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giovedì, aprile 28, 2011

I giovani e Giovanni Paolo II: un amore senza fine

Per il ciclo di articoli su Giovanni Paolo II, il nostro Fabio Vitucci ci parla del rapporto di papa Wojtyla coi giovani, culminato nelle grandi GMG in giro per il mondo

Tor Vergata, Roma, 19 agosto del 2000: insieme ad oltre 2 milioni di giovani provenienti da tutto il mondo, Giovanni Paolo II prega in una veglia serale molto emozionante e alla fine canta e balla con loro agitando le braccia, seppur malato e quasi spossato sulla sua sedia. Questa è forse una delle immagini più forti del papato di Karol Wojtyla, che ha sempre avuto un affetto speciale per i giovani, considerati un’ancora di salvezza per l’umanità: “Se sarete quello che dovete essere, incendierete il mondo!”. E i giovani hanno sempre ricambiato questo profondo sentimento per il papa polacco
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giovedì, aprile 28, 2011

Una società senza padri e senza Padre

Prosegue su La Perfetta Letizia il ciclo di articoli su Giovanni Paolo II. Il nostro Carlo Mafera ci parla della figura paterna del papa polacco...

Mi sono sempre chiesto perché tanta gente (migliaia di persone e soprattutto di giovani) sia accorsa al funerale di Giovanni Paolo II. Ora mi chiedo perché altrettante ne accorrerà alla sua beatificazione. La risposta non è semplicemente riconducibile al suo grande carisma e alla sua santità. C’è una ragione intrinseca alla società stessa: la nostra è infatti una grande famiglia priva della figura paterna. Da qualche decennio abbiamo “ucciso” il padre e lo abbiamo estromesso dalla nostra vita. Ma ciò che abbiamo buttato dalla finestra si è ripresentato prepotentemente dalla porta.

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venerdì, aprile 15, 2011

Quando una donna in gravidanza perde lavoro e diritti

La nostra Federica Scorpo ci racconta una storia vera

Mi sono imbattuta nel mondo dei contratti a progetto e delle donne lavoratrici in gravidanza grazie ad un’email in cui una donna mi ha raccontato indignata che al sesto mese di gravidanza ha perso il lavoro. Navigando sul web alla ricerca di risposte ho trovato tantissime donne che su vari forum chiedevano aiuto e consigli su come agire in caso di gravidanza e la maggior parte riguardavano quesiti sui contratti a progetto. Katia Scannavini (di cui avremo presto la testimonianza diretta sulle pagine di La Perfetta Letizia) ha trentasei anni

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mercoledì, aprile 13, 2011

“Tieni sempre davanti agli occhi il punto di partenza”

Monica Cardarelli inizia un ciclo di articoli sul tema "Chiara d'Assisi: 800 anni della consacrazione"

La notte della domenica delle Palme del 28 marzo 1211 Chiara, una giovane di nobile famiglia di appena diciannove anni, fugge dalla casa paterna per poter attuare il piano da tempo concordato con un giovane di nome Francesco. Dalla piazza di San Rufino, ad Assisi, Chiara giunge alla chiesetta della Porziuncola a Santa Maria degli Angeli dove Francesco la consacrerà a Dio con il taglio dei capelli. Con la tonsura Chiara inizia un cammino penitenziale nuovo ed originale. Infatti, quella stessa notte Francesco l’accompagnerà al Monastero delle Benedettine di San Paolo delle Abbadesse a Bastia Umbra. Qui vi resterà pochi giorni e, soprattutto, si presenterà come povera e serva. Anche Chiara, infatti, come Francesco, aveva da tempo venduto la sua dote per donare il ricavato ai poveri.
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martedì, aprile 12, 2011

Sogno di rinascita afghana: i Kabul Dreams

Esiste un Afghanistan diverso da quello che siamo abituati a conoscere attraverso giornali e televisioni, che del paese ci raccontano la guerra, i talebani, i kamikaze e le donne in burqa. È un Afghanistan che cerca di rinascere dopo trent’anni di distruzione e sofferenze, che guarda al futuro con lo spirito di ragazzi troppo giovani per aver conosciuto la pace e che sognano un futuro migliore.

della nostra Daniela Vitolo

I Kabul Dreams, prima band indierock afghana, oggi sono uno dei simboli della rinascita. Nata nel 2009, oggi la band è molto amata nel Paese, ha numerosi fan in occidente ed è un modello da seguire per altri giovani che vogliono dedicarsi al rock. I tre giovani membri della band, Sulayman Quardash, Siddique Ahmad e Mujtaba Habibi, hanno vissuto rispettivamente in Uzbekistan, Pakistan e Iran durante il regime dei talebani e sono tornati in Afghanistan solo da pochi anni. I talebani infatti vietarono la musica costringendo gli afghani ad abbandonare la propria importante tradizione musicale.
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mercoledì, marzo 09, 2011

La luce di Benedetto

del nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

Cattedrale di Westminster: il volto del giovane che sostiene una torcia accesa – volto dai tratti forti e decisi, capelli biondi a taglio corto – ne è splendidamente illuminato dalla fiamma. In piedi, immobile per tutta la celebrazione, sembra conficcato per terra come accanto a lui lo stendardo blu di Cassino. L’assemblea lo ammirava come fosse davanti a un’icona. Da solo suggeriva la forza suggestiva del simbolo: la luce di Benedetto da Norcia nell’oscurità della barbarie di quei secoli lontani, tra uomini dai lineamenti altrettanto forti e decisi.
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mercoledì, marzo 02, 2011

Una testimonianza da Tripoli in esclusiva per La Perfetta Letizia

Abbiamo raccolto la testimonianza di un cittadino di Tripoli che, rischiando la propria vita, ci tiene aggiornati su quello che sta succedendo nella città roccaforte del regime. Ci riferisce che moltissime persone sono chiuse nelle proprie case e sono terrorizzate per quello che potrebbe succedere.

