mercoledì, maggio 20, 2009

Laicità e laicismo

del nostro redattore Carlo Mafera

“La laicità dello Stato è un principio supremo” cioè sottratto al processo di revisione costituzionale, così ha esordito Cesare Mirabelli, insigne professore di diritto ecclesiastico ed esperto sui temi istituzionali relativi ai rapporti fra gli ordinamenti e sulle relazioni tra Stato e chiesa alla università della Santa Croce, il 15 maggio scorso nell’ambito degli incontri del III° corso di aggiornamento per i giornalisti. Il principio di sovranità dal quale deriva il principio di laicità è quello dal quale “prende il via” lo Stato e dal quale gli deriva la competenza a disciplinare giuridicamente tutto il reale. La sovranità intesa in tal modo significa che lo Stato possiede una competenza anche su ogni manifestazione storica, sociale e pubblica della religione. In altre parole lo Stato può intervenire in ogni espressione di una fede religiosa che non rimanga racchiusa nel sacrario della coscienza cioè in interiore homine come diceva S. Agostino. La sovranità dello Stato in questo campo si può esplicitare in modi diversi. Per esempio nella forma dello Stato confessionista; nella forma dove lo Stato decide di ignorare il fatto religioso lasciandolo al privato della coscienza individuale; e infine le forme dove lo Stato combatte il fatto religioso ritenendolo apoditticamente “oppio dei popoli”. La laicità dello Stato, nella sua vera autenticità si estrinseca nel favor religionis. Questo concetto non è da intendersi come un semplice disfavore verso la non credenza come era proclamato nello Statuto Albertino, ma invece deve intendersi come un atteggiamento di alta considerazione dei valori religiosi come “grandezze di segno positivo” come afferma Bellini nel suo libro “principi di diritto ecclesiastico”, degne di protezione giuridica e di tutela di un diritto di libertà che in questo caso è quella religiosa. E’ chiaro che in questa prospettiva viene abbandonata qualsiasi visione laicista di derivazione scientista o razionalista che prevedeva un atteggiamento esclusivo e non comprensivo della dimensione religiosa che pure è presente nella realtà umana. A questo punto è importante comprendere il nocciolo della questione. Questo sta nel rapporto tra Stato e società civile, nel senso che è questa, il luogo nel quale la religione si manifesta e quindi è lo Stato che deve essere al servizio della società civile per garantire ad essa la libera espressione del pensiero e della sua dimensione valoriale. Il prof. Cesare Mirabelli ha infatti ribadito che “lo Stato è al servizio della comunità e quindi deve favorire le esigenze della società….ci deve essere una sorta di laicità cooperativa che deve attivare gli strumenti perché la libertà religiosa sia effettiva, per esempio con interventi legislativi positivi a tutela della religione e della sua espressione”. Ultimamente nella vecchia Europa di matrice illuminista dove una volta si combatteva la dimensione religiosa, sta avvenendo un cambiamento. Tutto ciò si evince per esempio dall’ultimo discorso di Sarkozy citato dal prof. Cesare Mirabelli :”mi auguro – dice il presidente della repubblica francese– che una laicità positiva …. non consideri le religioni un pericolo ma una carta vincente”. Sembrano lontanissimi i tempi in cui si inneggiava alla Dea Ragione!
Riveste grande importanza la sentenza della Corte Costituzionale (n. 203 del 1989) dove si recita che il valore della cultura religiosa e i principi del cattolicesimo nel patrimonio storico del popolo italiano “concorrono a descrivere l’attitudine laica dello Stato – Comunità che risponde non a postulati ideologizzati ed astratti di estraneità, ostilità o confessione dello Stato – Persona e dei suoi gruppi dirigenti rispetto alla religione o ad un particolare credo, ma si pone al servizio di concrete istanze della coscienza civile e religiosa dei cittadini”. E qui si inserisce tutto il dibattito sui simboli religiosi ed in particolare sul crocifisso esposto nei luoghi pubblici che tante polemiche ha suscitato. La dottrina che si è recentemente sviluppata si orientava verso la neutralità dello Stato per la quale si diceva che lo Stato, per essere veramente laico, doveva essere necessariamente neutrale. Ma c’è da dire che non esiste veramente una posizione neutrale in questo campo. Infatti uno stato che privilegiasse una forma di simbologia o la escludesse in nome della sua imparzialità non sarebbe neutrale ma farebbe comunque una scelta di campo e affermerebbe una visione del mondo rispetto da un’altra. E qui ci si ricollega a quella funzione di servizio (di cui si diceva e che è peculiare dello Stato – Comunità) nei confronti della società civile la quale è costituita da una identità, da una memoria storica, da valori condivisi espressi anche nell’ordinamento positivo, e che non possono essere ignorati senza cadere in un laicismo esasperato incompatibile col concetto di laicità. Tale laicità “non vuol dire – ha affermato il prof. Cesare Mirabelli – una riconfessionalizzazione dello Stato. Infatti il principio che ha animato la revisione dei trattati lateranensi è proprio quello di una laicità sollecitata non per far tacere ma per far esprimere tutte le confessioni”. “E quindi – ha continuato l’insigne studioso – è stato un elemento positivo e ha fatto in modo che l’insegnamento del Magistero potesse essere espresso liberamente.” D’altra parte l’insegnamento magisteriale è collegato al Vangelo e non all’utile e per quanto riguarda la classica accusa di ingerenza si deve dire per dovere di obiettività che “il politico ritiene l’intervento del Magistero legittimo se è conveniente alla dimensione politica e ingerenza se non è conveniente!!”. Infine il prof. Mirabelli ha messo in evidenza il tema di separazione tra Stato e Chiesa. E’ bene precisare che “separazione non è separatezza e quindi vi è collaborazione tra le due istituzioni per la promozione umana”. Infatti la Gaudium et Spes al n. 76, citata dal relatore, specifica che “la distinzione tra ordini non comporta dunque confusione ma neppure l’ignoranza reciproca nella misura in cui lo Stato e le istituzioni religiose sono al servizio della stessa persona umana, seppure a titolo diverso, per cui la loro collaborazione è largamente auspicabile”.
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martedì, maggio 19, 2009

Svolta “rosa” in Kuwait, quattro donne elette in parlamento

Crisi economica e frequenti casi di corruzione segnano la svolta nell’emirato. L’ala fondamentalista perde consensi. Alla tornata elettorale ha partecipato solo il 10% della popolazione, gli stranieri e i discendenti non possono votare. La popolazione chiede “stabilità” e politiche finanziarie efficaci.

Kuwait City (AsiaNews/Agenzie) – Quattro donne ottengono un seggio in parlamento; battuta d’arresto dell’ala fondamentalista islamica, che perde consensi nel Paese; l’elettorato che manifesta il desiderio di stabilità politica e una linea economica incisiva, capace di garantire governabilità (tre elezioni e cinque governi negli ultimi tre anni) e di superare la crisi finanziaria mondiale. È quanto emerso dai risultati del voto per il rinnovo del parlamento, che si è tenuto sabato 16 maggio in Kuwait.

Il diritto di voto alle donne è stato introdotto nel 2005 ma, sinora, nessuna rappresentate femminile era riuscita a ottenere un posto nell’aula. L’elezione di quattro donne al Majlis al-Umma (Assemblea Nazionale) segna una svolta ulteriore: “è una vittoria per le donne del Kuwait ed è una vittoria per la democrazia del Kuwait” ha dichiarato la neo-eletta Aseel al-Awadi (nella foto). Le quattro neo-parlamentari sono: Massouma al-Mubarak, professoressa universitaria e prima donna a essere nominata ministro nel 2005; Rola Dashti, attivista per i diritti umani e la democrazia, tra le 20 donne più influenti del mondo arabo secondo la classifica stilata dal Financial Times nel 2008; Aseel al-Awadhi, professoressa di filosofia alla Kuwait University, eletta fra i candidati indipendenti; Salwa al-Jassar, attivista per i diritti delle donne e presidente della Ong Women’s Empowerment Center.

L’emirato del Kuwait è retto da una monarchia costituzionale, il trono è ereditario, l’emiro nomina il primo ministro, decide quando sciogliere le camere; la linea politica rimane di orientamento conservatore. Il primo parlamento è stato eletto nel 1963, due anni dopo la dichiarazione di indipendenza dal Regno Unito, raggiunta il 19 giugno 1961. L’emirato, prima nazione araba a dotarsi di una costituzione nel 1962, è però contraddistinto da un’estrema instabilità politica che, di fatto, ha frenato lo sviluppo economico; il Kuwait è il quarto esportatore mondiale di oro nero (i cui proventi rappresentano il 90% delle entrate), ma i frequenti casi di corruzione e lo scontro frontale fra parlamento e governo ha creato periodi di impasse politica. L’ultima crisi di governo risale al marzo scorso, quando il parlamento ha posto la sfiducia al premier – un nipote dell’emiro – per irregolarità fiscali e perché incapace di elaborare un piano di ripresa economico efficace per superare la crisi finanziaria. (continua a leggere)


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martedì, maggio 19, 2009

India, in molti chiedono la scarcerazione di Aung San Suu Kyi

Attivisti per i diritti umani chiedono la scarcerazione di Aung San Suu Kyi

Conclusa la seconda giornata del processo a carico della leader dell’opposizione, mentre si moltiplicano gli appelli a favore della sua liberazione. Attivista cristiano solleva la “questione morale” dei governi che promuovono la democrazia e fanno affari con la giunta birmana. L’Asean “preoccupato” per la sorte della “Signora”, ma esclude sanzioni economiche.

New Delhi (AsiaNews) – Attivisti per i diritti umani, Nobel per la pace e leader religiosi indiani si appellano alla comunità internazionale perché ottenga la scarcerazione di Aung San Suu Kyi, arrestata per aver violato i termini dei domiciliari. I leader dei Paesi dell’Asean sono “seriamente preoccupati” per la sorte della “Signora”, ma escludono sanzioni economiche verso la giunta. Oggi, in una Yangon blindata, si è tenuta la seconda udienza – sempre a porte chiuse – del processo; la terza udienza si terrà domani, 20 maggio. Lenin Raghuvanshi, attivista indiano e direttore del Comitato di vigilanza popolare per i diritti umani (Pvchr) spiega che l’arresto della leader dell’opposizione birmana avrà “serie ripercussioni per il movimento democratico in Myanmar” ed è una “palese violazione” dei diritti umani. Egli invita “Cina, India e i Paesi confinanti con il Myanmar a opporsi alla dittatura dei militari” e a “sostenere il movimento pacifico di lotta per la democrazia”. “È essenziale – sottolinea Lenin Raghuvanshi – per la regione sradicare il clima di terrore perpetrato dai militari” e solleva una “questione morale” legata alle nazioni che “da una parte sostengono in maniera tacita la giunta e dall’altra si oppongono al terrorismo”. L’attivista, premio Gwanju per i diritti umani nel 2007, aggiunge che il vincitore dell’edizione 2009 è il dissidente birmano Min Ko Naing, per “la sua lotta per la democrazia in Myanmar” e si augura che “egli e gli oltre 2100 prigionieri politici nelle carceri del Myanmar vengano presto rilasciati”.

