicenda. Lei, a proposito di questa lettera, ha parlato di un “fatto storico”. Conferma?
Confermo. Ho subito ritenuto e anche detto in alcune sedi che questa lettera passerà alla storia come la cifra di un Papa e di un papato. Di un Papa che non ha niente da nascondere di proprio e quindi non ha paura di presentarsi ai suoi confratelli nell’episcopato, alla Chiesa e al mondo intero con una straordinaria, grandiosa umiltà. In questo quadro di estrema trasparenza e umiltà disarmante il Santo Padre ha dato la corretta interpretazione del suo Pontificato e del servizio petrino. Che è per confermare la fede del popolo di Dio, per custodire e promuovere l’unità della comunità cristiana. Nello stesso tempo egli mette anche in evidenza ciò che gli sta più a cuore: la conferma della fede dei fratelli, l’unità della Chiesa, il cammino ecumenico, il dialogo interreligioso. Facendo appello a tutta la cristianità perché si stringa attorno al servizio di Pietro per questi stessi scopi.
Impressiona anche la preoccupazione del Papa circa il fatto che la fede scompare «da vaste zone della terra» e «Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini». Lo scrittore Vittorio Messori ci vede un richiamo alla priorità della fede e del Cristo storico rispetto all’istituzione ecclesiale. Cosa ne pensa?
Certamente l’ansia apostolica, l’ansia evangelica che è tipica di san Paolo – «guai a me se non predicassi il Vangelo» – è l’anima dell’istituzione. Non c’è e non ci può essere una contrapposizione ma semmai una profonda unità tra quello che è il carisma dell’annunzio evangelico e quello che è l’istituzione che questo carisma, quest’anima, informa. La passione per l’evangelizzazione è propria di Pietro e si declina in Benedetto XVI all’insegna di una particolare chiarezza di predicazione e di una particolare profondità. Profondità che non è oscurità di linguaggio perché arriva al cuore di tutti in quanto l’attuale magistero petrino usa sia della fede, che è la chiave interpretativa di accesso alla rivelazione, ma anche della ragione. Per questo la figura di questo pontefice sembra suscitare in un certo mondo laicista qualche problema in più, qualche maggiore apprensione. Sentono di aver di fronte un uomo e un Papa che si presenta alla Chiesa e al mondo con il linguaggio della fede non disgiunto dalla ragione.
Da Ratisbona all’Africa, gli appelli di Benedetto a una «laicità positiva» non sembrano essere stati raccolti. Anzi. Gli osservatori e i media internazionali, dal New York Times a Le Monde, da al Jazeera a El País, hanno moltiplicato le ingiunzioni all’“abiura” e le richieste di “scuse” da parte del Papa.
Il candore del Papa è disarmante e colpisce tutti, credenti e non credenti. È un candore che non ha paura ad entrare direttamente nei problemi – anche i più spinosi, i più delicati – di fronte ai quali il Papa sente la sua profonda responsabilità di pastore e di maestro a cui non può sottrarsi. Ripeto, capisco le apprensioni dei detrattori di un papato che entra nei problemi con quella mitezza e semplicità che certamente ha guadagnato e guadagna il cuore e l’attenzione di molti, cattolici o meno. Questo stile non aggressivo, aperto e, starei per dire, laico, suscita probabilmente l’aggressività e le reazioni bigotte di qualcuno. Come dicevo poc’anzi, Benedetto è il Papa della fede non separata dalla ragione. Il timore è che l’aggressione nei suoi confronti derivi dallo spiazzamento che produce in certi ambienti laicisti questa sollecitudine verso tutto ciò che è umano, quindi cristiano. Già, perché non si può proprio dire, come talvolta i superficiali usano dire, che il Papa fa semplicemente il suo mestiere, parla esclusivamente a chi ha la fede, non ci riguarda quel che dice perché non siamo credenti. Non si può più dire in modo così tranchant e sistematico che ogni parola che il Papa dice sia una parola che vale solamente per i fedeli. Non si può più dire perché il Papa usa una ragionevolezza di fondo che si presenta e si offre a qualunque uomo di pensiero, di intelligenza e di riflessione. In sintesi, la sua semplicità, il suo candore, la sua mitezza persuasiva suscitano qualche reazione particolarmente virulenta. Con la sua chiarezza, il Papa, ad esempio in Africa, ha messo il dito su argomenti di estrema importanza che vanno a toccare interessi economici e politici rilevanti. Per questo certi ambiti altolocati reagiscono con astio e irrisione.