Ci racconta N.G. che per le strade di Tripoli c'è una situazione 'irreale', in quanto non ci sono tracce delle violenze avvenute: tutto è stato cancellato dal regime, compreso il sangue degli omicidi compiuti dai mercenari.

Ecco le parole di N.G.: "Qui tutto è sorvegliato, possono irrompere in casa in ogni momento. Quando uso Facebook lo faccio solo per 5 minuti ed usando parti terze per entrarci. Guardate il canale della Bbc e Al Jazeera, è tutto reale quello che fanno vedere. Adesso c'è una battaglia ferocissima nella città di Brega ad ovest di Bengazi.
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lunedì, febbraio 28, 2011

Momenti di ecumenismo

Dal nostro corrispondente a Londra Renato Zilio

“L’ecumenismo cammina con piccoli gesti di incontri quotidiani vissuti e compiuti dalla gente,” mi fa Edoardo, giovane studente brasiliano di teologia, quasi contando i suoi passi, “più che con incontri al vertice di grandi personaggi”. Mi ripete l’idea di un suo grande maestro, mentre ci dirigiamo speditamente verso la vicina chiesa, anzi il tempio. E mi parla della bella figura spirituale del Cardinale Newman, uomo dei due bordi, dallo spirito cattolico e anglicano al medesimo tempo. Entriamo in St. Martin in the Fields, chiesa anglicana nel cuore di Londra. Colpisce subito una vetrata centrale di rara bellezza per la sua nudità, segno del clima di interiorità che vi si respira all’interno.
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lunedì, febbraio 14, 2011

Egitto, un paese che cambia: per La Perfetta Letizia l'inviata del Tg5 al Cairo Mimosa Martini

La 'transizione democratica' dell'Egitto inizia venerdì 11 febbraio, giorno in cui il popolo egiziano è riuscito a cambiare il corso della propria storia.

di Fabio Gioffrè

Il 'governo militare' da oggi ha preso pieni poteri in Egitto e condurrà il paese fino ad una transizione completa verso la democrazia, che sarà sancita dalle prossime elezioni legislative e presidenziali. Nel cosiddetto "comunicato numero 5" i militari offrono garanzie al popolo di ordine, stabilità e sicurezza. I punti elencati che regoleranno la vita degli egiziani per i prossimi sei mesi per ora non sembrano destare inquietudini tra la gente, che anzi sembra aver accettato di buon grado questo 'governo militare'. Gli osservatori internazionali per ora non esprimono particolari dubbi sulla "bontà" di tali promesse, ma certamente l'Egitto sarà un paese sotto osservazione, soprattutto da parte dei paesi vicini, in primis Israele.

Abbiamo chiesto all'inviata del Tg5 Mimosa Martini di raccontarci quali siano gli umori che animano l’Egitto in questi giorni di grandi cambiamenti.

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lunedì, febbraio 14, 2011

La fecondazione artificiale eterologa tra Costituzione e legge 40: la parola alla Consulta

Del nostro collaboratore Bartolo Salone

Nel dettare la disciplina giuridica delle tecniche di procreazione medicalmente assistita, la legge 40/2004 ha posto dei vincoli ben precisi a tutela e del nascituro e della funzione familiare, essendo ovviamente intollerabile che i bambini nati grazie a queste tecniche godano di minori garanzie e diritti rispetto ai bimbi nati in modo naturale. In un settore come quello della procreazione artificiale, in cui a sofferenze personali legate a problemi di infertilità e di sterilità si mischiano ingenti interessi economici (le cliniche e i medici che assicurano tali pratiche non sono certo dei benefattori dediti ad attività di volontariato), ritenere che la soluzione migliore sia rimettere tutto all’autonomia privata e all’alleanza medico-paziente significa non conoscere affatto l’animo umano, che non sempre (specialmente quando ci sono di mezzo i quattrini) si lascia guidare da alte idealità.
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mercoledì, febbraio 02, 2011

Uno sguardo sui giovani

Abbiamo chiesto il parere sugli ultimi avvenimenti in Maghreb a un giovane italiano, Giordano Fenzi, studente di giornalismo a Londra, e riportiamo il suo sguardo su un mondo che cambia

“La democrazia è un evento che, solitamente, provoca sbadigli nei Paesi in cui esiste uno stato di diritto e i cittadini godono di libertà di movimento e d'espressione” direbbe il premio Nobel Mario Vargas Llosa. Nei Paesi, invece, dove sono forti le ingiustizie sociali e regna l’arroganza dei potenti, l’esasperazione del popolo può portare a gesti estremi. Mohammed Bouaziz era un giovane tunisino di ventisei anni. Laureato in Economia, di mestiere faceva l’ambulante occasionale. Il 17 dicembre 2010 Mohammed si è dato fuoco davanti alla prefettura di Sidi Bouzid, una città nel cuore della Tunisia.
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giovedì, gennaio 27, 2011