Sajan George, presidente del Global Council of Indian Christians (Gcic), lancia un appello al governo dell’India perchè “condanni l’arresto di Aung San Suu Kyi” e ne chieda “il rilascio immediato”. L’attivista cristiano giudica un “esercizio di opportunismo” il pretesto alla base del fermo della “Signora” e auspica che possa festeggiare il suo compleanno, il 19 giugno, da “libera cittadina del Myanmar”. Per questo, sottolinea il presidente del Gcic, è necessario che “il governo indiano e la comunità internazionale” esercitino pressioni sulla dittatura; India, Cina e i Paesi dell’area hanno avviato stretti rapporti commerciali con il Myanmar, incuranti dei diritti umani e della repressione operata dal regime verso i cittadini, ridotti sempre più alla fame.

P. Anthony, sacerdote gesuita della Provincia di Madurai nel Tamil Nadu, è nato e ha vissuto per 10 anni nella ex-Birmania. Egli spiega che l’arresto serve a rafforzare l’idea di “assolutismo” della giunta militare, che controlla la popolazione “con il pugno di ferro: le persone possono essere arrestate in maniera arbitraria, rinchiuse e torturate”. P. Anthony sottolinea che non esiste “libertà di movimento” ed è diffusa “la pratica di torturare dissidenti od oppositori politici”. Il gesuita teme che “Aung San Suu Kyi non verrà mai rilasciata” finché “morirà o vi sarà un intervento delle potenze mondiali che eserciteranno una pressione tale da costringere la giunta a liberarla”. (continua a leggere)

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martedì, maggio 19, 2009

Il passato che ritorna

Migranti, politica e cultura. Intervista all'artista e compositore Moni Ovadia

intervista di Tiziana Barillà

Liberainformazione - Il Ddl Sicurezza è senz’altro il manifesto del nuovo atteggiamento del Governo rispetto alle politiche sui migranti e intanto in diverse parti d’Italia alcuni Sindaci assumono atteggiamenti di esclusione nei confronti degli stranieri regolari e non. Intanto, alla data dell’11 maggio sono giunti in Libia, tra Twescha, a 35 chilometri da Tripoli e nel la stessa Capitale, ben 389 migranti e in questi giorni circa 70 hanno lanciato l’SOS da un barcone e si aggiungeranno, con ogni probabilità, all’elenco della vergogna. Abbiamo chiesto a Moni Ovadia, artista e compositore, nonché uno dei più prestigiosi e popolari uomini di cultura della scena italiana, se ritiene inevitabile questa deriva xenofoba.

Sulle politiche d’immigrazione, il Capo del Governo afferma che “La sinistra era ed è quella di un’Italia multietnica: la nostra idea non è così” e poi dichiara “noi siamo contro la xenofobia”. Ma l’Italia non è già un Paese Multietnico?

L’Italia è guidata da un governo reazionario e populista che mira a seminare panico e demagogia, che segue le logiche della vecchia dittatura reazionaria, quelle che mirano non a governare ma a dominare senza controlli. Emana le leggi razziali di chi comanda senza Parlamento. È una vecchia storia che puzza di marcio. La xenofobia è una logica che si ripete, il loro atteggiamento è comprensibile perché questi esponenti di governo vengono dal fascismo. Finché ci saranno loro sarà inevitabile. Anche Fini l’ha capito che se si vuole garantire il futuro bisogna prendere le distanze da loro. Ma non è inevitabile, quando finirà l’ubriacatura di quest’epoca verranno inghiottiti dalla spazzatura della storia. Il panorama di oggi lo vedo malaccio. Ma sono un uomo lungimirante, essendo di cultura ebraica posso vedere indietro anche di 4000 anni e sono sicuro che di Berlusconi non rimarrà nulla. È solo un ego ipertrofico con il parrucchino.

Loro sono il passato che ritorna e ci riescono perché si trovano davanti un’opposizione pavida. Senza Berlusconi il centro destra non rimarrebbe al governo nemmeno un giorno in più, perché è legato ad un uomo, oltretutto privo di cultura. Quanto sta accadendo con i respingimenti è un atto indecente di malvagità mentale. Chi respinge è prima di tutto un uomo che non ha sentimenti di umanità.

Abbiamo visto diverse reazioni negli ultimi giorni. L’Onu, la CEI, il mondo delle associazioni e lo stesso Fini ha preso le distanze dalla linea leghista del Presidente del Consiglio. Anche l’opposizione si è lanciata in un fiume di dichiarazioni, inneggiando al razzismo ed inveendo contro questo Governo. Bastano queste reazioni per fare un’opposizione?

Le reazioni non bastano a fare una vera opposizione, bisogna prepararsi alle elezioni con lo spirito di costruire una vera alternativa attraverso un’opposizione ferma. Deve vincere la logica per cui bisogna curare il sintomo per prevenire la malattia. Bisogna criticare quelli che dialogano con questi metodi di governo, è necessaria un’opposizione senza quartiere in ogni momento. Finché questo governo non verrà cacciato saremo costretti ad aspettare che arrivi la loro sconfitta epocale. La speranza è Barack Obama. Noi siamo in controtendenza e andiamo verso la vergogna. I nostri politici dovrebbero essere determinati e dire basta alla retorica e al politichese per dire le cose come stanno e cioè che siamo governati da gente malvagia.

Bene, il disegno politico di governo è fin troppo chiaro. Ma gli italiani, per come li hai conosciuti tu, sono consapevoli di vivere in un paese multietnico? Come trovi gli italiani?

C’è una vasta parte di italiani che non conosce la cultura istituzionale del paese. Se la gente fosse colta e preparata non avrebbe mai scelto Berlusconi. Al tempo del governo D’Alema, quando chiesi a un mio amico quali fossero le azioni di governo che non lo convincevano, mi rispose che non sopportava i suoi baffetti. È questa la cultura politica degli italiani in questa fase, perché nessuno ha provveduto alla loro educazione istituzionale. Uno Stato dovrebbe obbligare la gente a diventare cittadini, in Italia c’è un vizio di forma della democrazia: il voto è uguale, segreto e libero ma non è consapevole. Sarebbe fondamentale un rilancio dell’educazione e della scuola pubblica, la materia più importante dovrebbe essere lo studio della Costituzione e della Carta dei Diritti Universali dell’Uomo. Se tu educhi, ne seguirà che chi ha studiato avrà nelle fibre la Costituzione e il Diritto Universale e nessuno potrà raccontargli quello che oggi ci racconta Berlusconi. Altrimenti lo Stato, se non educa, distribuisce appalti, corruzione e tangenti.

C’è quindi un problema dell’Informazione nel nostro Paese?

Se parliamo delle responsabilità dell’informazione dobbiamo pensare che viviamo in un paese in cui c’è un solo editore di riferimento, e chi non lavora per quell’editore pensa che lo farà molto presto. A queste condizioni i coraggiosi si riducono enormemente perché la gente ha famiglia e ha bisogno di lavorare. In un paese anglosassone le cose andrebbero di sicuro diversamente e questa situazione non avrebbe lunga vita. Basterebbe che tutte le televisioni trasmettessero in prima serata, ogni sera, informazione sulle leggi nazionali e internazionali. Che svolgessero un ruolo di formazione e informazione sui nostri valori etici, politici e sociali di riferimento.

La scena odierna lascia indubbiamente disorientati. Moni Ovadia, se incontrasse oggi “la ragazza dalle guance di pesca e d’aurora”, cosa si sentirebbe di dirle, cosa c’è oggi “Oltre il Ponte”?

Oltre il ponte c’è un futuro, questo futuro è pieno di luce e la luce va tirata fuori spazzando via le tenebre. Abbiamo conosciuto periodi peggiori come il fascismo e ne siamo comunque venuti fuori.

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martedì, maggio 19, 2009

Fao, in Africa “investire in agricoltura, unica via contro la fame”

Alla grave crisi economica e finanziaria globale in corso, si aggiunge quella alimentare

Radio Vaticana - “L’investimento nel settore agricolo è l’unica via contro la fame e per uno sviluppo sostenibile in Africa”. Lo ha dichiarato Hervé Lejeune, vice direttore generale della Fao, in occasione del Forum “L’emergenza alimentare in Africa” promosso a Roma dall’associazione “Harambee Africa International Onlus” che promuove iniziative di educazione e di sviluppo in Africa sub sahariana. Alla grave crisi economica e finanziaria globale in corso, si aggiunge quella alimentare che nel giro di pochi anni, per il forte rialzo dei prezzi, ha lasciato 962 milioni di persone malnutrite, per la maggior parte in Africa Sub sahariana.“La causa principale di questa grave emergenza – ha sottolineato Lejeune le cui parole sono state riprese dal Sir - è senza dubbio da attribuirsi ad una debole priorità accordata dalla comunità internazionale agli investimenti in agricoltura”. In effetti, malgrado il 70% della popolazione sia dipendente dal settore, l’agricoltura è ancora fortemente afflitta da una serie di vincoli: bassi livelli di produttività e di capacità tecniche, infrastrutture fisiche inadeguate, politica agricola e sostegno istituzionale deboli. “Eppure l’Africa dispone – ha spiegato il dirigente Fao - di un ampio potenziale, in termini di riserva di terra e di acqua”. Per questo motivo, “appare sempre più urgente rispettare gli impegni globalmente assunti e rafforzare gli investimenti”. (A.L.)