Ambiti “neocolonialisti” come lei ha detto alla Cei?
È lo stesso Papa Benedetto che ha parlato di “neocolonialismi” e questa parola deve far riflettere il mondo occidentale. Mi chiedo se questo polverone creato attorno a un brevissimo passaggio sui preservativi – fatto sull’aereo che lo portava in Africa e nel contesto di una conversazione con i giornalisti, esponendo nel merito nient’altro che la posizione della Chiesa di sempre, nulla di nuovo – non puntasse a distogliere l’attenzione sugli altri temi, decisivi, che il Papa ha toccato nel suo viaggio.

Sta dicendo che l’incomprensione è voluta? Che è la ricaduta politica delle dichiarazioni del Papa a impedire una discussione schietta delle sue posizioni?
La fede ha sempre una dimensione e quindi una ricaduta pubblica, sociale, che si riflette nei diversi campi della vita, dalla politica all’economia, dalla cultura alla finanza. La dimensione comunitaria, che va oltre il privato delle singole persone, è parte costitutiva della fede. Non ha senso per la persona e non è concepibile nella storia una fede confinata nel privato.
L’interpretazione privatistica della fede e quindi una visione della Chiesa confinata nel mondo della sacrestia o dentro il recinto sacro è una concezione che, qualora vi sia, non è conforme al Vangelo né alla presenza della Chiesa nella storia. Certamente il fatto che la fede ricada sul vissuto, sia delle persone, sia delle società, dei popoli, delle culture, non dovrebbe spaventare. E non dovrebbe diventare una preclusione ascoltare il magistero della Chiesa. Non dico di accogliere tale magistero, dico semplicemente di ascoltarlo per potersi poi confrontare serenamente in modo non pretestuoso e non pregiudizialmente polemico. Restare fermi alla preclusione non è una posizione intelligente, di apertura alla realtà, comunque si configuri, che poi uno può accettare o respingere. Il primo atto dell’intelligenza è riconoscere che la realtà ci precede.
Perdoni la brutalità, ma la Chiesa dimostra di avere maggior feeling con il governo Berlusconi rispetto a quello precedente. È giusto che la Chiesa sia schierata da una parte?
La Chiesa è sempre schierata da una parte: dalla parte di Cristo e quindi dell’uomo. Perché l’uomo è amato da Dio ed è redento. La Chiesa continua la missione di Cristo e quindi è schierata dalla parte dell’uomo perché Dio si è schierato dalla nostra parte. E Cristo crocifisso è la prova storica di questo parteggiare di Dio per l’umanità, così com’è, per salvarla. Quanto a ciò a cui lei allude bisogna distinguere. La Chiesa, il Santo Padre, i vescovi ricevono chiunque si presenti nei modi dovuti alle udienze. Tanto più se queste persone rivestono cariche civili e istituzionali. Il rispetto per le istituzioni fa parte dello stare al mondo della Chiesa. Quanto al resto, invece, la Chiesa non sposa parti politiche, ma pronuncia le sue valutazioni alla luce del Vangelo, della dottrina e dell’insegnamento sociale sui singoli valori e le scelte che i parlamenti, comunque siano composti, fanno.
Faccia conto di avere davanti un lavoratore pendolare. Apro uno di quei giornali che regalano in stazione e leggo che i sondaggi danno ragione ai detrattori del Papa. Le cancellerie internazionali confermano le critiche a Benedetto («Le sue frasi sul preservativo sono pericolose per la salute pubblica»). Gli italiani non sono d’accordo con la Chiesa. Se lei fosse il pendolare che mi siede accanto, come commenterebbe queste notizie?
Suggerirei di leggere il Vangelo, dove Gesù non ha misurato la verità della sua predicazione con il consenso delle folle. Le quali a volte erano consenzienti. O mostravano di esserlo. Altre erano all’opposizione. Spesso nel rifiuto. Basta pensare al discorso sul pane della vita: chi non mangia la mia carne e non beve del mio sangue non avrà la vita eterna. Tutti se ne sono andati. E Gesù li ha lasciati andare. Nella fattispecie, se vogliamo accennare al caso che tante polemiche ha suscitato, le parole del Papa sui preservativi, mi è stato riferito di illustri studiosi e comunque operatori impegnati in prima linea nella ricerca e lotta contro l’Aids, che hanno espresso pieno accordo con le parole del Pontefice. È il caso per esempio di un autorevole ricercatore di Harvard (Edward Green, direttore dell’Aids Prevention Research Project della Harvard School of Public Health and Center for Population and Development Studies, vedi ilSussidiario.net e Il Foglio del 25 marzo, ndr). Mi pare quindi che a volte certe contestazioni sono un po’ enfatizzate. Ci sono, per carità, le critiche ci sono e sono legittime. Il problema è che spesso vengono presentate come universali quando in realtà sono unilaterali.
Anche a proposito del caso Englaro ha parlato di un “fatto storico” che contraddice secoli di civiltà. Qual è il suo bilancio di questa storia e cosa pensa della legge che si appresta a varare il Parlamento?
Innanzitutto rimane un grande dolore. Perché è successo quello che si sperava non accadesse mai nel nostro paese. Il dolore non dovrebbe passare. Non dovrebbe passare in fretta. Non dovrebbe passare mai. È una ferita che deve lasciare il segno per farci più attenti e pensosi, più lucidi e meno ideologici nell’affrontare il grande tema della vita e della morte. Le circostanze, determinate dalla Cassazione e dalla magistratura in genere, come a tutti è noto, hanno indotto ad auspicare una legge che preveda che non si possa interrompere l’idratazione e l’alimentazione in modo che non debbano più accadere tragedie come quella di Eluana. Una legge che sia veramente promotrice della vita, soprattutto della vita fragile, che solleciti la società ad accompagnare la vita ferita. Senza permettere, come il Santo Padre ha detto, che ci siano scorciatoie come quella dell’eutanasia, o di altra natura, che non portano il bene della persona. Tutta la società deve coinvolgersi in un impegno ulteriore, in un supplemento di amore, di sacrificio, di cura, di presa in carico, che costituisce il criterio per giudicare la civiltà di una comunità umana.
Non si può negare, però, che anche nella comunità ecclesiale siano emerse critiche e divisioni rispetto alla linea espressa dal Papa, dai casi Eluana e lefebvriani alle ultime polemiche sul condom.
Guardi, lo scorso settembre si è svolto il sinodo mondiale dei vescovi. È stata un’esperienza di grazia straordinaria, una specie di Concilio in miniatura. Ora, se c’è stato un ritornello tra le moltissime testimonianze ascoltate e che ha attraversato le tre intense settimane, è quello che ha invitato a riprendere la Costituzione dogmatica Dei Verbum del Concilio Vaticano II. Costituzione che ricorda che la parola di Dio è Gesù Cristo, il quale ci parla nella duplice voce della parola scritta, la Sacra Scrittura, e della parola tramandata, la Tradizione. Entrambe queste forme, scritta e tràdita, sono affidate al magistero della Chiesa. Basterebbe che la formazione dei cristiani mantenesse ben salda questa verità della fede ribadita dal Concilio Vaticano II e ripresa fortemente dal Sinodo perché certe sbavature non si ripetano.
Eminenza, a proposito di formazione, non le sembra paradossale che ci siano “scuole” laiche che seguono il magistero petrino con più attenzione di tante altre religiose? Penso all’accademia giornalistica del Foglio di Giuliano Ferrara e a quella cattolica del San Raffaele di Milano…
Senza entrare nel merito delle persone e istituzioni citate, torniamo all’eccezionalità della figura di questo Pontefice. Che mostra una grande capacità di comunicazione della dottrina che presenta ai diversi uditori come plausibile. Chiunque rifletta sul suo insegnamento, qualunque sia la posizione in cui si trova, comprende che ci può essere una consonanza anche tra persone che dichiarano di non avere una fede particolare.
Nella sua prolusione lei invita vescovi e fedeli a usare “gli strumenti”. A cosa si riferiva e qual è la preoccupazione che soggiace a questo richiamo?
Gli strumenti che il mondo cattolico ha sono notevoli e alla portata di tutti. Mi riferisco innanzitutto al patrimonio di letteratura, filosofico, teologico che è a disposizione. Ma anche agli strumenti a cui tutto il popolo di Dio può accedere tranquillamente e facilmente come il Catechismo della Chiesa Cattolica, il Compendio della Dottrina Sociale della Chiesa, naturalmente la Bibbia… E poi ancora, al livello più diffuso, ci sono i mezzi di comunicazione, riviste cattoliche di larga diffusione, Avvenire e l’Osservatore Romano, la tv Sat 2000, Radio inBlu… Sono strumenti molto semplici ma anche molto documentati, di facile accesso e di grande utilità.