L'On. Walter Veltroni nella Giornata della Memoria ricorda Ferdinando Valletti e le vittime della Shoà

Nella "Giornata della Memoria" abbiamo chiesto all'On. Walter Veltroni di commemorare le tante vittime della barbarie nazifascista che vide perire milioni di innocenti durante il secondo conflitto mondiale. Fra i tanti che si distinsero per atti di eroismo ed umanità Walter Veltroni ricorda la figura di Ferdinando Valletti, ex calciatore del Milan e deportato nel campo di sterminio di Muthausen.

scritto per noi
dall'On. Walter Veltroni

La vicenda umana di Ferdinando Valletti, così come affettuosamente ce la racconta la figlia Manuela, è quella di un eroe antieroe, prezioso per quello che ha fatto e per come lo ha fatto, per la semplicità dei suoi gesti di solidarietà e per l’impegno proseguito tutta la sua vita per non dimenticare. E’ bello che La Perfetta Letizia abbia deciso di ricordare il Giorno della Memoria e lo faccia con questa testimonianza semplice e toccante.
Perché ho definito Valletti un eroe-antieroe? Per mille motivi: è un ragazzo come tanti, un operaio e un calciatore (una cosa come questa oggi sembra impossibile, ma che sapore doveva avere quel calcio così lontano dai soldi e dai riflettori), un diciassettenne diplomato alle scuole tecniche, orgoglioso del suo posto in fabbrica come della maglia del Milan.

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giovedì, gennaio 27, 2011

“La partita del cuore” di Ferdinando Valletti

“Vi voglio raccontare la storia di un uomo che finì deportato nei lager nazisti a 23 anni e che grazie al suo coraggio, al suo grande cuore e a un pizzico di fortuna riuscì a tornare a casa dal campo di sterminio di Mauthausen e a salvare molti suoi compagni di prigionia. Quell’uomo si chiamava Ferdinando Valletti ed era mio padre.”

di Manuela Valletti

Ferdinando Valletti, classe 1921, mediano del Milan a fianco di Meazza, giocò la sua ”partita del cuore” nel capo di calcio di Mauthausen e fu una partita che salvò la sua vita e quella di alcuni suoi compagni di prigionia.
Cominciamo dall’inizio: Ferdinando Valletti, veronese, classe 1921, va a Milano nel 1938 fresco di diploma di perito industriale dell’Itis Galileo Ferraris, con un lavoro certo all’Alfa Romeo, e proprio alla scuola della fabbrica milanese diventa Maestro d’Arte. Nando ha sempre avuto la passione per il calcio tanto che a Verona si era messo in evidenza giocando nell’Hellas. Appena giunto a Milano gioca nel Seregno e viene notato dal Milan: così nel campionato’42/’43 gioca con la maglia rossonera.
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lunedì, gennaio 24, 2011

Un'isola di migranti

Ci sono luoghi che per loro natura sono da sempre dei crocevia, luoghi di acqua e di fuoco, di terra e di mare, di conquistatori e di conquistati, luoghi di tradizioni e vecchie storie. Madeira è un posto così. Più volte conquistata ma mai domata, abitata da marinai e artigiani che seguono fieramente tradizioni antiche.

del nostro corrispondente Renato Zilio

Festa di Santo Amaro. Appena terminata la lunga processione del santo patrono e una solenne celebrazione della sera, vedi avanzare coraggiosamente un’anziana contadina – con fisarmonica, grande scialle e cappello nero da uomo - intonando ai microfoni della chiesa una antica nenia a squarciagola. Il popolo presente sembra d’incanto risvegliarsi. Dopo una preghiera fino allora umile e composta, la gente si mette a ripetere gioiosamente il ritornello, battendo mani e piedi. È una vera esplosione popolare: “Viva, viva Santo Amaro!” Sembra un canto di vittoria, contro il male, evidentemente. Qualcuno mi fa: “Quella capita qui tutti gli anni da un villaggio vicino!” indicando il donnone. E la cantata popolare, in nome del santo, pare ormai non avere più fine.
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giovedì, gennaio 13, 2011

Israele, ora basta!

L’attacco alla Freedom Flotilla è stato solo una delle tante, terribili violazioni dei diritti umani da parte di Israele: Angela Lano, che era a bordo di una delle navi umanitarie della Flotilla, racconta nel suo libro “Verso Gaza” quei terribili momenti, dandoci lo spunto per tante riflessioni

del nostro Fabio Vitucci

31 maggio 2010, ore 4.30 del mattino, acque internazionali: parte il violento attacco dell’esercito israeliano alla Freedom Flotilla, una flotta composta da 8 navi e oltre 800 volontari e giornalisti che stanno portando beni di prima necessità nella Striscia di Gaza, ridotta ormai alla fame dall’embargo israeliano. Un attacco premeditato, organizzato fin nei minimi particolari, compresa una propaganda che immediatamente ha provato a descrivere il carico umanitario come una banda di terroristi pronti a portare chissà quale pericolo alla nazione israeliana.
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venerdì, dicembre 10, 2010