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martedì, maggio 19, 2009

Somalia: Medici Senza Frontiere chiede di il rispetto della tregua

In Somalia dal 1991, lo staff medico di Msf ha svolto nel 2008 più di 800mila visite ed eseguito oltre 2.700 interventi chirurgici

Radio Vaticana - Rispettare le strutture sanitarie e l'indipendenza dell'azione umanitaria in Somalia: a chiederlo alle parti in conflitto è l’organizzazione Medici senza frontiere, costretta a chiudere una clinica nella zona nord di Mogadiscio dopo la nuova ondata di scontri che da giorni infuria nella capitale e che ha causato numerosi feriti e spinto migliaia di civili a fuggire verso zone più sicure. Nell’ultima settimana il team medico di Msf - riferisce l'agenzia Sir - ha curato 112 feriti da arma da fuoco nell’ospedale a Daynile, nella periferia di Mogadiscio. Tra questi oltre un terzo erano donne e bambini sotto i 14 anni. “Vista la scarsità di centri di salute accessibili, è fondamentale che le persone possano accedere a quelle ancora funzionanti” dichiara Alfonso Laguna, capo Missione Msf in Somalia, assicurando che “appena verranno ristabilite le condizioni di sicurezza minime per il personale”, Msf riaprirà il centro di salute chiuso. In Somalia dal 1991, lo staff medico di Msf ha svolto nel 2008 più di 800mila visite ed eseguito oltre 2.700 interventi chirurgici. Nel Sud del Paese Msf si occupa di assistenza primaria e malnutrizione, e distribuisce acqua (15 milioni di litri all’anno) e generi di prima necessità. Di qui l’appello ai contendenti per “continuare ad assistere i feriti e i malati a prescindere dal loro credo politico, religioso o militare”. (R.P.)

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martedì, maggio 19, 2009

Il petrolio contro i popoli

Nell'Amazzonia peruviana le esplorazioni petrolifere rompono l'isolamento millenario di tribù che non hanno mai avuto contatti col resto del mondo, mettendone a rischio lo stile di vita. Una società che va a petrolio non si può permettere zone protette. E mentre le aziende guadagnano i costi umani e ambientali li pagano tutti.

Qualenergia.it - Il petrolio non fa male solo al clima. Sfruttare le limitate risorse fossili significa doversi spingere anche nelle zone più preziose o incontaminate del pianeta per cercare nuovi giacimenti. Il dibattito in Usa sull’opportunità o meno di affettuare trivellazioni all’interno della riserva naturale dell’Alaska ne è un esempio. In Italia abbiamo i contestati progetti di sfruttamento di zone come la Val di Noto, in Sicilia. In Canada lo sfruttamento delle sabbie bituminose sta devastando la foresta boreale, tanto che una tribù indiana, la Chipewyan Prairie First Nation, ha intanto intrapreso un’azione legale contro il governo dello Stato dell’Alberta, per aver concesso alle compagnie terre che sono le loro riserve tradizionali per caccia e raccolta.
Un’altra notizia significativa in questo senso arriva in questi giorni da Survival, ong internazionale che si occupa della difesa delle popolazioni tribali. I sondaggi della compagnia canadese Petrolifera Petroleum nell’amazzonia peruviana starebbero minacciando l’esistenza di alcune delle ultime tribù amazzoniche che vivono ancora in completo isolamento. Petrolifera ha infatti firmato un accordo con il governo del Perù che le permette di esplorare la terra abitata da uno degli ultimi gruppi etnici isolati rimasti al mondo, quello dei Cacataibo, almeno quattromila chilometri quadrati di foresta in una remota regione del Perù.

I Cacataibo, ricorda Survival, sono già stati divisi in due gruppi da una superstrada che collega le parti remote dell'Amazzonia a Lima, la capitale del Perù. La strada, realizzata negli anni '40, secondo l’ong ha impedito ai due gruppi di ricongiungersi. Da tempo le organizzazioni locali Ibc (Istituto del bene comune) e Fenacoca (Federazione dei nativi delle comunita' Cacataibo) chiedono al governo di fare della zona una riserva per le popolazioni tribali. Un progetto che però si scontra con quello di Petrolifera, che ha ottenuto una licenza per operare in una zona abitata da gruppi di Cacataibo che ancora non hanno avuto nessun contatto con il resto del mondo.

Durante i primi sondaggi effettuati dalla compagnia in quella parte di amazzonia i dipendenti di Petrolifera sono già venuti in contatto con membri di queste tribù, rompendo un isolamento che dura da sempre. Ibc e Fenacoca si sono rivolte alla commissione inter-americana per i diritti umani per far sospendere i test e tutelare i Cacataibo. Con ogni probabilità l’esistenza di queste tribù non sarà più la stessa se i contatti dovessero continuare.

"A dispetto dell'enorme enfasi posta l'anno scorso dai media di tutto il mondo sull'avvistamento delle tribù isolate, il Perù continua a chiudere un occhio sui diritti, le vite e la sopravvivenza dei suoi cittadini più vulnerabili", dichiara Stephen Corry, direttore di Survival. Intanto in borsa le azioni di Petrolifera sono salite del 63%, e il merito, riporta il Wall Street Journal, è proprio delle nuove esplorazioni amazzoniche in Colombia e Perù. Nel bilancio delle aziende, come al solito, non rientrano le esternalità negative, difficili da quantificare e ancora a carico di tutto il resto dell’umanità. Siano queste il contributo al global warming, piuttosto che la distruzione di ecosistemi o, come in questo caso, la messa a rischio degli stili di vita di popoli che da millenni vivono in un delicato equilibrio autarchico con la natura.

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martedì, maggio 19, 2009

Usa-Russia, prove di intesa sul disarmo nucleare

Radio Vaticana - Il disarmo nucleare è da oggi al centro dei colloqui tra Russia e Stati Uniti in vista di una nuova intesa, che possa entrare in vigore il 5 dicembre prossimo, data di scadenza del Trattato Start. Dopo l’incontro preparatorio di aprile a Roma, i rappresentanti dei due Paesi si incontrano a Mosca per un primo round negoziale. Ai partecipanti è giunto oggi l’appello del segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, affinché si produca un nuovo slancio per una concreta limitazione degli armamenti atomici. A margine del vertice anche molte organizzazioni non governative hanno espresso la loro posizione al riguardo e nutrono molte speranze sugli esiti degli incontri di Mosca. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Giorgio Alba, tra i fondatori di Bang, la Rete Europea Giovani per il disarmo nucleare (ascolta):

R. – Questa grande attesa si deve tradurre, attraverso questi negoziati, in accordi che limitino le armi nucleari nelle dottrine militari. Deve cambiare proprio l’ottica su come devono essere considerate le armi nucleari: non più come minaccia. Penso che le cose debbano essere superate insieme in un nuovo clima internazionale di cooperazione per dedicarsi, invece, ai nuovi problemi che si affronteranno nel 21.mo secolo. Quindi, uno dei punti fondamentali è che questi accordi debbano essere un punto di svolta per ridurre le spese militari e per investire, invece, in quelle che sono le spese per prevenire il cambiamento climatico e per la lotta alla fame e alla povertà nel mondo.

D. – I due Paesi come si pongono di fronte a tanti altri Stati, dove, invece, sembra ci sia una corsa alla bomba atomica?

R. – La nostra attenzione si concentra su due aree, quella del Medio Oriente, con l’Iran, ma anche con Israele, che ha armi nucleari, e tutta l’area del nord-est asiatico con Corea del Nord, ma anche Corea del Sud, Giappone, Taiwan, che potrebbero cercare di sviluppare delle armi nucleari. Le armi nucleari sono un grande strumento di pressione politica e in questo modo nel mondo di oggi, in cui le singole nazioni si sentono insicure, l’arma nucleare è ancora vista come uno strumento di privilegio. E' urgente che le armi nucleari non siano più considerate degli strumenti da utilizzare all’interno della politica internazionale e in questo quadro gli sforzi degli Stati Uniti e della Russia possono anche essere di esempio ad altri Paesi. Il rischio nucleare non è in realtà calato, anzi si va verso un suo incremento, rispetto al periodo della Guerra Fredda. Tante volte si è levata la voce, da Benedetto XVI a Giovanni Paolo II: “Mai più la guerra”! Quel “mai più” deve essere preso in considerazione veramente in maniera seria dai leader politici di oggi, per non lasciare un futuro nucleare a noi giovani.

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martedì, maggio 19, 2009

Sul web dal 21 maggio "Pope2you"

Mons. Celli parla del nuovo portale vaticano dedicato alla "generazione digitale"

Radio Vaticana - Si chiama "Pope2you" la nuova finestra sul web dedicata ai giovani e curata dal Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali. Il micro-portale verrà inaugurato dopodomani ed è stato preparato in vista della 43.ma Giornata mondiale delle comunicazioni sociali di domenica prossima. Gli obiettivi di questa iniziativa sono stati spiegati ai giornalisti dal presidente del dicastero pontificio, l'arcivescovo Claudio Maria Celli. Philippa Hitchen ha raccolto le sue parole: ascolta.

“E’ un sito che abbiamo preparato in occasione della 43.ma Giornata mondiale delle comunicazioni, che sarà celebrata il 24 maggio. Volevamo che fosse un sito rivolto ai giovani e lo vedete subito dalla grafica iniziale: il Papa, i giovani. Credo che questo sia un primo tentativo valido di un sito che si rivolge ai giovani e cerca di avere con i giovani un dialogo ricco, gradevole, aperto, cordiale. E questo perché il tema quest’anno della Giornata mondiale delle comunicazioni sociali è proprio “Nuove tecnologie, nuove relazioni” e il Papa ci invita a promuovere una cultura di dialogo, di rispetto, di amicizia. Quindi, abbiamo desiderato che in questo sito ci fosse tutto questo e volevamo che fosse un sito capace di dialogare, capace di essere propositivo e, quindi, vicino alla cultura giovanile di questa "generazione digitale", così come il Santo Padre la chiama. Il sito si muove in cinque lingue, si rivolge a giovani di lingua italiana, inglese, spagnola, francese e tedesca. La prima parte, quella che per noi di profondo significato, è la presentazione del messaggio. Dal prossimo giovedì mattina, il sito sarà accessibile a tutti. Dopo questa breve presentazione, c’è il testo del messaggio. Il sito è frutto di una grande cooperazione con l’Ufficio delle Comunicazioni sociali della Conferenza episcopale italiana, il Centro televisivo vaticano, la Radio Vaticana, H2O News, e con coloro che tecnicamente lo hanno realizzato”. (Montaggio a cura di Maria Brigini)

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martedì, maggio 19, 2009

Perù: l'esercito contro gli indios dell’Amazzzonia

Il Presidente Alan Garcia ha deciso oggi di mandare l'esercito contro gli indigeni dell'Amazzonia. Per i prossimi trenta giorni l’i militari interverranno a fianco alla polizia nella repressione della rivolta indigena in Amazzonia.