Proprio su Avvenire si è letto un intervento del cardinale Angelo Scola: stiamo attenti, ha detto il patriarca di Venezia, da una parte a non intendere il cristianesimo come religione civile, dall’altra a non ritrarci in un irenismo che annuncia Gesù ma si ritira dalle questioni civili e culturali. Si può dire che laici, associazioni e movimenti debbano oggi assumere nuove responsabilità?
Tutta la comunità cristiana ha la responsabilità di incarnare la fede nella storia! Ben sapendo che la fede non può essere al servizio di una religione civile. L’altare non può e non deve essere al servizio di nessun trono, e viceversa, in nome del principio di lacità la cui radice è nel Vangelo: Cesare e Dio. Chi tentasse di rendere il cattolicesimo una religione civile farebbe una operazione scorretta che la Chiesa non potrebbe mai sposare. D’altra parte, testimoniando il Vangelo nella propria vita e ispirando le realtà temporali, come ricorda il Concilio Vaticano II, alla luce del Vangelo, la comunità cristiana esprime quella ricaduta della fede nella vita personale e nella vita sociale, nella cultura e nella società, che è intrinseca al Vangelo. Perché il Vangelo di Cristo è l’espressione dell’incarnazione del Figlio di Dio nel mondo, nella storia così com’è. Quindi non può non essere incarnata la fede, non può non illuminare dall’interno le realtà umane. Perché? Perché Dio si è incarnato. Perché Dio si è fatto uomo per salvare non solo tutti gli uomini, ma per salvare tutto l’uomo in tutte le sue dimensioni e in tutte le sue espressioni.