Natale da lontano

di Giordano Fenzi, redattore de “La voce degli italiani” a Londra

Forse, chi emigra sa bene cosa vuol dire Natale. O forse, ha solo fatto proprio il suo significato un po’ per scelta e un po’ per necessità. Tra qualche settimana molti italiani all’estero torneranno in Italia, nella propria famiglia. Natale è fare posto, trovo scritto in un recente best-seller “Vangelo dei migranti” della EMI. E chi meglio di un migrante conosce il vero e quotidiano significato di queste due parole?
Fare posto a un altro mondo è spesso un esercizio faticoso. Bisogna fare posto ad un’altra lingua, altri valori, altre esigenze, altre leggi. Bisogna fare posto agli altri. Emigrare vuol dire essere disponibili ad accogliere, ma anche amare ancora di più il proprio Paese. È vero, ci si accorge di quanto si vuole bene ad una persona solo quando ci si allontana da lei.

Così, stando lontano dall’Italia provo un sentimento contrastante. L’affetto e la nostalgia vanno di pari passo con un senso di frustrazione. Sì, per un Paese schiavo di politici ai quali pare non interessare il risolvere i problemi dei cittadini. Persone che sembrano guardare solo ai propri interessi e per essi sono disposti a sacrificare quelli di milioni di persone. Provo amore e rabbia verso un’Italia che non riesce a risolvere i propri problemi, che viene trascinata sempre più in basso da una classe politica che invece di esprimere i valori più nobili della società, spesso ne rappresenta gli istinti più bassi.

Questi sentimenti vanno, però, di pari passo con la nostalgia per luoghi bellissimi, per una lingua intrisa di storia e per relazioni personali fatte di sincerità e passione. La politica dovrebbe avere la stessa umiltà che si ha quando ci si mette in gioco in un altro Paese. Come noi, emigranti. Quando si mettono da parte le proprie certezze e ci si prepara a capire un altro punto di vista. E comprendere, in fondo, che dietro le differenze di lingua, di cultura o di religione ci sono sempre le stesse ansie, gli stessi desideri.

Ognuno sente, alla propria maniera, un bisogno di futuro, rappresentato da un lavoro, da una casa, da una famiglia e da un po’ di felicità. Chi emigra lo fa spesso per necessità, per costruirsi un futuro dignitoso, che il proprio Paese non riesce a garantire.

Per me, in fondo, il Natale è questo. Amore e rabbia. Ma è soprattutto speranza. Speranza che chi governa il nostro bellissimo Paese impari a volergli bene, come gliene vuole chi lo vede da lontano.
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domenica, novembre 28, 2010

Legge 194, controllo delle nascite e diritti dei portatori di handicap: dall’aborto terapeutico all’aborto eugenetico?