Salva Le Foreste - I 30.000 indios amazzonici protestano contro l’invasione delle loro terre ancestali, auotorizzata dal governo, prevalentemente per l'estrazione di petrolio. Il Presidente Alan Garcia ha dichiarato che non lascerà le risrse naturali dei paese a un "piccolo gruppo di persone che vi abita". Alberto Pizango, dirigente dell'organizzazione degli indigeni amazzonici AIDESEP, aveva preso atto della rottura della trattativa col governo, che lo scorso 8 maggio aveva decretato lo stato di emergenza nell'area amazzonica. Secondo gli indigeni, circa il 70% del loro territorio è stato ceduto alle multinazionali del petrolio, mettendo a riscio la foresta amazzonica. Il Perù ospita la più vasta area di foresta amazzonica dopo il Brasile.
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martedì, maggio 19, 2009

Milbank: l'Europa Cristiana conviene a tutti, anche ai musulmani

John Milbank è professore di Religione, Politica e Etica nell'Università di Nottingham. È interessante capire cosa pensa un inglese dell’Europa, dato che l’Inghilterra viene considerato il paese più euroscettico dell’Unione. Le “sorprese” non mancano: per Milbank l’Europa rappresenta innanzitutto la «possibilità di andare oltre i confini e gli interessi nazionali». Un processo che è all’inizio e che il professore ci spiega come dovrebbe svilupparsi.

PapaBoys - Professor Milbank, qual è per lei il significato dell’Europa oggi?
É la possibilità di andare oltre i confini e gli interessi nazionali, un processo che è all’inizio, ma che non può essere realizzato solo attraverso manovre economiche come è stato fatto fino ad oggi. Penso che l’Europa debba proteggere le regioni, munirsi di una politica estera omogenea, rivalutare la cultura greco-ebraico-cristiana, fondamentale per il suo sviluppo e che dovrebbe essere un obiettivo prevalente.

L’Europa non è dotata di una politica comune sull’immigrazione. Quali sono gli elementi e i principi per cooperare insieme all’integrazione di persone provenienti da altre nazioni e culture?
Dobbiamo sicuramente regolarizzare quelli che sono già in Europa, riconoscendoli come cittadini con diritti e doveri pari a quelli degli altri europei. Tuttavia, è necessario che l’immigrazione sia controllata attentamente. Per esempio, la minoranza musulmana deve essere richiamata al rispetto delle tradizioni cristiane. Non si può vivere in competizione, né pretendere di diventare maggioranza contro la maggioranza dei nativi europei. In questo senso, l’immigrazione incontrollata è semplicemente inaccettabile.

Cosa pensa dell’ingresso della Turchia nella Comunità Europea? Siamo abbastanza forti per convivere con loro?
Continuo a cambiare idea su questa spinosa materia. Sarebbe del tutto sbagliato fare finta che l’ingresso della Turchia nell’Ue non comporti pericoli. Si ripropone qui il problema della convivenza tra cristiani e musulmani. D’altro canto, occorrerà comunque trovare prima o poi qualche forma efficace di cooperazione.

Quindi essere cittadini europei vuol dire essere cristiani?
No, niente affatto. Ci sono ebrei e appartenenti ad altre religioni in Europa, ma vivere in Europa vuol dire accettarne le istituzioni. E ci sono molti musulmani, non tutti, in Gran Bretagna che preferiscono vivere rispettando le istituzioni e la cultura cristiana, piuttosto che vivere in una società secolarizzata. Si possono costruire molti ponti per un dialogo tra le religioni, ma l’idea che tutte le religioni siano uguali è altrettanto stupida che quella di credere che le diverse religioni non abbiano niente in comune.

Qual è il fondamento della cittadinanza europea se non è nella religione?
Se si accettano e rispettano i principi e i valori della Costituzione dello Stato europeo, allora si può dire di essere cittadini europei.

É una definizione da intellettuale “liberal”, non pensa?
No, quando parlo di Costituzione penso a principi costituzionali nel senso della giustizia distributiva e soprattutto intendo la fine di una libertà di coscienza mal intesa, che è uno dei capisaldi liberal.

Qual è la posizione del Partito Conservatore inglese sulle questioni di bioetica?
Il Partito Conservatore come quello Laburista sono entrambi divisi su queste questioni. Chi dissente su queste questioni nel Partito Laburista è spesso più marginalizzato di quanto un difensore della vita fin dal concepimento possa essere tra i Conservatori. Ma non sarei troppo ottimista sulla possibilità che il Partito Conservatore attuerà un reale cambiamento su queste politiche che separano completamente la sessualità dalla procreazione. Il cambiamento di posizione su questi temi potrà avvenire solo se riusciremo a far comprendere alla gente che la totale tecnologizzazione della vita e della morte è parte di un progetto di manipolazione controllata dallo Stato. Anche la Chiesa cattolica ha la responsabilità di aiutare i cittadini, che sono le vittime di questa politica di Stato, a comprendere il quadro generale in cui queste politiche si inseriscono.
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martedì, maggio 19, 2009

Duro colpo alla camorra

Azione congiunta di carabinieri, polizia e guardia di Finanza contro il clan degli «Scissionisti». Catturato ad Aversa il ricercato Franco Letizia, uno dei latitanti più pericolosi d'Italia. 100 arresti.

Era uno dei cento latitanti più pericolosi d'italia ma un'operazione coordinata delle forze dell'ordine ha messo fine alla sua libertà. Franco Letizia, 32 anni, cugino di Giovanni, sicario del grupo di fuoco di Guseppe Setola, è stato intercettato e arrestato dagli uomini della squadra mobile della questura di Caserta. Letizia è considerato il reggente del clan Bidognetti, fazione di quello dei Casalesi. L'uomo è stato sorpreso e arrestato in un'abitazione in via Cilea a San Cipriano di Aversa. Con lui sono finiti in manette anche Antonio Diana, 41 anni, proprietario dell'abitazione, e Carlo Corvino, 40 anni.

CENTO IN MANETTE - Intanto è in corso a Napoli un'operazione interforze anticamorra contro il clan Amato-Pagano, che fa parte del gruppo di «scissionisti» contrapposti al clan Di Lauro nella faida di Scampia. Polizia, carabinieri e guardia di finanza stanno eseguendo ordinanze di custodia cautelare in carcere nei confronti di cento persone, accusate a vario titolo di omicidio, associazione per delinquere di tipo mafioso, reati relativi al traffico ed allo spaccio di sostanze stupefacenti e riciclaggio di denaro.

Raffaele Amato, catturato in Spagna (Ap)
Raffaele Amato, catturato in Spagna (Ap)
L'ARRESTO DEL BOSS - Le cento ordinanze di custodia cautelare, emesse dal gip del Tribunale di Napoli su richiesta della locale direzione distrettuale antimafia ed eseguite all’alba, seguono di tre giorni la cattura del capoclan Raffaele Amato. L’uomo, latitante dal 2006 era stato arrestato nella notte tra sabato 16 e domenica 17 a Marbella, in Spagna. Amato aveva trovato rifugio nella penisola iberica gestendo i traffici di droga con il Napoletano, soprattutto quelli di cocaina. Un tempo killer di Paolo Di Lauro detto «Ciruzzo 'o milionario», era attualmente a capo di un cartello criminale attivo non solo nei quartieri napoletani di Secondigliano e Scampia, ma anche nei comuni di Melito, Mugnano, Casavatore e Arzano.

CARRIERA CRIMINALE - Il latitante, considerato il capo di uno dei clan più pericolosi usciti vittoriosi dalla faida di Scampia, negli anni ’90 aiutò Di Lauro a seminare morte e terrore nell’area a nord di Napoli per dimostrare l’egemonia sul territorio e il controllo delle piazze di spaccio. L’uomo, catturato in una hall di un albergo, per sfuggire alla vendetta degli avversari e all’assedio delle forze dell’ordine, nel dicembre 2005 scappò in Spagna, dove si era rifugiato anche in precedenza. Amato venne arrestato una prima volta a Barcellona nel febbraio 2005, ma nell’aprile dell’anno successivo, mentre era ancora in attesa dell’estradizione in Italia, fu liberato. Il capoclan è accusato di una serie di delitti consumati durante la faida di Mugnano (Napoli) nata in seno al clan Di Lauro. Una lunga scia di sangue da collegarsi alla volontà di Paolo Di Lauro di sostenere l’avvicendamento, al comando del sottogruppo di Mugnano, di Gennaro Di Girolamo a discapito di Antonio Rocco che rientrava in città dopo un periodo di detenzione.
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martedì, maggio 19, 2009

Nel nome di Libero Grassi

Edizione 2009 del premio in memoria dell'imprenditore ucciso da Cosa nostra. Storie, legalità e futuro raccontati attraverso uno spot televisivo

Liberainformazione - E' il 29 agosto 1991 quando a Palermo Cosa nostra uccide Libero Grassi, imprenditore che si rifiuta di pagare il pizzo. Dal 2005 la cooperativa Solidaria di Palermo ha indetto un premio intitolato all’imprenditore. Il premio si rivolge alle scuole e, anno dopo anno, a partire dal coraggio di Libero Grassi, intende promuovere la speranza in una società migliore. "Incroci di legalità alla scoperta di storie, luoghi e nomi del passato e del presente per costruire un futuro migliore. Realizza la sceneggiatura di uno spot televisivo" è il tema dell'edizione del 2009 realizzato in collaborazione con la Confcommercio e ottiene il patrocinio delle Regioni Sicilia e Lazio e dello Sportello Legalità della CCIAA di Palermo*. Intervista a Salvatore Cernigliaro, presidente della cooperativa Solidaria.

Un premio a Libero Grassi: come nasce l'idea?
Nel 2004 è maturata in noi l'esigenza di dotarci di uno strumento di educazione alla legalità non occasionale, che ci consentisse di tessere relazioni durature con il mondo della scuola. Abbiamo scelto di dedicare il nostro premio a Libero Grassi per mantenere vivo il ricordo un uomo coraggioso, libero – di nome e di fatto – che seppe essere uno straordinario “costruttore di coscienze”.
Com'è stato accolto il premio nel mondo della scuola, dell'associazionismo, della lotta al racket?
Abbiamo ricevuto apprezzamenti di stima, per il lavoro fin qui svolto, un po' da tutti. In particolare, le istituzioni scolastiche ci hanno sempre aiutato a promuovere la partecipazione al Premio e anche le Associazioni di categoria hanno sempre risposto positivamente, sostenendoci con contributi economici.