Anche Tony Blair è stato insultato semplicemente perché ha creato una fondazione che si occupa del fatto religioso e inaugurato una “colonna della fede” sul New Statesman, storica rivista dei laburisti inglesi, dove ha scritto che così come l’ideologia è stata protagonista del secolo scorso, nel XXI saranno le religioni a fare la differenza e il bene comune.
È l’Europa che deve fare questa riscoperta riscoprendo tutto il resto del mondo! Perché fuori dall’Europa la religione non è ostracizzata. Ma è inclusa, riconosciuta, valorizzata, proprio nella costruzione della società civile e della cultura. Quanto più l’Europa pretende di cancellare Dio dal suo orizzonte, tanto più questo atteggiamento determina nel resto del mondo un clima di sospetto. E anche di deprezzamento. Questo è un fatto. D’altra parte negare il valore della dimensione religiosa nella persona, con la ricaduta che ha nella società – perché la persona non può vivere scissa tra privato e pubblico, la persona è sintesi non schizofrenia tra privato e pubblico – vuol dire andare fuori dalla realtà. Finito il tempo delle ideologie, l’Europa dovrebbe riconoscere con molta onestà intellettuale che la dimensione religiosa fa parte dell’impasto dell’uomo e quindi fa parte dell’impasto della società. Con le debite distinzioni, appunto, Cesare e Dio, ma anche senza separazioni e neutralismi…
Come dimostra il viaggio di Benedetto XVI in Africa… Ma quello che abbiamo raccontato noi qui in Europa è diverso da ciò che è accaduto davvero in Camerun e Angola tra il Papa e il popolo.
Certo. E questo succede proprio perché c’è un filtro pregiudiziale. E forse anche un filtro determinato da interessi di tipo politico ed economico. Per cui è bene oscurare certe tematiche che il Papa ha annunciato con molta forza e chiarezza nel mondo africano e che interessano il mondo occidentale proprio nel suo rapporto con l’Africa.
... (continua)
mercoledì, maggio 20, 2009

Una luce oltre il muro

Passaggio a Betania dove da venticinque anni una donna cristiana difende con le unghie e coi denti i suoi reietti, decine di orfani trasformati in “figli” felici dalla «potenza della vita»

Gerusalemme (Tempi.it) - Insieme alla casa di Pietro a Cafarnao, era qui, a Betania, nel paese dove abitavano Lazzaro, Marta e Maria, il centro affettivo di Gesù. Oggi il villaggio di case bianche, sul pendio del Monte degli ulivi, sta per essere isolato dal muro. Quel muro che Benedetto XVI si è augurato di vedere presto smantellato: «Anche se i muri possono essere facilmente costruiti noi tutti sappiamo che non durano per sempre. Essi possono essere abbattuti». Non è un facile richiamo alla retorica pacifista. Il Papa sa bene quali sono le circostanze che hanno spinto le autorità israeliane a ricorrere alla drastica decisione di elevare una barriera di separazione tra i due popoli. L’islamismo suicida (dopo la costruzione del muro praticamente azzerato) che si infiltrava nei bar, sugli autobus, nelle scuole, facendo strage di cittadini inermi. Per questo l’accorato appello del Pontefice è realistico. «Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato l’erezione di questo muro!». Non a caso, proprio al campo profughi di Aida, a Betlemme, Benedetto XVI ha spiegato che «da entrambe le parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia». Occorre «contrastare il bisogno di vendetta». Ci vuole «magnanimità per ricercare la riconciliazione». «La storia ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni. (…) Se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative». In questa tensione tra parti recalcitranti a concedersi atti di magnanimità e fiducia, le anfore di coccio sono le persone come lei, Samar Sahhar, cristiana di Betania. Che fedele al mandato che il Papa ha rinnovato ai cristiani di Israele e Palestina («Siate testimoni della potenza della vita, della nuova vita donataci dal Cristo risorto, di quella vita che può illuminare e trasformare anche le più oscure e disperate situazioni umane»), da venticinque anni dedica interamente la vita ai figli abbandonati e alle donne reiette. Purtroppo, nella cittadina dove questa grande donna ha piantato il suo orfanotrofio, la Lazarus Home, sono rimaste ormai solo 11 famiglie cristiane immerse in 30 mila anime di palestinesi musulmani.

