domenica, novembre 28, 2010
Del nostro collaboratore Bartolo Salone

Contrariamente a quanto affermato da certa propaganda abortista, il nostro ordinamento non riconosce alla donna il diritto ad abortire in ossequio ad una concezione “cosistica” dell’embrione (inteso quale mero ammasso di cellule privo di vitalità o semplice appendice del corpo materno), ma piuttosto un diritto a salvaguardare la propria salute fisica o psichica, mediante il ricorso, nei casi previsti, all’interruzione della gravidanza. L’aborto, quindi, come espressione o, se si preferisce, come pura modalità attuativa del diritto alla salute della gestante (ed in tal senso si parla di aborto “terapeutico”), il quale è ritenuto dal legislatore prevalente rispetto al concorrente diritto alla salute o alla stessa vita del concepito. Del resto, che il nascituro abbia dei diritti inviolabili, fin dal momento del concepimento, è un fatto assodato nel nostro sistema giuridico ancor prima della legge 40/2004 (c. d. legge sulla procreazione medicalmente assistita). La Corte costituzionale, infatti, fin dal lontano 1975 ebbe ad affermare in una storica sentenza (i cui principi sono stati costantemente ribaditi nelle successive pronunce) la rilevanza costituzionale della tutela del concepito, il cui diritto alla vita rientra tra quelli inviolabili garantiti dall’art. 2 della Costituzione, anche se – ad avviso della Corte – non può esservi equivalenza con i diritti egualmente inviolabili alla vita e alla salute della madre, per cui, in caso di conflitto, sono questi ultimi a dover prevalere. Sulla scia di tale pronunciamento è stata approvata la legge sull’aborto (legge 194/1978), la quale, in coerenza con i principi della tutela del concepito così individuati, ha solennemente proclamato all’art. 1 che “lo Stato tutela la vita umana dal suo inizio” e che “l’interruzione della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite”. E’ un chiaro no, almeno nelle dichiarazioni di principio, all’aborto c.d. “contraccettivo” (quale è quello praticato mediante la “pillola del giorno dopo” o “dei cinque giorni dopo” di cui tanto si è discusso e che finisce col confondere, in manifesta violazione della legge, l’aborto con la contraccezione, ancorché “d’emergenza”) e all’aborto “eugenetico” (volto cioè a selezionare i “migliori” della specie), il quale ricorda tristi pratiche legate ad uno dei periodi più oscuri della storia umana, quello del totalitarismo nazista.
Il fatto è che, alle petizioni di principio contenute nell’art. 1, non è poi seguita una disciplina giuridica capace di soddisfare appieno alle proclamate esigenze di tutela del concepito ed è questo, invero, l’aspetto più criticabile della legge 194.
Innanzitutto, è dato osservare come il legislatore del tutto inopinatamente abbia discriminato la tutela del concepito nei primi tre mesi di gestazione da quella dello stesso nei successivi mesi di gravidanza. Ne è risultata una disciplina “bislacca”, in cui le esigenze di tutela costituzionale della vita del nascituro (naturalmente con i limiti derivanti dalla tutela della vita e della salute della madre) vengono di fatto soddisfatte solo dopo i primi 90 giorni di gravidanza, dato che da questo momento soltanto “l’interruzione della gravidanza può essere praticata: a) quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; b) quando siano accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni, che determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna” (art. 6 della legge 194). Nei primi 90 giorni, invece, ai fini dell’interruzione della gravidanza, è sufficiente che la donna “accusi circostanze per le quali la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comporterebbero un serio pericolo per la sua salute fisica o psichica, in relazione o al suo stato di salute o alle sue condizioni economiche, sociali o familiari, o alle circostanze in cui è avvenuto il concepimento o a previsioni di anomalie o malformazioni del concepito”. In quest’arco di tempo la donna è quindi arbitra assoluta nella valutazione delle predette circostanze, la cui mera percezione soggettiva, al di là di ogni riscontro esterno, legittima il ricorso all’interruzione volontaria della gravidanza. Di impossibile accertamento medico (data l’estrema evanescenza del parametro considerato) sarebbe d’altronde il pericolo alla salute psichica causato da condizioni sociali o familiari, tant’è che la legge, all’art. 5, si limita a prevedere solamente dei colloqui dissuasivi col personale della struttura socio-sanitaria o col medico di fiducia cui la donna si rivolge, fermo restando che a lei sola spetta comunque la decisione finale. Così l’aborto, nei primi tre mesi, risulta sostanzialmente libero e insindacabile, in barba alla premessa di cui all’art. 1, per la quale la vita umana è tutelata fin dall’inizio, e agli stessi principi costituzionali; si è visto, infatti, che la costante giurisprudenza costituzionale in materia riconosce al concepito un diritto alla vita condizionato non allo stadio di sviluppo dell’embrione, bensì alla sola esigenza, da accertare obiettivamente, di preservare dal pericolo di un danno grave la vita o la salute fisica o psichica della gestante. Circoscrivere la tutela della vita del concepito agli ultimi sei mesi di gravidanza (come fa l’attuale disciplina), rendendo di fatto libero l’aborto nei primi tre mesi, significa introdurre una irragionevole disparità di trattamento che non trova giustificazione alcuna nei principi costituzionali e che, pur contro le intenzioni espresse dallo stesso legislatore, apre di fatto la via ad un utilizzo dell’aborto quale mezzo di controllo delle nascite (d’altronde, l’uso distorto dell’istituto dell’interruzione di gravidanza a fini di controllo delle nascite è messo bene in evidenza dai dati relativi agli aborti “reiterati”, in preoccupante crescita soprattutto fra le adolescenti).
Motivi di grave preoccupazione destano in particolare le previsioni relative all’aborto dei soggetti malformati o con gravi handicap. Come si è avuto modo di vedere, in questo caso, a giustificare il ricorso alla procedura di interruzione della gravidanza, nei primi 90 giorni, basta la semplice “previsione” (e non già l’accertamento effettivo) di anomalie o malformazioni del concepito. Il perché di una norma così accentuatamente “preventiva” (la quale, a tacer d’altro, potrebbe consentire finanche l’aborto di embrioni perfettamente sani) si può spiegare, a dire il vero, solo nell’ottica dell’utilizzo dell’aborto in chiave di selezione delle nascite. Sospetto confermato dall’inclusione delle “rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro” tra i processi patologici che, a norma dell’art. 6, determinano un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna, consentendole di abortire pur dopo i primi tre mesi di gravidanza. In tal caso il diritto all’aborto discende in maniera pressoché automatica, poiché non sarebbe difficile dimostrare che la prosecuzione della gravidanza di un bambino gravemente malato o handicappato metta in serio pericolo, se non la salute fisica, quantomeno quella psichica della gestante. Il riferimento alla salute psichica della madre diventa così l’alibi per giustificare pratiche dirette alla selezione dei feti sani, nella prospettiva di una concezione distorta della maternità quale mezzo di autorealizzazione o di gratificazione personale e non quale servizio di amore ad una vita nuova che nasce, da accettare così com’è, pur se malata, pur se handicappata…
Non si può negare, invero, che la legge 194 apra a forme di “eugenesi” prenatale, legittimando (non solo sul piano giuridico, ma anche su quello culturale) pratiche gravemente lesive del diritto alla vita e della dignità della persona umana. Va ribadito invece che i portatori di handicap sono persone come tutte le altre. Il disagio legato alla loro condizione non dovrebbe divenire motivo di ingiusta discriminazione in ordine al godimento dei diritti fondamentali, a partire dal diritto alla vita; al contrario dovrebbe costituire motivo di una protezione “rinforzata”, in quanto si tratta di soggetti deboli. E’ il principio di uguaglianza a richiederlo, quel principio di cui tanto si fregia la cultura moderna, dall’illuminismo in poi, ma di cui al di fuori della prospettiva cristiana della sacralità della vita e della fratellanza universale di tutti gli appartenenti al genere umano a fatica si riescono a comprendere le ragioni.

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