Chi sostiene, con la collaborazione e/o il patrocinio il premio Libero Grassi?
Abbiamo ritenuto doveroso dare la possibilità a più soggetti di dimostrare fattivamente che la memoria di Libero Grassi è patrimonio di tutti. Per questo ci siamo rivolti, negli anni, a diversi soggetti: da Confindustria a Confcommercio, dalla Regione Siciliana alla Regione Lazio, da Addiopizzo a SOS Impresa Palermo. L'unica collaborazione costante è stata quella con lo Sportello Legalità della Camera di Commercio di Palermo, frutto dello stretto rapporto di collaborazione instaurato da Solidaria con questo Ente.
Nelle diverse edizioni sono state affrontate diverse tematiche. Perché?
L'impegno civile di Libero Grassi non si concretizzò soltanto con il suo rifiuto di pagare il “pizzo” ma lo portò ad occuparsi anche di altre questioni come, per esempio, del rapporto tra mafia, politica e affari. Siamo certi che se Libero fosse ancora con noi avrebbe certamente detto la sua sui temi dell'ambiente e delle morti bianche, proposti con questa ultima edizione del Premio.

Che percezione hanno i ragazzi dei fenomeni affrontati fino ad oggi?
Dal punto di vista della percezione, mi sembrano consapevoli della pericolosità di tutti i temi che abbiamo proposto. In termini di conoscenza, però, ritengo che i ragazzi abbiano dimostrato di possedere un maggiore cognizione dei fenomeni del racket, dell'usura e dell'ambiente. Mi sembra, invece, meno diffusa la conoscenza dei ragazzi sul fenomeno “mafia”, che spesso finisce per essere solo quella che chiede il pizzo, come ho avuto modo di riscontrare nelle sceneggiature presentate in questa ultima edizione del premi.
Perché avete proposto ai ragazzi l'uso di diversi mezzi di comunicazione?
Questa scelta nasce dalla volontà di prendere esempio da Libero Grassi, che fu un grande comunicatore. È quindi obiettivo fondamentale del Premio quello di sviluppare il senso critico dei giovani e promuovere il loro protagonismo sociale, non come mero esercizio educativo, ma finalizzato alla realizzazione di vere campagne di comunicazione sociale dal basso.

Può darci qualche numero sulla partecipazione al premio?
A queste prime cinque edizioni hanno partecipato complessivamente più di duecentocinquanta scuole, soprattutto siciliane perché il Premio ha avuto nelle prime edizioni un ambito regionale. Quest'ultimo Premio, invece, è stato rivolto alle scuole italiane di ogni ordine e grado.

Il premio Libero Grassi è arrivato alla quinta edizione: cosa si augura per il futuro del premio?
Anzitutto mi auguro che sapremo meritarci ancora il sostegno di Pina, Alice e Davide Grassi, sia sul nostro metodo di lavoro che sui contenuti del Premio. Inoltre, di poter contare in una ancora più diffusa partecipazione delle scuole perché l'esempio di vita di Libero Grassi resti indelebile nella memoria delle nuove generazioni.

* Il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha apprezzato l’iniziativa, destinando una medaglia quale suo premio di rappresentanza. L’elenco delle scuole vincitrici: sezione "Lotta contro tutte le mafie":I.C.S. Daniela Mauro di Pessano con Bornago (MI) Sezione "Morti bianche":I.S.I.S. G. Salerno di Gangi (PA) sezione "Tutela dell'ambiente":Scuola Primaria IV Circolo di Benevento. La premiazione e la presentazione degli spot televisivi avrà luogo a Roma il 20 maggio alle ore 11.00 presso la sede della Confcommercio, sita in piazza Bellini, n. 2.

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lunedì, maggio 18, 2009

Metodo gomorra made in nord

La terra ottenuta dagli scavi viene utilizzata nell’edilizia e una volta riempite con i veleni su quelle buche ci costruiscono sopra: case, alberghi, centri commerciali, campi da calcio e così via

Liberainformazione - Milano come Casal di Principe. La ‘ndrangheta come i Casalesi. Stessi affari, stessi soldi. Stessa mattanza ambientale. Silenziosa ed invisibile. Stessi delitti differiti nel tempo. Comprano, affittano o espropriano con la forza i terreni. Utilizzano campi coltivati per scavare buche profonde dai cinque ai dieci metri e poi le riempiono con rifiuti tossici. Più sono velenosi, più fruttono soldi. E come in Campania il ciclo è sempre lo stesso. Metodo Gomorra made in nord. La terra ottenuta dagli scavi viene utilizzata nell’edilizia e una volta riempite con i veleni su quelle buche ci costruiscono sopra: case, alberghi, centri commerciali, campi da calcio e così via. La nuova frontiera dell’ecomafia dei rifiuti si chiama nord-Italia. Dal Piemonte alla Lombardia, dal Veneto al Friuli Giulia, il nord industriale ed operoso, secondo il rapporto Ecomafia 2009 di Legambiente rappresentano la nuova eldorado per i colletti bianchi della rifiuti Spa che hanno stretto in molti casi un alleanza strategica con la criminalità organizzata emigrata al Nord. Ed ecco faccendieri, dipendenti, imprenditori d’assalto sono diventati un anello sempre più solido e pesante nella catena di interessi che circonda l’appetitoso settore dello smaltimento dei rifiuti. Alle rotte tradizionali i rifiuti prodotti al Nord e smaltiti al sud,si affiancano da tempo, altre modalità di smaltimento illecito, da “filiera corta”. Tutto in casa. Si produce e si smaltisce in loco. O nelle regioni confinanti. Ma sempre al Nord. E non è storia di oggi. Ma lontana nel tempo. Infatti, già nel 2003 nell’operosa Lombardia, si scriveva Gomorra. Operazione Eldorado, il nome dell’inchiesta dei Carabinieri del Nord. Nell’intercettazioni del Noe, meccanismi, modalità e nomi di un organizzazione criminale che gestiva un traffico di rifiuti dal Sud al Nord. In un intercettazione due imprenditori festeggiavano l’ affacciarsi di una nuova emergenza-rifiuti a Napoli. Siamo nel maggio del 2003. .In tale occasione la struttura commissariale aveva la necessità di smistare l’immondizia verso alcune società accreditate, anche al di fuori della regione. E quale miglior opportunità per utilizzare i rifiuti campani come la testa d’ariete per far transitare illegalmente scorie industriali molto costose da smaltire regolarmente. Infatti i rifiuti non venivano smaltitiper la semplice ragione - spiega la sentenza del processo Eldorado -che «non venivano neppure scaricati ma rimanevano sui camion e ripartivano subito, attraverso un mero giro bolla cartolare, con lo stesso codice con cui erano giunti ma con diversa causale», alla volta di ditte, di siti di stoccaggio, a volte persino di semplici buche, in Lombardia e Piemonte. Precisamente nel varesino, nel comasco, nel bergamasco, nel torinese e nel cunese. E dopo cinque anni da quell’operazione, la criminalità made in Calabria viene scoperta con le mani in pasta. O meglio nella Rifiuti S.p.a. Era un pezzo da novanta della ndragheta a gestire nel nord Italia un ingente traffico illecito dei rifiuti. Operazione War stars. E’ lo scorso 18 settembre quando vengono arrestate otto persone, mentre altre venti sono indagate. A capo dell’organizzazione Fortunato Stillitano, latitante della cosca Iamonte di Melito Porto Salvo, in provincia di Reggio Calabria. Un boss da 416 bis. Secondo una prima stima, l’ organizzazione avrebbe interrato circa 178 mila metri cubi di rifiuti industriali in buche profonde fino a nove metri e larghe cinquanta. Veri crateri tossici. Più di 65 mila metri quadrati di terreno tra i comuni di Desio, Seregno e Briosco sono stati sequestrati dalle forze dell’ordine. Terreni avvelenati per secoli, senza speranza. I veleni andavano interrati in prati con la compiacenza dei proprietari, convinti con le buone o le cattive. Le discariche abusive, se messe una al fianco dell’ altra erano grandi come 10 campi di calcio. E arriviamo ai giorni nostri con l’arresto ultimo dello scorso 31 marzo, di un imputato illustre, quel Mario Chiesa che con le sue confessioni dette il via a Tangentopoli e che ora, secondo gli inquirenti, avrebbe trovato nel traffico di rifiuti una nuova e remunerativa attività. Nel caso in questione i rifiuti erano banali terre di spazzamento delle strade, un rifiuto urbano che le società controllate di fatto da Mario Chiesa avrebbero provveduto a trattare, per così dire, solo sulla carta falsificandone i documenti di trasporto. Un affare di rifiuti ma anche di corruzione di dipendenti pubblici, di turbativa d’asta e di gare d’appalto. Una storia già scritta. Un copione che si ripete diciassette anni dopo. E con qualche migliaia di tonnellate di veleni in piu’.

di Peppe Ruggiero

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lunedì, maggio 18, 2009

Mons. Ravasi: l'Africa più resistente alla globalizzazione

Il popolo africano, al contrario degli occidentali, non assimila i processi di globalizzazione che spesso cancella culture e valori spirituali

Radio Vaticana - “Prospettive Pastorali per la nuova evangelizzazione nel contesto della globalizzazione e le sue ripercussioni sulle culture africane” è il titolo del volume presentato recentemente presso la Pontificia Università Urbaniana con la partecipazione di mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura. Il testo raccoglie gli atti del convegno tenutosi lo scorso anno a Bagamoyo, in Tanzania, con l'obiettivo di dare un nuovo impulso alla pastorale della cultura. Ma quali sono gli effetti della globalizzazione sulla cultura africana? Alessandra De Gaetano lo ha chiesto allo stesso mons. Ravasi :

R. – Da un lato, è sicuramente la creazione di una certa “smemoratezza” anche in loro, come è accaduto persino nella cultura europea, cioè dimenticare sulla scia di un nuovo orizzonte che sembra essere sempre più liberatorio e progressivo, come quello di una nuova tecnica, di una nuova scienza, dimenticare le proprie radici, dimenticare la ricchezza del proprio pensiero … D’altro lato, però, c’è anche un effetto positivo che è quello di trovare un linguaggio comune in modo tale che il continente africano, come altri continenti, possa interloquire con la complessità della modernità.

D. – Nella prefazione al libro lei fa riferimento al termine “globalizzazione” che si sta evolvendo, nella cultura africana, e sta diventando “glocalizzazione”: in che senso?