Ci si mette pure Hamas
Tornasse oggi a Betania (ora El Azareya), Cristo non troverebbe il posto tranquillo dove andava quando aveva bisogno di riposare. La via che arriva da Gerusalemme è il tipico caravanserraglio arabo, con negozietti di ogni tipo che danno sulla strada e il traffico caotico. Più su, verso la collina dove la tomba di Lazzaro e la relativa chiesa sono circondate di moderni palazzi, la pace dei luoghi è turbata dai lavori per l’avanzata del muro che sta segando in due anche questa località, incluse parecchie proprietà. Per esempio il bel giardino della casa delle suore comboniane e il bosco dell’adiacente convento dei padri passionisti. L’atmosfera politica non è più rilassata. Di recente in Consiglio comunale si è discusso dell’opportunità di costruire un ospedale: a Betania come nella vicina Abu Dies non ce ne sono, e i residenti non possono utilizzare quelli di Gerusalemme in quanto “palestinesi di zona C” (una zona dove ordine e sicurezza sono di competenza israeliana mentre l’amministrazione civile dipende dall’Autorità nazionale palestinese). Dunque per cure ospedaliere in strutture pubbliche devono attraversare il muro e andare nei territori amministrati dall’Anp. Ma del progetto che renderebbe la vita più facile agli abitanti non se ne farà nulla. I militanti di Hamas, infatti, hanno avvertito il sindaco, uomo di al Fatah: «La nostra gente deve continuare a sfidare i soldati israeliani alla barriera, non bisogna far scendere la tensione». Insomma, la logica del tanto peggio, tanto meglio. Imposta con minacce molto convincenti.
Sarebbe interessante capire chi ha messo in giro la voce che anche i cristiani alle elezioni del 2006 hanno votato Hamas, per punire la corruzione e l’inconcludenza di al Fatah. «Queste sono idiozie di giornalisti che scrivono stando chiusi dentro gli alberghi», si arrabbia Sobhy Makhoul, diacono dell’esarcato maronita di Gerusalemme e cittadino israeliano. Qualche caso c’è stato sicuramente, come quello della nipote dei fondatori cristiani dell’università palestinese (oggi statale) di Ramallah. Ma si tratta di casi isolati. I cristiani continuano a soffrire la deriva fondamentalista della società palestinese maggioritariamente musulmana. Da Gaza giunge notizia che gli ultraestremisti di Jaish al Islam, Jaish al Umma e dei Comitati popolari di resistenza, fra i quali si trovano gli assassini del pastore protestante Rami Khader ucciso nel 2007, hanno cominciato a chiedere ai 3 mila cristiani della regione di pagare la jizah, la tassa di sottomissione dei dhimmi ai musulmani. Hamas condanna verbalmente tutto questo, ma si guarda bene dal reprimere con efficacia il fenomeno. D’altra parte l’unica docente cristiana di un’università di Gaza egemonizzata da Hamas qualche tempo fa è scomparsa dalla circolazione per alcuni giorni. È riapparsa in un filmato in cui indossava il velo islamico e annunciava di essere diventata musulmana, lasciando increduli tutti i cristiani che la conoscevano come una praticante molto pia. Per non parlare delle bande criminali che sfruttano la prostituzione a Betlemme: le loro prede preferite sono le adolescenti cristiane orfane di padre. Sanno bene i guai che incontrerebbero se osassero traviare ragazze musulmane, e quindi concentrano l’attenzione sui soggetti più deboli e indifesi della società.

