giovedì, aprile 14, 2016
L’Europa, Panama e l’intermediario. Sembrerebbe una storia di truffe e viaggi intercontinentali, come tante ne sono state scritte prima. Questo però è il triangolo vizioso tra tre diverse identità, tre diversi attori mischiati fino alla completa mimetizzazione, emerso a seguito dei Panama Papers.  

di Lorenzo Carchini

Sinistraineuropa - Come scriveva l’Economist l’anno scorso, le blacklist sono ormai un tratto distintivo di qualunque diplomazia sin dai primi assalti ai paradisi fiscali alla fine degli anni ’90. Fu allora si cominciarono a stabilire le prime liste di stati completamente assorbiti dalle opere di riciclaggio di denaro, mentre tutti i paesi occidentali cominciavano a dotarsi di apparati legislativi più complessi e ammodernati.

Di questo micro-cosmo così nebuloso ed esotico, Panama ne è sempre stato uno dei centri direzionali.

Il circolo vizioso di interessi e partecipazioni politiche internazionali attorno a quell’unica risorsa fisica di cui il piccolo paese centroamericano si era dotato – lo stretto – fece sì che prontamente le proteste delle aziende e dei governi occidentali assegnatari di lauti contratti ingegneristici e mercantili si sollevassero per una pronta ripulitura del paese dalle blacklist.

Per quanto l’immissione in simili liste sia un processo altamente politicizzato e bisognoso di continui trattamenti in materia di trasparenza, l’impopolarità che provoca la procedura per il paese coinvolto oggi, in un’epoca di austerità e congiuntura economica relativamente negativa, è in realtà ancor più forte rispetto al ventennio scorso ed il rapporto name-shame in materia reputazionale ne è la prova. L’ultima lista stilata dall’Unione Europea nel 2015 indicava precisamente 30 stati “non cooperativi” in materia fiscale.

La lista stessa è problematica sia dal punto di vista analitico che di ricerca. Formata attraverso un’aggregazione di liste nazionali, in essa rientrano quei paesi che sono stati nominati più di dieci volte dagli stati membri. Non solo dunque arbitraria, ma con criteri che variano di stato in stato: alcuni considerano, infatti, la bassa pressione fiscale già come un indizio sufficiente, altri guardano anche a indicatori di segretezza. Infine fa riflettere la polemica istauratasi tra Unione Europea e lo stato delle Bermuda che, inserito nella lista, ha sottolineato come almeno 5 degli 11 paesi membri EU non avrebbero essi stessi adempiuto agli obblighi fiscali internazionali – in effetti una valutazione onesta dovrebbe comportare l’inserimento nella blacklist almeno di Olanda, Lussemburgo ed Irlanda. Nonostante la loro scarsa credibilità analitica le blacklist sono, però, molto importanti: influenzano la percezione pubblica e offrono alle ONG indirizzi e materiali di studio necessari per combattere il fenomeno. Infine l’immissione di un paese nelle liste costituisce una red flag di rischio per le organizzazioni bancarie stesse.

Lo scandalo Panama Papers, un’analisi compiuta dal network International Consortium of Investigative Journalists su circa 11.5 milioni di documenti, mostra tuttavia come una variegata parte di popolazione ricca, da capi di stato fino a imprenditori e criminali, abbia finora nascosto parte della propria ricchezza dietro società fittizie e/o segrete. Un espediente esplicitamente diretto ad evadere tasse o riciclare denaro proveniente da attività illecite. Quello che però Transparency International ci dice è che gli archivi della Mossack Fonseca (con sede a Panama, ma anche a Hong Kong, Miami, Zurigo ecc.) sono soltanto un ulteriore esempio delle problematiche legate alle giurisdizioni in materia di privacy. Panama, appunto, non è il solo caso, il mondo è pieno di stati e territori che si sono specializzati nella fornitura di servizi di occultamento finanziario. Tra Andorra e Vanuatu ci sono pure l’Inghilterra, il Delaware o il Nevada (Stati Uniti). Non tutto ciò che essi fanno è illegale, ma rientrano all’interno di un fenomeno sistemico che non le rende più compatibili con i criteri di trasparenza di cui le società occidentali si sono fatte formalmente portatrici.

La richiesta di Transparency verso la creazione di un Global Public Beneficial Ownership Registry, per la condivisione di informazioni all’interno di buone procedure di trasparenza partendo dal territorio, l’applicazione di un sistema di sanzioni ai trasgressori che risponda a dei condivisi standard internazionali, e l’intervento governativo in materia di appalti ed acquisto di beni pubblici, sono richieste concrete, ma come potranno essere discusse nel summit tra i leader mondiali a Maggio nel Regno Unito? Come potrà essere questa un’ulteriore occasione per la comunità internazionale per chiudere alcune falle nell’attuale sistema finanziario, quando a quei tavoli probabilmente siederanno alcuni dei nomi comparsi su tutti i giornali?

Le carte panamensi, in particolare, mostrano un carrello di umanità e compagnie segrete assai variegato – e spesso celato dietro i volti di faccendieri ed intermediari a vario titolo – fra i quali ritroviamo: Juan Pedro Damiani, membro del comitato etico FIFA e collegato a tre indagati per lo scandalo che ha colpito la federazione; Sergei Roldugin, cellista amico del presidente russo Putin (secondo il Guardian controllore della sua intera fortuna) , che vi avrebbe nascosto oltre 200 milioni di dollari; la moglie del primo ministro islandese (già dimessosi nelle ore immediatamente successive alla notizia); i sovrani di Marocco ed Arabia Saudita; il presidente ucraino Poroshenko, la famiglia di quello cinese Xi Jinping ed il padre del premier Cameron; 500 gruppi bancari, inclusi HSBC, Credit Suisse e Société Générale, che avrebbero creato più di 15.000 società; 29 miliardari inseriti da Fobes Magazine nella lista dei 500 uomini più ricchi del mondo; Lionel Messi, il più famoso calciatore del pianeta; e, tra i connazionali, come dimenticare Luca Cordero di Montezemolo (ma per lui “vediamo le carte” – cit.). Una sfilza di dati che coprono quasi un quarantennio, dal 1977 al 2015 e che permettono uno sguardo senza precedenti sul mondo offshore e sulla portata di intermediari coinvolti, come mostra il grafico.

La Mossack Fonseca si è difesa sostenendo di non aver fatto nulla di sbagliato –l’off-shore non è di per sé illegale – ma l’attività perpetuata dal gruppo legale costituisce un facilitatore per atti corruttivi sistemici, di riciclaggio di denaro e di aggiramento delle leggi fiscali dei paesi. I documenti, infatti, mostrano che banche e studi legali spesso non hanno affatto conseguito quei requisiti legali necessari per scongiurare il coinvolgimento dei propri clienti da attività illegali, truffe fiscali, corruzione o manipolazione di documenti ufficiali. Quello che abbiamo davanti agli occhi costituisce un qualcosa che precede la legge e si si situa nel sentire culturale di quella vasta carrellata di umanità descritta. E’ soprattutto una questione di integrità.


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