Del nostro collaboratore Bartolo Salone

Contrariamente a quanto affermato da certa propaganda abortista, il nostro ordinamento non riconosce alla donna il diritto ad abortire in ossequio ad una concezione “cosistica” dell’embrione (inteso quale mero ammasso di cellule privo di vitalità o semplice appendice del corpo materno), ma piuttosto un diritto a salvaguardare la propria salute fisica o psichica, mediante il ricorso, nei casi previsti, all’interruzione della gravidanza. L’aborto, quindi, come espressione o, se si preferisce, come pura modalità attuativa del diritto alla salute della gestante (ed in tal senso si parla di aborto “terapeutico”), il quale è ritenuto dal legislatore prevalente rispetto al concorrente diritto alla salute o alla stessa vita del concepito. Del resto, che il nascituro abbia dei diritti inviolabili, fin dal momento del concepimento, è un fatto assodato nel nostro sistema giuridico ancor prima della legge 40/2004 (c. d. legge sulla procreazione medicalmente assistita). La Corte costituzionale, infatti, fin dal lontano 1975 ebbe ad affermare in una storica sentenza (i cui principi sono stati costantemente ribaditi nelle successive pronunce) la rilevanza costituzionale della tutela del concepito, il cui diritto alla vita rientra tra quelli inviolabili garantiti dall’art. 2 della Costituzione, anche se – ad avviso della Corte – non può esservi equivalenza con i diritti egualmente inviolabili alla vita e alla salute della madre, per cui, in caso di conflitto, sono questi ultimi a dover prevalere. Sulla scia di tale pronunciamento è stata approvata la legge sull’aborto (legge 194/1978), la quale, in coerenza con i principi della tutela del concepito così individuati, ha solennemente proclamato all’art. 1 che “lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio” e che “l’interruzione della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite”. E’ un chiaro no, almeno nelle dichiarazioni di principio, all’aborto c.d. “contraccettivo” (quale è quello praticato mediante la “pillola del giorno dopo” o “dei cinque giorni dopo” di cui tanto si è discusso e che finisce col confondere, in manifesta violazione della legge, l’aborto con la contraccezione, ancorché “d’emergenza”) e all’aborto “eugenetico” (volto cioè a selezionare i “migliori” della specie), il quale ricorda tristi pratiche legate ad uno dei periodi più oscuri della storia umana, quello del totalitarismo nazista.
Il fatto è che, alle petizioni di principio contenute nell’art. 1, non è poi seguita una disciplina giuridica capace di soddisfare appieno alle proclamate esigenze di tutela del concepito ed è questo, invero, l’aspetto più criticabile della legge 194.
Innanzitutto, è dato osservare come il legislatore del tutto inopinatamente abbia discriminato la tutela del concepito nei primi tre mesi di gestazione da quella dello stesso nei successivi mesi di gravidanza. Ne è risultata una disciplina “bislacca”, in cui le esigenze di tutela costituzionale della vita del nascituro (naturalmente con i limiti derivanti dalla tutela della vita e della salute della madre) vengono di fatto soddisfatte solo dopo i primi 90 giorni di gravidanza, dato che da questo momento soltanto “l’interruzione della gravidanza può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (art. 6 della legge 194). Nei primi 90 giorni, invece, ai fini dell’interruzione della gravidanza, è sufficiente che la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. In quest’arco di tempo la donna è quindi arbitra assoluta nella valutazione delle predette circostanze, la cui mera percezione soggettiva, al di là di ogni riscontro esterno, legittima il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza. Di impossibile accertamento medico (data l’estrema evanescenza del parametro considerato) sarebbe d’altronde il pericolo alla salute psichica causato da condizioni sociali o familiari, tant’è che la legge, all’art. 5, si limita a prevedere solamente dei colloqui dissuasivi col personale della struttura socio-sanitaria o col medico di fiducia cui la donna si rivolge, fermo restando che a lei sola spetta comunque la decisione finale. Così l’aborto, nei primi tre mesi, risulta sostanzialmente libero e insindacabile, in barba alla premessa di cui all’art. 1, per la quale la vita umana è tutelata fin dall’inizio, e agli stessi principi costituzionali; si è visto, infatti, che la costante giurisprudenza costituzionale in materia riconosce al concepito un diritto alla vita condizionato non allo stadio di sviluppo dell’embrione, bensì alla sola esigenza, da accertare obiettivamente, di preservare dal pericolo di un danno grave la vita o la salute fisica o psichica della gestante. Circoscrivere la tutela della vita del concepito agli ultimi sei mesi di gravidanza (come fa l’attuale disciplina), rendendo di fatto libero l’aborto nei primi tre mesi, significa introdurre una irragionevole disparità di trattamento che non trova giustificazione alcuna nei principi costituzionali e che, pur contro le intenzioni espresse dallo stesso legislatore, apre di fatto la via ad un utilizzo dell’aborto quale mezzo di controllo delle nascite (d’altronde, l’uso distorto dell’istituto dell’interruzione di gravidanza a fini di controllo delle nascite è messo bene in evidenza dai dati relativi agli aborti “reiterati”, in preoccupante crescita soprattutto fra le adolescenti).
Motivi di grave preoccupazione destano in particolare le previsioni relative all’aborto dei soggetti malformati o con gravi handicap. Come si è avuto modo di vedere, in questo caso, a giustificare il ricorso alla procedura di interruzione della gravidanza, nei primi 90 giorni, basta la semplice “previsione” (e non già l’accertamento effettivo) di anomalie o malformazioni del concepito. Il perché di una norma così accentuatamente “preventiva” (la quale, a tacer d’altro, potrebbe consentire finanche l’aborto di embrioni perfettamente sani) si può spiegare, a dire il vero, solo nell’ottica dell’utilizzo dell’aborto in chiave di selezione delle nascite. Sospetto confermato dall’inclusione delle “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” tra i processi patologici che, a norma dell’art. 6, determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, consentendole di abortire pur dopo i primi tre mesi di gravidanza. In tal caso il diritto all’aborto discende in maniera pressoché automatica, poiché non sarebbe difficile dimostrare che la prosecuzione della gravidanza di un bambino gravemente malato o handicappato metta in serio pericolo, se non la salute fisica, quantomeno quella psichica della gestante. Il riferimento alla salute psichica della madre diventa così l’alibi per giustificare pratiche dirette alla selezione dei feti sani, nella prospettiva di una concezione distorta della maternità quale mezzo di autorealizzazione o di gratificazione personale e non quale servizio di amore ad una vita nuova che nasce, da accettare così com’è, pur se malata, pur se handicappata…
Non si può negare, invero, che la legge 194 apra a forme di “eugenesi” prenatale, legittimando (non solo sul piano giuridico, ma anche su quello culturale) pratiche gravemente lesive del diritto alla vita e della dignità della persona umana. Va ribadito invece che i portatori di handicap sono persone come tutte le altre. Il disagio legato alla loro condizione non dovrebbe divenire motivo di ingiusta discriminazione in ordine al godimento dei diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita; al contrario dovrebbe costituire motivo di una protezione “rinforzata”, in quanto si tratta di soggetti deboli. E’ il principio di uguaglianza a richiederlo, quel principio di cui tanto si fregia la cultura moderna, dall’illuminismo in poi, ma di cui al di fuori della prospettiva cristiana della sacralità della vita e della fratellanza universale di tutti gli appartenenti al genere umano a fatica si riescono a comprendere le ragioni.
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sabato, ottobre 30, 2010