Esistenze ricostruite
Samar ci mostra le sue 31 “figlie”, fra i 3 e i 15 anni di età, che ospita e accudisce insieme a quattro “mamme”, tutte musulmane. Ci parla dell’ambulatorio ginecologico e pediatrico che ha aperto insieme alle suore comboniane, della panetteria-pizzeria che ha avviato e dato in gestione per finanziare la Lazarus Home, del programma di protezione per donne costrette a fuggire dal marito o dalla famiglia per i motivi più tremendi. I quattro quinti degli orfani sono il risultato di divorzi seguiti da un nuovo matrimonio: le seconde mogli non accettano i figli che l’uomo (al quale nel diritto islamico spetta inderogabilmente la custodia dei figli in caso di divorzio) ha avuto dall’altra donna, e l’istituto diventa la destinazione obbligata degli sfortunati bambini. Il resto degli orfani è rappresentato da casi penosi o raccapriccianti. Rouba, 15 anni in un corpo esile come una foglia, intona con voce struggente le canzoni di Fitoussi, la famosa cantante libanese. I genitori le hanno ustionato i piedi e il ventre, una sua sorella è stata violentata dal padre e ora vive in una comunità segreta dopo essere stata qui alla Lazarus Home per alcuni anni. Il genitore è venuto più volte a cercarla, ogni volta minacciando di morte Samar, che senza l’aiuto di nessuno l’ha respinto come una leonessa. Rania è la più piccola della casa coi suoi tre anni: ride come un frugolino con la sua bocca sdentata. Ultima di otto figli, è stata gettata sulla strada da un’auto in corsa. Non si riesce a credere che sia diventata la bambina più contenta di tutta la casa. «Le cose più belle della mia vita sono venute da mio padre e da don Luigi Giussani», dice in italiano Samar, che è una laica consacrata dei Memores Domini di Comunione e liberazione. «Mio padre mi raccontava sempre la favola di san Giuseppe che portava ogni giorno a Gesù bambino un piccolo regalo. Il giorno che non l’ha portato, in casa hanno pianto tutti: Gesù, Giuseppe e Maria. Da allora ho deciso di portare regali a Gesù ogni giorno della mia vita».
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mercoledì, maggio 20, 2009

Occhi foderati di giornali

«Rifiutano di vedere la trasformazione della Chiesa nei confronti degli ebrei». L’esperto di media orientali e l’ex 007 contro i religiosi e gli osservatori israeliani che si accaniscono sul Papa

Tempi.it - Una visita attesa, preparata con cura eppure non sempre compresa. «Il pubblico israeliano è stato diffidente, soprattutto per una mancanza di conoscenza. Alcuni rabbini hanno persino deciso di boicottare il Papa, dicendo che la sua visita è in contraddizione con l’ebraismo, non capendo l’importanza di questo storico viaggio». Per Yigal Carmon, consigliere dell’ex premier Yitzhak Rabin e oggi presidente del Middle East Media Research Institute, seguire il viaggio di Benedetto XVI in Terra Santa ha significato osservare con particolare attenzione l’atteggiamento dei media dello Stato ebraico, tutti pronti a sorprendere i “passi falsi” del Pontefice, in modo da poterlo accusare di avere perso un’opportunità storica nelle relazioni con il popolo ebraico. Carmon non nasconde il suo disappunto per «le parole numerose e ripetitive spese sul presunto passato del Papa nella gioventù hitleriana, le critiche per il ripristino della Messa tridentina e della preghiera “per la salvezza degli ebrei” del Venerdì santo, le battute sul negazionismo del vescovo lefebvriano Williamson».
Vecchie cicatrici che tornano a far male e recenti ferite che stentano a rimarginarsi. È sempre stato questo il filo conduttore dei rapporti tra Chiesa cattolica e Israele. Per Segev Shmulik, colonnello (ora riservista) dell’intelligence israeliana, il riavvicinamento tra lo Stato ebraico e la Chiesa è una possibilità che intellettuali e governo sarebbero probabilmente pronti a cogliere. «Il problema, però, è che le questioni religiose sono sotto il monopolio del rabbinato, che appare essere un interlocutore inadeguato per affrontare la questione. Il capo rabbino Amar, per esempio, è affiliato alla coalizione sefardita del partito religioso Shas, e i ministri dello Shas hanno deciso di boicottare la visita del Papa, non si sono presentati alla cerimonia di benvenuto al Pontefice presso l’aeroporto, dicendo che Benedetto XVI non meritava tali onori e che gli eventi organizzati nel paese per l’occasione erano inappropriati. Lo stesso Amar e il capo rabbino ashkenazita hanno deciso di non presentarsi alla cerimonia. È ovvio che se questa è la posizione tenuta dal rabbinato, la tanto attesa riconciliazione (seppur voluta dalla Chiesa cattolica) sembra essere ancora lontana».
Inevitabile che pesi anche la posizione politica del Vaticano riguardo alla risoluzione del conflitto arabo-israeliano, con Benedetto XVI che è tornato a sottolineare l’assoluta necessità di uno Stato palestinese in un momento in cui il processo di pace è insabbiato. «La posizione del pontefice – commenta Shmulik – coincide perfettamente con quella dell’Occidente. Non è una sorpresa per il governo israeliano. Ad ogni modo, l’attuale esecutivo ha varie anime al suo interno, e sicuramente i laburisti sono i primi ad appoggiare il proseguimento del processo di pace. Per quanto riguarda invece il primo ministro Benjamin Netanyahu – che nei giorni precedenti l’incontro con Obama ha dichiarato impossibile istituire adesso uno Stato palestinese – sicuramente sente dopo le parole del Pontefice un’ulteriore pressione».
Al fondo resta sempre aperta la questione religiosa nei rapporti tra Chiesa e giudaismo, la cui evoluzione nel corso del tempo i media israeliani non sembrano minimanente disposti a cogliere. «Purtroppo i giornali israeliani – osserva Carmon – non stanno aiutando questa riconciliazione. Anzi, sembrano voler mettere nuovi ostacoli, facendo un’informazione che allontana dal dialogo tra le due religioni. Restano indifferenti davanti all’evidente trasformazione della Chiesa nei confronti degli ebrei». Un esempio di questa resistenza alla novità si è avuto con il discorso di Benedetto XVI al museo dell’Olocausto, che è stato duramente attaccato in Israele. «Alcuni editorialisti hanno scritto che il Pontefice è stato freddo e calcolatore, altri hanno persino insinuato che il suo discorso mirasse a giustificare il crimine dell’Olocausto, dichiarando la propria delusione per la mancata richiesta di perdono per la Shoah, che sarebbe stata significativa se fatta da un pontefice tedesco… In realtà il Papa è stato puntuale nel condannare un problema oggi urgente per Israele, ovvero l’antisemitismo. Ha detto chiaramente che l’antisemitismo è totalmente inaccettabile e che “sfortunatamente continua a sollevare la sua ripugnante testa”. Ha preso l’impegno di combattere questo fenomeno».
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mercoledì, maggio 20, 2009