R. – Questo è forse un auspicio che sorge dalla base stessa, dal terreno stesso, diremmo, di questi continenti. Io non direi soltanto l’Africa, ma anche l’Asia – per esempio – che hanno sentito questo vento impetuoso della globalizzazione che soffiava soprattutto dagli Stati Uniti e, se si vuole, dall’Europa; e che cercava di agitare la foresta delle culture locali, di trasformarle e qualche volta, persino, di abbatterle, queste foreste, introducendo un nuovo panorama omogeneo, forse anche un po’ desertificato e grigio, comandato dalle grandi leggi dell’economia, della finanza, della scienza, della tecnica. Detto questo, però, dobbiamo dire che le foreste hanno resistito – giustamente – a questo vento e hanno offerto il loro contributo di ombra, di verde, di fertilità, di fecondità dando appunto le caratteristiche locali. Questo non cancella certo la dimensione della mondializzazione, però conserva ancora le identità proprie specifiche nazionali e individuali.

D. – Di fronte alla perdita di valori che attualmente sta vivendo l’Occidente, l’Africa invece dimostra di avere un’identità, di avere dei valori. Quali, in particolare?


R. – Innanzitutto, io direi, un primo grande valore che l’Africa propone lo vorrei esprimere attraverso un proverbio swahili che dice: “Bisogna sempre agganciare una stella all’aratro”, cioè ci ricorda sempre che non esiste soltanto la produttività: esiste, certamente, l’aratro, ma c’è dall’altra parte lo splendore dell’oltre, del mistero, della trascendenza. Ecco, allora, un secondo valore: la capacità di parlare in modo simbolico. C’è, poi, una filosofia, una visione della vita, una spiritualità che è propria dell’Africa e questa spiritualità, forse, viene ricordata a noi occidentali che abbiamo perso quella ricchezza che era propria dei venti secoli della nostra tradizione cristiana e della stessa tradizione greco-latina.

... (continua)
lunedì, maggio 18, 2009

Myanmar: aggiornato a domani il processo ad Aung San Suu Kyi

Giancarlo La Vella ne ha parlato con Arduino Paniccia, docente universitario di Studi Strategici

Radio Vaticana - Proseguirà domani il processo a carico di Aung San Suu Kyi, la leader dell’opposizione in Myanmar, accusata dalla Giunta militare di violazione degli arresti domiciliari per aver ricevuto la visita di un cittadino americano. La corte nella prima udienza ha respinto la richiesta di un dibattimento a porte aperte. La leader della Lega Nazionale per la Democrazia, premio Nobel per la pace, rischia una condanna da tre a cinque anni di reclusione. Intanto, dopo gli Stati Uniti, anche l’Unione Europea potrebbe decidere un rafforzamento delle sanzioni contro l’ex Birmania. Da più parti si auspica che le pressioni della comunità internazionale possano sbloccare la situazione. Giancarlo La Vella ne ha parlato con Arduino Paniccia, docente di Studi Strategici all’Università di Trieste (ascolta):



R. – E’ una situazione nella quale, io credo, non bastino né gli incontri né le pressioni europee e neanche quelle americane. In realtà, potrebbe fare qualcosa la Cina, il vero grande alleato della Giunta militare birmana. Un problema come quello, naturalmente, deve essere anche un nostro problema. Lì però deve intervenire il governo della Cina e poi anche quello dell’India, che ha meno rapporti, che spesso è anche in conflitto, ma che comunque ha una grandissima influenza.



D. – Perchè un personaggio come la premio Nobel per la pace spaventa così tanto il regime di Yangon?



R. – Perché è l’unica voce che il mondo conosce e la Giunta è impermeabile fino ad adesso ad ogni dibattito sulla libertà di ridare a numerosissimi prigionieri. Poi sul territorio le divisioni sono moltissime e il Paese non è affatto coeso, come vuole mostrare, con la repressione, la Giunta. I movimenti sono moltissimi e gli eserciti legati alle etnie, alle tribù non sono assolutamente stati distrutti, come afferma la Giunta. Quindi, la situazione è molto difficile e il pugno di ferro, in questo momento, fa vedere la Birmania come un Paese unito. Toccare questo argomento significa per la Giunta la fine e l’inizio della disgregazione. Allora, solo con un grande lavoro di diplomazia dei Paesi vicini si può evitare la deflagrazione di un Paese tenuto ormai in maniera ossessiva sotto controllo. Quindi, la Giunta birmana non vuole in nessun modo affrontare questo e continua a rinviare le elezioni politiche, ormai convocate per il 2010, sulle quali l’Europa, la Cina e l’India e gli altri Paesi dell’Asia devono ormai metterlo come un punto definitivo, fermo, per aprire il dibattito sulla libertà e la democrazia in Birmania.



D. – La comunità internazionale sinora sta rispondendo soltanto con minacce di sanzioni nei confronti del governo di Yangon. Come potrebbe avviarsi un dialogo costruttivo sulla questione dei diritti umani?



R. – Intanto vi sono due prossime occasioni importanti che riguardano direttamente l’Unione Europea, occasioni che vanno colte: la riunione dei ministri degli Esteri dell'Asem (Asia-Europe Meeting), il Forum di cooperazione economica del sud-est asiatico e d’Europa, che si terrà ad Hanoi il 25 maggio prossimo; e poi, il Forum Unione Europea-Asean, l’Associazione del sud-est asiatico, dove come osservatore c’è anche il rappresentante del governo birmano, che si terrà in Cambogia. Sono occasioni per ribadire ormai la drammatica criticità della vicenda dei diritti umani e della democrazia in Birmania. Questo si può fare subito e credo che dobbiamo insistere, dobbiamo sottolineare l’assoluta necessità di un forte intervento europeo in questo senso, partendo proprio da questi due importanti incontri.

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lunedì, maggio 18, 2009

Degustazione cattolica

Una messa è una messa, ma non tutte le messe sono ugualmente efficaci. Ecco le più belle e le più brutte secondo Langone, il primo critico liturgico al mondo
di Camillo Lanogone

Tempi - Da quando ho inventato il mestiere di critico liturgico, un mestiere bellissimo che farei a tempo pieno se solo riuscissi a commettere simonia (e invece non c’è un soldo), mi vengono rivolte due domande:

1) Quali sono le messe più belle d’Italia?
2) Ma le messe non sono tutte uguali?

La prima domanda è posta da cattolici praticanti o aspiranti tali, la seconda è la tipica obiezione di chi a messa c’è stato l’ultima volta quando aveva quattordici anni, oppure di chi da quattordici anni frequenta la stessa parrocchia e si è convinto che il mondo finisca lì.

Al contrario le messe sono tutte diverse. Lo sospettavo da sempre: da devoto sradicato e inquieto ho avuto l’occasione di esplorare cappellette e cattedrali, santuari e monasteri, in città e in campagna, al Nord, al Centro, al Sud, e con un simile campionario anche un soggetto meno maniaco di me si sarebbe accorto di una certa mutevolezza, chiamiamola così. Ne ho avuto infine la prova lavorando alla Guida delle messe (Mondadori) che in questi giorni è arrivata in libreria. Raccogliendo informazioni su centinaia di messe domenicali differenti ho potuto misurare l’enorme estensione del ventaglio liturgico. Fondandosi sulla roccia della verità la Chiesa può concedersi molte licenze (sono le sette e le eresie a dover essere uniformi e repressive) e così ogni prete, ogni comunità, ogni fedele si comporta più o meno come gli pare. Ho scoperto che l’Ordinamento Generale del Messale Romano è un testo ignoto a chierici e laici, peggio che se fosse scritto in aramaico e reperibile solo in alcune grotte nella zona del Mar Morto. Mentre invece “le norme per preparare gli animi, di-sporre i luoghi, fissare i riti” si trovano in libreria (otto euri) e su internet (gratis). Comunque la liturgia è bella perché è varia: messe di due ore e messe di venticinque minuti, messe cantate e messe mute, messe con l’organo, messe con la chitarra, messe in italiano, messe in latino, messe un po’ in italiano e un po’ in latino, messe nelle lingue di ogni continente (specie nelle grandi città), rito romano, rito ambrosiano, rito bizantino, messe come le celebra il Papa (poche), messe come il Papa non celebrerebbe mai (molte, abbondando i preti superbi e dispettosi), navate zeppe, navate deserte, chiese frequentate solo da donne, chiese frequentate solo da uomini (con qualche messa tridentina succede), prediche lunghe, prediche brevi, preti che parlano di Dio, preti che parlano di politica, preghiera eucaristica 1 o 2 o 3 o 4 o vattelapesca, sacerdote spalle ai fedeli, sacerdote rivolto ai fedeli, nessun chierichetto, molti chierichetti (in certi casi pure chierichette), un quintale di incenso, zero incenso, sempre in ginocchio, sempre in piedi, comunione nelle due specie, comunione monospecie, ci si stringe la mano, ci si abbraccia, ci si bacia, non ci si tocca per niente… A ciascuno il suo divino.

Una Guida contro la sciatteria
Chiaramente ogni liturgia rappresenta una diversa teologia, idee di Dio all’apparenza inconciliabili: chi passasse senza adeguata preparazione dalla messa teocentrica, lunghi silenzi vibranti di sacro, di Santa Maria della Pietà (Bologna), alla messa antropocentrica, logorroica e fracassona, di Santa Maria a Mare (Maiori, Costiera Amalfitana), penserebbe a due religioni diverse. Grazie al Cielo la Chiesa è appunto cattolica, che in greco significa “universale”, capace di tutto comprendere. Ciò non vuol dire che tutte le messe siano ugualmente efficaci. Il sacramento è sempre valido (non devo ricordare su queste pagine che Cristo è presente nell’ostia anche in caso di prete indegno o di canti strazianti) ma il suo potenziale di conversione cambia di volta in volta e di norma è sottoutilizzato. Se una messa riesce a catturare i sensi, anziché respingerli, lo Spirito che in essa si incarna si approfondisce in noi. E ci cambia, e cambia il mondo. Vorrei che la Guida, la prima del genere mai realizzata, servisse da pungolo a sacerdoti e comunità per migliorare la propria liturgia secondo le semplici, ragionevoli indicazioni del nostro amato Papa Benedetto XVI, cancellando gli errori formali che rischiano di diventare sostanziali e quella disperante sciatteria, somma di candele elettriche e repertorio musicale subsanremese, che alcuni nostalgici confondono con la quintessenza della modernità (lo era negli anni Settanta, forse).
Ma non ho ancora risposto alla prima domanda: quali sono le messe più belle d’Italia? L’ho tenuta per ultima perché ho paura di sbagliare, perché sono consapevole di quanto pesi la sensibilità personale, perché giudicare è pericoloso (c’è il rischio che poi qualcuno giudichi me), perché la competizione non è cristiana… Ma non posso essere pilatesco, dovrò sbilanciarmi. Comincerò col dire che in alcune città la liturgia mi sembra mediamente più curata che in altre: a Genova, dove l’influsso del mai abbastanza compianto cardinale Siri si fa ancora sentire, e poi a Milano, potenza del rito ambrosiano, e quindi a Brescia, a Bologna, a Firenze… Nelle chiese di Parma si possono ammirare il Correggio e il Parmigianino, per il misticismo rivolgersi altrove. A Roma c’è logicamente un po’ di tutto. Il Sud è il reame della chitarra beat, chi non porta i pantaloni a zampa d’elefante può rifugiarsi in qualche cattedrale e in pochi altri luoghi. A Genova mi sentirei di consigliare la messa carmelitana di Sant’Anna e quella latina di San Carlo, a Milano Sant’Ambrogio, sebbene a volte infastidita dai flash. L’incontinenza fotografica in certi orari penalizza altre basiliche ben officiate, come l’Annunziata a Firenze o San Carlo al Corso a Roma o San Nicola a Bari. A Brescia grazie a Dio i turisti sono pochi e nel Duomo Vecchio e a Santa Maria delle Grazie l’atmosfera è davvero religiosa. Del Triveneto voglio ricordare il santuario affollatissimo della Madonna dei Miracoli a Motta di Livenza e la cappella intimissima del monastero Totus tuus Maria di Gorizia.