Di tutti i colori

Di Frate Pietro, nostro corrispondente a Meknes, nel nord del Marocco

Fine dell’ottobre missionario e festa di Ognissanti, una ricorrenza che mi ha sempre ispirato, non so perché. Forse perché mi immagino questa variopinta assemblea di gente di tutte le epoche, razze e lingue… una mega-festa, diremmo oggi, davvero "multiculturale", con una decisa connotazione alter-globalista, in cui i poveracci hanno finalmente il primo posto, una specie di raduno alla "Woodstock", con musica a gogo, in cui la nota che sostiene l’armonia è la gioia. Non una gioia stolta e ignara, giusto perché "se magna e se beve", piuttosto la gioia dell’intimo, gioia cosciente che è stata pagata a caro prezzo, da una vita completamente donata, “scialacquata”, per Lui. Ma non ci saranno solo i Santi del calendario, quelli con certificazione vaticana ISO GPII o BXVI… quelli ci saranno, ma forse faranno solo il servizio ai tavoli. Quelli invece seduti e allo stesso tempo in braccio al Padre, finalmente consolati, saranno gli ignoti, quelli che hanno preso tutte le mazzate dalla vita, senza risparmio e senza tregua. Quelli a cui nessuno ha mai detto ‘bravo’, al massimo gli abbiamo detto ‘poverino’ (pensando in cuor nostro: che sf… !). Questi saranno gli invitati speciali alle Nozze dell’Agnello, saranno i Custodi della Porta, quelli che faranno gli onori di casa, saranno quelli che ci hanno salvati dalla nostra mostruosa e perbenista indifferenza.

Io per esempio, "speriamo che me la cavo" grazie al gruppo dei mitici handicappati e i bambini dell’orfanotrofio di Meknes, che sono troppo belli e ho anche la prova che non è solo una mia impressione. Infatti già da tre anni, d’estate, dei gruppi di giovani vengono dall’Italia per passare 2 settimane con loro, farli giocare, portarli in piscina etc. Beh, credo di parlare a nome di tutti, è un po’ come essere con un piedino già in quella festa di cui sopra… quando vedi dai loro volti la gioia che la tua visita ha prodotto… roba da non credere! Adesso stiamo tirando in piedi un progettino per assicurare ai bambini almeno un pomeriggio alla settimana di animazione con dei clown, e poi l’apporto di un educatore specializzato per bambini disabili e un fisioterapista.
Parlando di feste e di nozze, vi voglio raccontare un’altra esperienza notevole di questi giorni, cioè la festa di fidanzamento ufficiale della mia amica Z. Qualcuno la conosce, appunto chi è venuto per il campo di lavoro con i bambini quest’estate. Orbene, Z. si è fidanzata con S., un simpatico e distinto senegalese che vive a Ferrara da una decina d’anni. Alla festa ero l’unico invitato uomo e mi sono goduto i vari riti in diretta: l’henné disegnato sulle mani della futura sposa, il dattero e il latte portati alla bocca reciprocamente da lui e da lei, le innumerevoli foto (scattate da me, in buona parte).
Z. indossava un vestito tradizionale rosso, cucito da lei stessa, che sappiamo essere una sarta ben esperta, S. aveva un cappellino bianco, che nascondeva la sua chioma rasta, forse per non spaventare troppo i genitori e le zie di lei. Questo avviene nel pomeriggio; per cena, al mio ristorante preferito, siamo in 3: lei, lui e il "direttore spirituale", io. E’ un po’ come il gruppo fidanzati in parrocchia, solo che qui sono musulmani; ciò non toglie che, in quest’epoca di globalizzazione, una donna marocchina che si fidanza con un senegalese residente a Ferrara possa avere come "confessore" un frate monzese residente a Meknes.
Per concludere, ecco l’ultima della settimana: mentre lavoro all’ufficio del nostro Centro culturale nella Medina, ricevo la visita di Meriem, Abdellah e Mustafa, i tre bambini di Huda, che sta a chiedere la carità sulla scalinata che porta alla nostra via. Ho sempre un po’ di cioccolato per simili evenienze e con l’aggiunta di qualche pezzetto di gesso per imbrattare i marciapiedi, l’affare è concluso. Ma un ragazzino di una famiglia dei nostri vicini vede la cosa e chiede altrettanto; ero tentato di rispondere come il Padrone della vigna che dà il soldo a quelli dell’ultima ora «Dei miei beni faccio quello che voglio »… invece gli ho spiegato che quei bambini erano un po’ meno fortunati di lui e che quindi meritavano un trattamento di favore. Mi aspettavo un disaccordo da parte sua, invece, con mia sorpresa, mi stringe la mano e esclama: «Anta islami», tu sei un vero musulmano!
Bene cari, che dirvi di più ? Godiamoci questa festa multicolor e aspettiamo di vedere chi ci sarà lassù: di sicuro ne vedremo delle belle!

... (continua)
venerdì, ottobre 29, 2010

Monaci indimenticabili

del nostro redattore Renato Zilio

“In nome del Dio Unico, Padre, Figlio e Spirito santo!” Così iniziava all’alba la preghiera cantata e ripetuta per ben tre volte: riassumeva il credo di due fedi, l’unicità e la trinità di Dio. Alle quattro del mattino era la nostra preghiera al monastero trappista, mentre subito dopo la moschea vicina lanciava il suo primo appello alla preghiera. Quasi una concorrenza tra credenti, ma che Dio, il Misericordioso, perdona volentieri... È questo il ricordo che mi insegue da anni, vivendo un paio di mesi con i monaci trappisti di Tiberhine. Mai avrei pensato che quelle voci sarebbero state spente un giorno dal taglio di un coltello. Facendo di loro degli agnelli offerti in sacrificio. A Dio e all’umanità.