A bocca asciutta

Spigoloso faccia a faccia tra il premier israeliano Netanyahu e Obama a Washington: diplomazia al lavoro per annacquare i dissensi

PeaceReporter - Ci sono volute settimane di incontri preparatori prima di arrivare al faccia a faccia di ieri tra Barack Obama e Benjamin Netanyahu, il primo da quando ricoprono il ruolo di guida dei rispettivi paesi. Ore e ore di discussioni tra gli staff del presidente Usa e del premier israeliano, con lo scopo tassativo di evitare che nell'incontro tra i due potessero emergere divergenze inconciliabili o che l'alleanza storica tra Usa e Israele potesse apparire indebolita. E alla fine, il risultato è stato quello che si è visto in televisione: i sorrisi, le strette di mano e le rassicurazioni. Tutto come durante l'amministrazione Bush, solo che, dietro le formule della diplomazia, qualcosa è cambiato, e il primo ad accorgersene è stato proprio il nuovo premier israeliano.

La visita di Netanyahu a Washington, che ci si aspetta segnerà le relazioni tra i due paesi per gli anni a venire, è iniziata con una gaffe, con l'israeliano che regala al presidente Usa il "Diario di viaggio in Terra Santa", di Mark Twain. Un testo che, secondo lo storico israeliano Tom Segev, evidenzia "il disgusto dell'autore nei confronti degli arabi e dell'islam". Giusto una nota di colore, che evidenzia le differenze culturali tra i due. Durante l'incontro, invece, ad emergere sono state le differenze di visione politica. Obama ha accolto Netanyahu parlando della "relazione straordinaria che lega i due paesi", ma poi con tono calmo e fermo ha dichiarato quelle che sono le sue aspettative, di fronte alle quali il premier israeliano ha dovuto fare buon viso, senza riuscire a replicare efficacemente. Ora la linea Usa per il Medio Oriente è stata tracciata, e nei prossimi mesi si capirà se il nuovo governo israeliano "coglierà l'occasione", come spera Obama, oppure, se andrà avanti con la politica intransigente che lo ha portato a vincere le scorse elezioni.

Tre i temi principali affrontati dai due, e altrettanti sono stati gli argomenti di disaccordo: la nascita di uno Stato palestinese, la minaccia iraniana e il rapporto tra le due questioni. Già si sapeva che Netanyahu non avrebbe nemmeno nominato la possibilità di uno Stato palestinese, Obama invece si è mantenuto nel solco delle trattative del passato, ribadendo l'adesione alla soluzione "due stati per due popoli, in cui israeliani e palestinesi vivano gli uni accanto agli altri in reciproca sicurezza". Il presidente Usa ha ricordato all'ospite israeliano gli impegni del processo di pace di Annapolis e quelli della precedente Road Map. "Si tratta di un'opportunità storica" ha spiegato, per poi rivolgersi a Netanyahu: "Ho grande fiducia che coglierà l'occasione".

Il premier israeliano incassa anche sull'Iran, con Obama che eufemisticamente definisce "molto rumorose" le preoccupazioni israeliane sui piani atomici di Teheran. Obama sapeva che Netanyahu avrebbe puntato tutto sulla minaccia iraniana, ma non ha assecondato l'interlocutore, in primis annunciando di non avere intenzione di porre un limite temporale al tentativo di soluzione diplomatica con Teheran, e poi, non nominando mai la possibilità di un attacco contro le centrali iraniane. "Vogliamo ottenere una situazione in cui tutti i paesi della regione possano perseguire il proprio sviluppo economico e i legami, anche commerciali. E vogliamo che questo possa accadere senza che le popolazioni debbano subire bombardamenti e distruzione". Netanyahu ha replicato spiegando che, secondo la visione del suo governo, non ci potranno essere progressi nel negoziato con i palestinesi fintanto che l'Iran cercherà di dotarsi di armi atomiche e non cesserà di armare Hamas. Ma Obama ha replicato: "personalmente ritengo che la situazione vada intesa in senso opposto" fare la pace con i palestinesi, secondo la nuova amministrazione Usa, rafforzerebbe invece la comunità internazionale nella trattativa con l'Iran.

