Dall'Isis a Boko Haram, anche i bambini entrano nei ranghi del terrorismo. Gli ultimi casi sono quelli di Gaziantep, in Turchia, e di Kirkuk, in Iraq. Ragazzini con le maglie di Messi, capaci di passare inosservati, ma che nascondono all'interno le cinture esplosive.
di Lorenzo Carchini
C'è un forte utilitarismo nello sfruttamento dei bambini kamikaze da parte dello Stato Islamico e di Boko Haram. Sanno passare inosservati, aggirare i controlli, addolcire i servizi di sicurezza. Ed eccoli saltare per aria in mezzo ad un mercato in Turchia, in Iraq o in Africa. Sfruttati due volte: da vivi, indottrinati, arrabbiati e fomentati, e da morti, come martiri, guerrieri irriducibili.
L'azione kamikaze di Gaziantep, durante una cerimonia nuziale, non è il primo né sarà l'ultimo a vedere bimbi "istishhad" di 12-14 anni protagonisti di un massacro. Ingaggiati tra i parenti ed amici nelle comunità, all'interno di una rete terroristica intrecciatasi sotto i comandi Isis in Siria, in modo da agire nella zona curda, la sanguinosa frontiera tra califfato e Turchia.
Bambini che possono agire con maggior facilità di un adulto, ma anche con meno scrupolo. Messi talvolta a bordo di autobombe in Siria ed Iraq, altrimenti lasciati per strada, per colpire durante un evento pubblico, come un matrimonio o una festa di paese.
C'è anche una logica emergenziale dietro il fenomeno. Il Califfato sta arretrando, i buchi nei ranghi aumentano, tutti sono potenziali martiri utili alla causa militare ed al proselitismo; così ogni singolo membro deve essere pronto al gesto estremo per fermare il nemico, conta poco la data di nascita.
Stanotte un altro caso a Kirkuk, in Iraq, dove un ragazzino portava una cintura esplosiva sotto una maglietta di Messi. Fermato per tempo dalle forze dell'ordine. che ne hanno impedito l'atto terroristico, ed inquadrato dalle televisioni locali mentre, con la voce poco virile che può avere un dodicenne non ancora sviluppato, cerca di urlare e sbraitare contro un nuvolo di grossi e sudati poliziotti, intenti a sfilarne la cintura assassina dai deboli fianchi, dopodiché a caricarlo di peso su una vettura, tenuto per quelle braccia che sembrano sul punto di spezzarsi da un istante all'altro. Tanto bastano, secondo il Califfato, per reggere il peso del terrore.
Le immagini del bambino, le grida e la violenza negli occhi iniettati di rabbia catturati da fotografi e video, mostrano un'altro volto, diametralmente opposto, ma non meno tragico, rispetto a quello raccontato in tutto il mondo dallo shock "calmo" del piccolo Omran. E altri ne verranno.
C'è però un'altra guerra in atto, stavolta nel continente africano. Un conflitto ancor più sanguinario di quello mediorientale, verso il quale, però, l'Occidente sembra spesso intenzionato a voltare le spalle o a limitarsi al ruolo di osservatore distaccato. Si tratta delle azioni criminali di Boko Haram, attivi in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad. Nel 2014 erano "solo" 4 gli attacchi suicidi con minori, un anno dopo erano ben 44, circa un terzo dei 150 totali. Un attentatore su cinque è un bimbo.
Per alimentare la loro campagna di sangue, i militanti africani hanno rapito centinaia di giovani, ragazzi e ragazze, poi tramutati in bombe che camminano. Bambini anche di 8 anni, utilizzati nei centri cittadini, nei mercati, in mezzo alle folle e ad altri ragazzini, fatti esplodere, talvolta senza neppure che siano loro stessi ad avere in mano il detonatore.
di Lorenzo CarchiniC'è un forte utilitarismo nello sfruttamento dei bambini kamikaze da parte dello Stato Islamico e di Boko Haram. Sanno passare inosservati, aggirare i controlli, addolcire i servizi di sicurezza. Ed eccoli saltare per aria in mezzo ad un mercato in Turchia, in Iraq o in Africa. Sfruttati due volte: da vivi, indottrinati, arrabbiati e fomentati, e da morti, come martiri, guerrieri irriducibili.
L'azione kamikaze di Gaziantep, durante una cerimonia nuziale, non è il primo né sarà l'ultimo a vedere bimbi "istishhad" di 12-14 anni protagonisti di un massacro. Ingaggiati tra i parenti ed amici nelle comunità, all'interno di una rete terroristica intrecciatasi sotto i comandi Isis in Siria, in modo da agire nella zona curda, la sanguinosa frontiera tra califfato e Turchia.
Bambini che possono agire con maggior facilità di un adulto, ma anche con meno scrupolo. Messi talvolta a bordo di autobombe in Siria ed Iraq, altrimenti lasciati per strada, per colpire durante un evento pubblico, come un matrimonio o una festa di paese.
C'è anche una logica emergenziale dietro il fenomeno. Il Califfato sta arretrando, i buchi nei ranghi aumentano, tutti sono potenziali martiri utili alla causa militare ed al proselitismo; così ogni singolo membro deve essere pronto al gesto estremo per fermare il nemico, conta poco la data di nascita.
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Le immagini del bambino, le grida e la violenza negli occhi iniettati di rabbia catturati da fotografi e video, mostrano un'altro volto, diametralmente opposto, ma non meno tragico, rispetto a quello raccontato in tutto il mondo dallo shock "calmo" del piccolo Omran. E altri ne verranno.
C'è però un'altra guerra in atto, stavolta nel continente africano. Un conflitto ancor più sanguinario di quello mediorientale, verso il quale, però, l'Occidente sembra spesso intenzionato a voltare le spalle o a limitarsi al ruolo di osservatore distaccato. Si tratta delle azioni criminali di Boko Haram, attivi in Nigeria, Camerun, Niger e Ciad. Nel 2014 erano "solo" 4 gli attacchi suicidi con minori, un anno dopo erano ben 44, circa un terzo dei 150 totali. Un attentatore su cinque è un bimbo.
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