Testimonianza viva di una Chiesa povera, fraterna ed umile in terra d’Islam questa comunità monastica era destinata a farsi feconda come un chicco di grano caduto nella terra. “Qui bisogna svuotarsi. Prendere il cammino della kenosis,” ricordava evangelicamente un vescovo. “Bisogna accettare di essere inefficaci. Vivere in un paese islamico solo come una presenza di preghiera e di solidarietà. E farlo come il Cristo, fino in fondo!” Sì, straordinaria vocazione: essere là unicamente come “uomini di Dio.”

Guardavo il vecchio monaco Amedée prendere il tè con gli operai musulmani del monastero. “È la mia seconda eucaristia!” mi soffiava in un orecchio con devozione. Vedevo per mezzo di un semplice pezzo di pane e del tè quale grande senso di comunione respirasse con loro e con tutto un popolo, con il quale condivideva le sorti da tanti anni... Non stentavo per nulla a credergli. E rimanevo ammirato di una così grande e difficile spiritualità, quella dell’incontro con l’altro.

Al monastero si viveva intensamente l’ospitalità, l’accoglienza dell’altro. Chiunque, infatti, era accolto fraternamente con cuore aperto e gioioso. “Per comprendere l’altro non bisogna conquistarlo,”scriveva Louis Massignon,“ma farsi suo ospite. Perché la verità si trova nell’ospitalità.” L’ospitalità, l’accogliersi reciprocamente, il far posto alla verità dell’altro è sempre un meraviglioso segreto per comprendersi. Per capire che“i sistemi si oppongono, ma le persone si incontrano.” E sanno costruire, spesso, una storia di relazioni nuove e inedite, di orizzonti più vasti o di ponti miracolosamente estesi. Sull’abisso, a volte, delle nostre immense differenze. Come questi monaci.

Mi risuonano, ancora, le parole ascoltate nel Maghreb: “Il centro di gravità della Chiesa non si trova in se stessa. E neppure nel suo rapporto con Dio. Ma si trova nella relazione di Dio con il mondo, che ha tanto amato... e in questo la Chiesa si fa serva e ministra”. Questi monaci amavano il loro mondo musulmano veramente. Appassionatamente. Come servitori di Dio e dei fratelli musulmani, fino a morirne... e per davvero!

A notte fonda, la preghiera con loro era scendere in una semplice, accogliente chiesetta monastica con la coscienza di trovarvi dei testimoni di una vita originale. Quella di noi, emigranti. Anch’essi camminavano sul filo del confine tra un mondo e un altro, tra una cultura, una lingua ed altre ben diverse, tra una religione ed un’altra immensamente differente. Liturgia mista, allora, in francese e in arabo. Quando, però, iniziavano i melismi e le melodie della lingua araba mi veniva sempre una stretta al cuore. Sapevo che era una lingua di cui i musulmani sono gelosi: lingua sacra, per eccellenza. Si trova sulla bocca stessa di Dio. Ma per i monaci era segno del loro amore per questo popolo e la loro cultura. In fondo, però, era la stessa cosa, l’amore non è forse il vero nome di Dio?

Alla fine della liturgia, un trappista spegneva tutte le luci e si rimaneva in un buio completo. Tutti fermi e immobili nell’oscurità anche per un’ora. Mi dicevo, allora: “Adesso sì che entriamo nello spirito di preghiera... ” Questo tempo per Dio, tutti insieme, in un silenzio prolungato nutriva la nostra anima, ci faceva toccare con mano la gratuità, la fiducia e la povertà della nostra fede. E insieme la grandezza di Dio.

“Il nostro monastero, a dire la verità, era sconosciuto a tutti,” ricordava recentemente Jean-Pierre, monaco sopravissuto, “ed è ormai diventato una lampada... sopra il moggio. Sopra il mondo. Brilla di una luce che non si spegnerà mai. Mentre coloro che li hanno uccisi, dopo essersi trovati di fronte a sette monaci, sette agnelli sgozzati, avranno ben sentito forse dentro, nel più profondo, la voce di Dio...”

Parole di speranza e di perdono le sue. Null’altro il mondo si attende, per vivere.