Complice anche la crisi economica, Obama non può permettersi di assecondare le richieste di Israele come il suo predecessore. Mentre viceversa, Netanyahu è consapevole che l'elettorato israeliano non gli perdonerebbe una rottura con l'alleato Usa. Questa è la dialettica che caratterizzerà i rapporti tra Usa e Israele nei prossimi anni. Tuttavia, ci sono segnali che fanno pensare che Netanyahu non potrà limitarsi ad annuire alle aspettative di Washington, per poi agire liberamente contando sulla potente lobby ebraica statunitense. Oggi Obama può contare sul sostegno esplicito di J Street, il movimento pro-israeliano per la pace, e vicina al nuovo presidente è anche l'American Israel Public Affairs Committee, Aipac. E anche le due figure dell'amministrazione più vicine a Israele, il vicepresidente Joe Biden e il capo dello Staff Rahm Emanuel, saranno certamente più fedeli a Obama che a Israele.
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mercoledì, maggio 20, 2009

10 giornalisti alla terza udienza contro Aung San Suu Kyi

La giunta militare autorizza l’ingresso di cinque reporter stranieri estratti a sorte, altrettanti dalla stampa filo-governativa. Nel pomeriggio previsto un incontro fra la leader dell’opposizione e un gruppo di diplomatici. Pressioni da Nazioni Unite e Asean per il rilascio.

Bangkok (AsiaNews) – Un gruppo di giornalisti ha ottenuto il permesso di assistere alla terza udienza del processo a carico di Aung San Suu Kyi; nel pomeriggio una rappresentanza diplomatica straniera incontrerà la leader dell’opposizione, detenuta nel carcere di Insein, a Yangon. È la doppia mossa a sorpresa decisa oggi dalla giunta militare in Myanmar, che ha però proibito l’ingresso di videocamere o registratori in aula.

All’uscita i cronisti hanno riferito che Aung San Suu Kyi “appare in buone condizioni di salute e di spirito”. Un reparto della sicurezza è però intervenuto per fermare la fuga di notizie. I cronisti si sono quindi avviati verso gli uffici del partito di opposizione Lega nazionale per la democrazia (Nld). Il gruppo di reporter che ha assistito al processo era composto da cinque giornalisti dei principali media internazionali e altrettanti della stampa locale, pro-governativa. La scelta è stata effettuata estraendo i nomi a sorte. Reuters, Agence France-Presse (AFP), NipponTV, Sankei Shimbun e Jiji Press i media autorizzati ad entrare. Win Tin, del comitato esecutivo della Nld, sottolinea che “di qualunque cosa si tratti, la situazione è certamente fuori dall’ordinario”. Egli aggiunge “di sentirsi un pochino meglio” ora che i media “hanno avuto l’autorizzazione” ad assistere al processo.

La giunta militare ha inoltre acconsentito a un incontro fra Aung San Suu Kyi e un gruppo di diplomatici stranieri: fra questi vi sono Russia, Thailandia e Singapore. Il faccia a faccia è previsto nel pomeriggio, al termine dell’udienza. Fonti locali riferiscono dell’ingresso in carcere di 25 auto con targa diplomatica, tra cui Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia.

Nel frattempo continua il lavoro della diplomazia internazionale. I membri del Consiglio di sicurezza Onu potrebbero emettere un comunicato sulla vicenda, ma non si è ancora raggiunto un accordo sulle parole e sul tipo di documento (comunicato stampa del Consiglio o nota della presidenza, che ha maggior peso). Cina, Russia e Giappone chiedono un “approccio cauto” che eviti uno scontro frontale con la giunta birmana. Stati Uniti, Regno Unito e Francia hanno già espresso la condanna per l’arresto della Nobel per la pace.

Ieri Abhisit Vejjajiva, primo ministro della Thailandia, a nome dei Paesi membri dell’Asean ha chiesto il rilascio di Aung San Suu Kyi. “L’Asean intende ricoprire un ruolo costruttivo nella vicenda” ha commentato il premier. “Siamo pronti a prendere parte nel dialogo volto alla riconciliazione, in modo che il Myanmar compia dei progressi nel cammino verso la democrazia”.
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