Per non sbagliare, Sant’Antimo
Se la domenica vi trovate nel Lazio non dimenticate l’abbazia di Farfa (Montecassino può attendere). Santa Susanna, a Roma vicino piazza Esedra, è il classico occhio del ciclone: un’oasi di gregoriano femminile nel rumoroso deserto di Babele. La Trinità dei Pellegrini, verso Campo de’ Fiori, è il motu proprio che ha vinto la scommessa: molti giovani e molti stranieri nella parrocchia espressamente dedicata da Papa Benedetto al rito tridentino.
Ma la messa del mio cuore resta quella di Sant’Antimo, meravigliosa abbazia immersa nella meravigliosa campagna di Montalcino, coi frati vestiti di bianco e il messale di Paolo VI trasfigurato da latino e canto gregoriano. È la più cattolica che ci sia per la sua capacità di abbracciare tutti coloro che hanno fatto, fanno e faranno eucaristia in memoria di lui: i morti, i vivi, i non ancora nati. Chi è andato a Sant’Antimo dietro mio suggerimento mi ha sempre ringraziato. Magari poi avrà anche mangiato e bevuto bene.
... (continua)
lunedì, maggio 18, 2009

Ha aperto una strada. I potenti la seguiranno?

Calcando le orme del Dio incarnato, “passo”, morto e risorto, il Pontefice ha confermato i “suoi” e abbracciato i fratelli ebrei e musulmani di quelle terre martoriate. Con l’energia caparbia di chi costruisce con mattoni nuovi
di Angelo Scola

Tempi - Una lezione di realismo. Questo sono stati gli otto giorni di Papa Benedetto. Con intrepido coraggio ha messo mano alle brucianti contraddizioni di quella terra addolorata, con la caparbia energia di chi non si rassegna perché sa di poter costruire con nuovi mattoni. Ha rischiato in prima persona, senza calcoli mondani di successo o insuccesso. Il suo viaggio era a-priori “politicamente scorretto”.

Da dove questo realismo? Benedetto XVI si è inserito nella lunga schiera dei pellegrini cristiani ai luoghi santi. Ha camminato sulle orme del Figlio di Dio incarnato, “passo”, morto e risorto. Ha calcato le tracce palpitanti delle sofferenze dei cristiani che abitano lì. Ha abbracciato, a nome di tutta la Chiesa cattolica, le comunità cristiane di quel lembo di Medio Oriente, «“candele accese” che illuminano i luoghi santi». Ma questo abbraccio – proprio perché compiuto nel nome di Colui che è Via alla Verità e alla Vita – ha coinvolto, necessariamente anche se a diverso titolo, i fratelli ebrei e musulmani che vivono nella terra donata al padre di tutti, Abramo. È la pretesa universale di Cristo che conduce la fede cristiana al paragone con ogni religione, con ogni visione del reale.

Protagonista della Chiesa tutta
Ecco in sintesi come leggo il viaggio di Papa Benedetto XVI in Terra Santa: pellegrino dall’umile, intelligente coraggio, Egli ha voluto essere il protagonista petrino della Chiesa tutta. Allo Yad Vashem ha coinvolto da subito, nel suo dolore, la «Chiesa cattolica, vincolata agli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona» che «prova profonda compassione per le vittime qui ricordate». La forza del suo silenzio in quella voragine di dolore e la sua struggente invocazione perché il nome di nessuna vittima dell’abominevole sterminio nazista vada perduto non ha voluto essere solo quella di Joseph Ratzinger, ma ben più potentemente quella di tutti i cristiani chiamati, al di là dei loro limiti, alla fraterna solidarietà con il popolo eletto. Non ho mai dimenticato le parole che, nel lontano 1985, mi disse il Cardinal Henri de Lubac: se il cristianesimo si deve inculturare, dato che alla nostra radice c’è il popolo ebraico, allora si deve inculturare nella storia, tuttora in atto, di questo popolo.
Il legame singolare e privilegiato che unisce il cristianesimo all’ebraismo ha trovato una espressione significativa nel commento che il Papa ha offerto a un passo del profeta Isaia. Per ovvie ragioni, il tema della sicurezza è particolarmente avvertito in Israele ed è continuamente evocato nel dibattito interno. Si tratta dunque di un argomento squisitamente politico, forse il tema di questa stagione in Medio Oriente, e il Santo Padre ha scelto di non sottrarsi alla riflessione. L’ha fatto però impostandola da una prospettiva molto particolare, quella delle Sacre Scritture. Nel linguaggio della Bibbia ebraica sicurezza e fiducia – ha ricordato al presidente Shimon Peres – sono strettamente connesse. Per la Scrittura non c’è sicurezza senza fiducia. Si potrebbe immaginare una lezione più attuale? «Non sono esaurite le sue misericordie»: dal Libro forse più tragico della Bibbia, le Lamentazioni, Benedetto XVI ha tratto il suo invito alla speranza.
In Giordania nelle parole che il principe Ghazi ha rivolto al Papa presso la moschea al Hussein bin Talal è apparso evidente un impegno deciso a favore del dialogo. Al cuore del discorso del principe, cosa del tutto sorprendente per noi occidentali, un valore-cardine delle società del Medio Oriente: quell’ospitalità che richiama la natura essenzialmente relazionale della società umana.
Sulla Spianata delle Moschee a Gerusalemme Benedetto XVI ha ripreso il tema del dialogo facendo riferimento alla fede nell’Unico Creatore e alla figura di Abramo: «La Cupola della Roccia conduce i nostri cuori e le nostre menti a riflettere sul mistero della creazione e sulla fede di Abramo. Qui le vie delle tre grandi religioni monoteiste mondiali si incontrano, ricordandoci quello che esse hanno in comune. Ciascuna crede in un solo Dio, creatore e regolatore di tutto. Ciascuna riconosce Abramo come proprio antenato, un uomo di fede al quale Dio ha concesso una speciale benedizione».
Due sono i capisaldi con cui il Papa ha affrontato la bruciante questione del dialogo interreligioso.
Tornando sul rapporto tra ragione e religione, Benedetto XVI ha fortemente rimarcato la necessità per ognuna di farsi purificare dall’altra. La religione deve lasciarsi interrogare dalla ragione, per non cadere nella superstizione o nella strumentalizzazione da parte del potere politico, ma anche la ragione deve sapersi aprire alla dimensione dell’Assoluto. Una ragione cieca al divino: questo è il grande rischio che nel mondo di oggi i credenti sono chiamati a scongiurare con la loro comune testimonianza. In secondo luogo, Benedetto XVI ha ribadito che il contributo particolare delle religioni «nella ricerca di pace si fonda primariamente sulla ricerca appassionata e concorde di Dio. Nostro è il compito di proclamare e testimoniare che l’Onnipotente è presente e conoscibile anche quando sembra nascosto alla nostra vista». Due espressioni di questo suo intervento mi hanno colpito in particolare, per la loro capacità di aderire alle provocazioni della realtà: la ricerca di Dio come condizione per la pace e l’urgenza della testimonianza personale e comunitaria. È in questo quadro che va inserita la perentoria affermazione del Santo Padre al Campo profughi di Aida: «Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato palestinese indipendente, restano incompiute… In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei muri».

Una via chiara per i semplici
Ma, per finire, ciò che più sembra aver lasciato il segno durante tutto l’itinerario del Papa in una terra che è nervo scoperto dell’umanità è stata la sua cura carica di speranza per gli abitanti della Terra Santa: «La vostra terra», sono le parole di Benedetto XVI durante la Messa a Betlemme, «non ha bisogno soltanto di nuove strutture economiche e politiche, ma in modo più importante – potremmo dire – di una nuova infrastruttura “spirituale”, capace di galvanizzare le energie di tutti gli uomini e donne di buona volontà nel servizio dell’educazione, dello sviluppo e della promozione del bene comune. Avete le risorse umane per edificare la cultura della pace e del rispetto reciproco che potranno garantire un futuro migliore per i vostri figli. Questa nobile impresa vi attende. Non abbiate paura!».
Il volto delicato ed intenso con cui il Papa, in ginocchio davanti alla fenditura in cui fu conficcata la croce di Gesù, più che chiudere questo pellegrinaggio, apre per tutti gli uomini di buona volontà una strada efficace per sciogliere il nodo mediorientale. I semplici la sapranno certo trovare. I potenti di questo mondo vorranno imparare dalla pacata mite energia costruttiva di Benedetto XVI?
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lunedì, maggio 18, 2009