... (continua)
mercoledì, ottobre 20, 2010

Liberi nella testa, nelle mani, nei piedi

della nostra redattrice Monica Cardarelli

“Alla Romita, quando non ci sono i pellegrini, non sono mai solo. Siamo almeno in quattro: Padre, Figlio, Spirito Santo e io! E poi ci sono gli animali, le piante, le stelle…” così Fra Bernardino Greco risponde alle nostre domande, con un sorriso schietto e solare, con le mani segnate dal lavoro ma sempre aperte all’accoglienza e i piedi pronti ad andare. Frate francescano da 55 anni, ha seguito la sua vocazione e la passione per San Francesco a soli 15 anni. Per 30 anni ha vissuto ad Assisi e al Monastero di San Damiano, assaporando quella che una volta era la solitudine di Chiara e delle Sorelle Clarisse in quel luogo fuori dalle mura della città ma così vicino ai fratelli e a Dio. Poi, la visione: l’eremo sul Monte di Torre Maggiore, nel comune di Terni, di cui aveva conoscenza fino ad allora solo grazie ai libri del ‘700. Come per magia gli appare davanti agli occhi l’immagine dell’Eremo ricostruito, proprio come San Damiano per Francesco. E Fra Bernardino va, lui che ha come Francesco la libertà di andare. Va, nel 1991, e trova un rudere abbandonato da 130 anni. Ma non si perde d’animo, perché “quando sono entrato ho sentito una voce che mi diceva di restare e ricostruirla”, ci dice. Allora cerca aiuto nelle persone che abitano nel centro più vicino, a 10 chilometri, si rivolge ai contadini del luogo, ma anche al convento francescano più vicino. Chiede il permesso ai proprietari, perché nel frattempo la proprietà era passata ad alcuni privati, che però risponderanno al frate come lui stesso ci racconta: “Padre, è da una vita che l’aspettiamo!”
Inizia così la ricostruzione di quello che un tempo è stato l’Eremo di Cesi o, come la chiamano oggi, la Romita di Cesi. E come fu per San Damiano ai tempi di Francesco, così è stato anche per Fra Bernardino: “La ricostruzione è servita ad aggregare. Come aggregava le pietre, aggregava le persone. È servita a costruire la comunità. Persone vicine, contadini ma anche persone che venivano dall’estero. Francesco - ci dice Fra Bernardino - è stato l’uomo dei contatti col lontano, l’uomo dell’apertura, della ricerca. San Francesco è stato un costruttore, ma un costruttore di comunità.”
Dopo 20 anni di lavori, ora la ricostruzione è terminata. L’Eremo si trova nei boschi del Monte di Torre Maggiore, a 800 metri di altezza, ed è meta di pellegrini che percorrono la Via Francigena che da Assisi porta a Roma. Infatti, la Romita vuole essere luogo di presenza francescana in un territorio in cui Francesco ha vissuto ed ha camminato, una testimonianza di vita cristiana basata sulla preghiera, il lavoro manuale, l’accoglienza dei pellegrini, la condivisione della vita comunitaria e la convivenza... ma anche luogo di ritiro e di silenzio.
Fra Bernardino quando parla della Romita usa sempre il verbo al plurale, e puntualmente la nostra domanda è quanti sono i frati che vivono lì. Ma no, lui risponde che è solo, ma non è mai solo. “Quando non ci sono i pellegrini, che sono un dono di Dio, faccio l’eremita. Ma non sto mai da solo. Abbiamo animali, cani, gatti, pecore, papere, e poi siamo circondati da cinghiali, volpi… viviamo nella natura.”
La semplicità, la purezza di cuore e la schiettezza nel suo modo di porsi sono un dono per chi ascolta. Sempre con il sorriso, con il volto sereno e tanto entusiasmo, ci parla del ‘suo’ Francesco, di quel San Francesco che l’ha affascinato e che ancora oggi continua ad attirarlo. “Perché Francesco è sempre attuale – ci dice Fra Bernardino – voi qui parlate tanto di ambiente e fate bene, ma Francesco queste cose le aveva capite già nel 1200 e le viveva. Per lui la natura non era qualcosa che stava fuori da sé, ma qualcosa in cui lui era inserito. Francesco ha vissuto il Cantico delle Creature concretamente. Era un rapporto che lui sentiva. Francesco era l’uomo cosmico che sente unità e fratellanza con tutte le creature, non solo con le persone. Nel Cantico non c’è l’uomo al centro della natura, ma l’uomo che loda Dio per la natura. Il Cantico delle Creature è una lode continua a Dio per ogni creatura, dal vento al fuoco, dal sole alle stelle. Non c’è niente di negativo riferito alla natura nel Cantico delle Creature. Solo la lode per tutte le creature.”
Quindi può essere attuale San Francesco? “Certo – risponde Fra Bernardino - anche noi oggi possiamo prenderlo ad esempio e ispirarci a lui per vivere la nostra vita e fare le nostre scelte. Perché ognuno di noi è unico e deve scegliere la sua vita in modo unico, diverso dall’altro o da quello che io penso sia la cosa giusta per lui. Siamo tutti dei geni, ma ognuno ha la sua genialità. Ognuno di noi deve trovare il suo modo per seguire Francesco e così essere creativo nella fede.”
Certo non è facile oggi seguire la strada percorsa da un santo come lui, ma pensando alla qualità della vita viene da riflettere: come è possibile oggi, ad esempio, essere poveri? “Francesco era felice nella povertà perché la felicità non consiste nel benessere ma nell’unione, nella comunione. La solitudine rende infelici, la comunione no. Francesco non ha sofferto la solitudine perché aveva questa passione per Cristo e la compassione per l’uomo. Francesco non ha niente… povertà è libertà. La povertà è una ricchezza. Essere poveri significa essere liberi, non avere condizionamenti, non avere legami, vincoli. Non si tratta solo di povertà materiale ma anche affettiva, psicologica. Una povertà che è libertà. Liberi nella testa, nelle mani, nei piedi. Mani libere con cui non devi trattenere quello che hai, bensì cogliere, prendere e dare. Mente lucida, occhi limpidi e cuore puro. Mani pulite e piedi spediti.”
Ci salutiamo con una stretta di mano e un grande sorriso. Lo guardo mentre si allontana nel suo saio marrone, con i sandali ai piedi, e capisco che lui quella libertà l’ha trovata e la vive e la testimonia ogni giorno.
... (continua)


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