giovedì, novembre 08, 2012
Esce oggi nelle sale italiane “Venuto al mondo”, il nuovo film di Sergio Castellitto tratto dall’omonimo romanzo della moglie Margaret Mazzantini: un viaggio emozionale e tragico sospeso tra Italia e Bosnia, tra un recentissimo passato segnato dal sangue e dalla guerra e un presente che ne porta le dolorose ferite, una storia di madri e donne alla ricerca della verità e del perdono. Il servizio di Luca Pellegrini: ascolta

Radio Vaticana - Gemma non può diventare madre, Diego, ragazzo americano, per questo non sarà mai un padre e ha un passato difficile alle spalle, la loro storia dolorosa si interseca e collide con le tragedie e gli orrori della guerra in Bosnia, dove la vita che loro cercano è invece offuscata, calpestata, annullata dalla violenza. Nella Sarajevo assediata tutti troveranno il loro destino, di sangue e di speranza, un figlio nascerà, alcuni non troveranno pace, altri in forza dell’amore saranno capaci di perdonare e di guardare avanti. L’omonimo romanzo di Margaret Mazzantini è stato trasposto dal marito e regista Sergio Castellitto in un film denso e sincero con una coppia di ottimi attori, Penelope Cruz e Emile Hirsch, a rappresentare un futuro negato e una sorriso in cui le vittime sopravvivono alla più tragica delle verità. Così il regista italiano ricorda la genesi di questo progetto a cui ha lavorato con grande emozione. Per Sergio Castellitto girare questo film è stata anche un’avventura umana, perché è entrato in contatto con storie che tentiamo sempre di respingere:

R. - Sei anni fa non c’era niente. Sei anni fa c’erano un uomo e una donna che hanno preso un aereo e sono andati a Sarajevo. Io ho accompagnato Margaret ed è stata tre giorni in quella città. Poi è tornata e ha cominciato a scrivere. Ha cominciato a scrivere qualcosa il cui primo germe, il cui primo virus, nasceva dieci anni prima, quando Margaret, incinta di Pietro - quindi con l’idea dell’attesa, della fiducia verso il futuro, perchè aspettava il nostro primo figlio - vedeva Gad Lerner che ci raccontava che dall’altra parte dell’Adriatico c’era l’assenza del futuro, cioè il sopruso della guerra. Ho fatto lunghissimi sopralluoghi, ho viaggiato, sono stato a Sarajevo, in quella città ferita, emotivamente ancora "fuori sync", in qualche modo, dove forse vittime e carnefici ancora passeggiano assieme e non sanno chi sia la vittima e non sanno chi sia il carnefice, per andare a raccontare l’esatto opposto di tutto quell’orrore, che è una storia d’amore. Tarkowsky diceva che ogni opera artistica, ogni film che abbia un’intenzione artistica è semplicemente una dichiarazione d’amore. Io ho tentato di fare soltanto questo. La vita è un buco, che si infila in un altro buco e stranamente lo riempie: questa è la frase del libro, che mi ha sempre accompagnato e che ho scritto sulla mia fronte dal primo all’ultimo giorno di riprese. E quel buco, quel “manco”, quell’assenza, quella necessità dell’altro - o nel senso dell’amore o nel senso dell’amicizia o nel senso della fraternità - è questo film.

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