Sconfitta Tamil: si cerca la conferma della morte di Prabhakaram

Agenzia Misna - L’esercito ha annunciato di aver definitivamente sconfitto i ribelli e che sono in corso le verifiche per identificare tra i cadaveri Vellupillai Prabhakaran, comandante in capo delle ‘Tigri per la liberazione della patria tamil’ (Ltte); la televisione nazionale ha già dato l’annuncio della morte di Prabhakaran, citando la testimonianza di due soldati. Ieri le Ltte, pur senza usare mai la parola “resa”, avevano dichiarato di “far tacere le armi” dicendo che la lotta indipendentista era “giunta alla fine” e di farlo per salvare i civili. L’esercito conferma oggi l’uccisione anche di alti due dirigenti del movimento ribelle e di aver trovato il corpo del figlio maggiore di Prabhakaran. Secondo le dichiarazioni fatte dai soldati intervistati dalla televisione, il capo delle Ltte era in una vettura blindata seguita da un bus pieno di guerriglieri; incontrando le forze di sicurezza ne è seguita una battaglia di due ore in cui un razzo è stato lanciato contro il veicolo blindato; il corpo estratto dal mezzo deve essere identificato con certezza. Non ci sono al momento informazioni indipendenti sulla situazione dei 50.000 civili che erano rimasti intrappolati nei combattimenti. “Da ieri abbiamo perso ogni contatto con il nostro personale sul campo” dice alla MISNA Sarasi Wijeratne, portavoce del Comitato internazionale della Croce Rossa, “siano in una fase di evoluzione della situazione su cui non possiamo dire nulla – ha continuato - se non che abbiamo offerto alle autorità la nostra assistenza per evacuare i malati e i feriti e per portare gli aiuti di prima necessità agli sfollati che sono ancora nella zona”. A Colombo un gruppo di manifestanti ha preso a sassate l’ambasciata della Gran Bretagna, governo che nelle ultime settimane è stato tra i più critici nei confronti delle autorità cingalesi per la mancata protezione dei civili tamil durante gli scontri. Il conflitto civile in Sri Lanka, allo scopo di creare un territorio autonomo nelle regioni abitate in gran parte dalla minoranza tamil, è cominciato nel 1983 dopo molti anni di tensioni, anche con sfoghi violenti, collegate alle discriminazioni politiche e sociali denunciate dai tamil; si stima che la guerra abbia provocato almeno 90.000 vittime. L’esercito ha annunciato oggi la riconquista completa dell’isola, la cui parte settentrionale e orientale era nelle mani dei ribelli fino all’estate del 2006 quando, nonostante un processo di pace avviato nel 2002, è cominciata una lenta e sanguinosa riconquista. L’Alto commissario Onu per i diritti umani, Navi Pillai, nei giorni scorsi ha convenuto sulla necessità di avviare un’inchiesta sui crimini di guerra commessi da entrambe le parti in particolare nell’ultima fase del conflitto in cui si stima che migliaia di civili tamil inermi siano morti sotto i bombardamenti d’artiglieria.




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lunedì, maggio 18, 2009

Nei gulag di Stalin un gesuita: Padre Pietro Leoni

del nostro redattore Carlo Mafera

La vicenda di padre Leoni, partito cappellano militare in Russia nel 1941 e rientrato in patria solo nel 1955, ha un “non so che” di straordinario, in quanto mentre tutti fuggivano dalla Russia nella ritirata successiva all’8 settembre 1943, lui andava incontro ai russi per evangelizzarli. Per il gesuita, formatosi come missionario al Russicum, il pontificio istituto per la formazione dei sacerdoti che volevano recarsi presso i popoli slavi, il comunismo era distruzione della dignità umana e spese tutta la sua vita, non a parole, ma con i fatti, per fare in modo che in tale distruzione ci fosse una piccola luce che illuminasse le tenebre di un totalitarismo diabolicamente omicida.

Forse, tra i più anziani, qualcuno ancora ricorda un sacerdote esile, con il pizzo e gli occhialetti di metallo, la sua storia di missionario, l'udienza speciale che gli concesse papa Pio XII. E certe cronache dei giornali di 54 anni fa, quando padre Leoni ritornò dalla Russia mettendo in imbarazzo i comunisti italiani che descrivevano questo gesuita italiano appena rientrato in Italia, nel maggio del 1955, dopo 10 anni di sofferenze nel gulag, come un millantatore. Non volevano infatti riconoscere la spietatezza del regime comunista che si dimostrò tale l’anno successivo con l’invasione dell’Ungheria e la conseguente scissione della sinistra.
Le vicende del padre Leoni furono straordinarie fino alla fine della sua vita : il gesuita, infatti, morì libero ma non certo nel proprio letto, poiché mancò il 26 luglio 1995 facendo un bagno in un lago di quel Canada dove per tanti anni aveva infine servito la comunità russa.

Padre Pietro Leoni, nato nel 1909, quinto di sei fratelli in una modesta famiglia contadina, era entrato in seminario nel 1922, nella compagnia di Gesù nel 1927 e al Collegio Russicum nel 1934, per venire infine ordinato sacerdote di rito bizantino - slavo nel 1939, destinato alla missione in terra russa. Anche nell'elenco delle date si può riscontrare l'impatto di un'epoca precisa nella storia della Chiesa quando era importante utilizzare specifiche vocazioni per tutelare e difendere ,negli anni della guerra fredda, la fede dei cristiani nell'Unione Sovietica.
Il Russicum era stato fondato solo nel 1928 per rispondere alla persecuzione antireligiosa che, per tutti gli anni Venti, fece strage nel clero della maggioranza ortodossa come in quello della minoranza cattolica (nel 1939, dei 900 sacerdoti ne restavano solo 2), ma aveva anche il compito di lavorare per riunire i fratelli cattolici e ortodossi intorno al Pontefice Romano.
Padre Leoni faceva parte di una classe di 25 missionari usciti dal Russicum tra il 1935 e il 1939, alcuni dei quali entrarono poi nell'Urss in modo clandestino. Anche lui arrivò in Unione Sovietica nel 1941 come cappellano militare. E comprese subito , in quelle terre ucraine dov'era arrivato al seguito delle truppe d'invasione italiane, l'impianto totalitario del bolscevismo e la natura tirannica dell'occupazione nazista, che comunque in Ucraina godette di qualche seguito. Si rese conto anche della profonda complessità della Chiesa ortodossa, Chiesa di regime e Chiesa martire allo stesso tempo. Ma, nonostante tutto, non perse mai il coraggio e il desiderio di evangelizzare.
Rimpatriato, con la ritirata italiana, nel maggio 1942, smobilitato nell'aprile 1943, padre Leoni rientrò presto in Ucraina e in particolare si recò a Odessa, dove c'era una comunità di 8.000 cattolici in gran parte di origine tedesca, appena in tempo per assistere all'avanzata sovietica. Il suo arresto arrivò poco dopo la Pasqua del 1945: quando la guerra era ormai finita, anzi vinta, e Stalin spazzò via quel poco di tolleranza religiosa che aveva in precedenza concesso per rinsaldare lo spirito del popolo russo di fronte ai sacrifici inumani imposti dal conflitto.

Da quella momento iniziò per il gesuita una via crucis nei campi di concentramento del sistema sovietico che avrà fine solo il 30 aprile 1955 e che, per durata e crudeltà, si avvicinò molto a quelle descritte da Aleksandr Solzenicyn in «Arcipelago Gulag». Le tappe furono : i cinque mesi dell'istruttoria tra la Lubjanka e il carcere d'isolamento di Lefortovo; la prima condanna a 10 anni di campo e il trasferimento nelle foreste di Mordovia; la seconda condanna a 25 anni nel 1947 e lo spostamento nell'incubo siberiano di Vorkuta; dovette subire anche il tradimento da parte di altri religiosi ma mitigato dalla compassionevole condivisione della sofferenza con gli altri prigionieri e sacerdoti come lui reclusi e purtroppo destinati a sparire nel gulag. Padre Leoni patì soprattutto infinite punizioni sotto forma di digiuno, isolamento, aggravio di lavori già penosissimi e numerosi ricoveri in infermeria o in ospedale...

Eppure nella storia di padre Leoni non è tutto questo che è sostanziale in lui. Quasi confonde , invece, oltre che l'inflessibile spirito evangelizzatore di Leoni che prega e catechizza sempre, anche nei più duri lavori forzati, la sua comprensione istintiva dell'essenza del comunismo. Il gesuita Leoni ben presto capì che, come tutti gli apparati totalitari, il bolscevismo fu sostanzialmente una dottrina antropologica e non politica intesa a sopprimere la dignità dell'essere umano assai più che costruzione di un diverso assetto sociale. Nella sua ostinata opposizione, Leoni si prefisse il compito di elevare la dignità dell'uomo diventando così il nemico primo dell’ideologia comunista.
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lunedì, maggio 18, 2009

Yangon, inizia il processo contro Aung San Suu Kyi

La leader dell’opposizione rischia una condanna fra i 3 e i 5 anni di galera. La giunta blinda l’area attorno al carcere e impedisce l’accesso a diplomatici stranieri. Tagliate le linee telefoniche con l’estero. Campagna firme di intellettuali e politici per chiede la liberazione della “Signora”.

Yangon (AsiaNews) – Oggi a Yangon è iniziato il processo a carico di Aung San Suu Kyi, accusata di aver violato i termini degli arresti domiciliari per aver ospitato un cittadino americano nella sua abitazione. La comunità internazionale giudica i capi di imputazione “privi di fondamento” e ne chiede l’immediata scarcerazione; in vista del processo la giunta militare ha tagliato le linee telefoniche (solo alcuni telefoni cellulari riescono a comunicare con l’estero) e blindato l’area attorno al carcere di Insein.

Aung San Suu Kyi, che ha trascorso 13 degli ultimi 19 anni agli arresti domiciliari, rischia una condanna tra i tre e i cinque anni. La Nobel per la pace e leader del partito di opposizione Lega nazionale per la democrazia (Nld) potrebbe inoltre essere esclusa dalle elezioni politiche del 2010; si tratta della prima tornata elettorale degli ultimi 20 anni, dopo la schiacciante vittoria della Nld nel 1990 e mai riconosciuta dalla dittatura militare al potere.

Come anticipato da AsiaNews all’indomani del fermo di John William Yettaw, il 53enne cittadino americano autore dell’incursione nella villa di Suu Kyi, la vicenda appare un “pretesto” montato “ad arte” dalla giunta militare per mantenere agli arresti la “Signora”. Il prossimo 27 maggio scadono i termini dei domiciliari a carico della Nobel, che ora rischia invece una pesante condanna.

La giunta ha blindato l’area attorno al carcere di Insein, a Yangon. Ai diplomatici di Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Australia è stato impedito di accedere al carcere. Nel frattempo intellettuali, attivisti, politici e uomini di spettacolo hanno lanciato una campagna per la liberazione di Aung San Suu Kyi: fra i firmatari Vàclav Havek, Robert De Niro, Salman Rushdie, Steven Spielberg, Madeleine Albright e l’arcivescovo Desmond Tutu.
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