lunedì, marzo 28, 2016
Bruxelles nel cuore dell'Europa, Iskanderiyah in Iraq, Lahore in Pakistan sono gli ultimi obiettivi di attentati che, in meno di una settimana, hanno provocato circa 150 vittime e diverse centinaia di feriti.

di Elisabetta Lo Iacono

La folle girandola del fondamentalismo assassino continua a colpire luoghi della quotidianità: aeroporto, metro, stadio, parco giochi. Sotto gli occhi del mondo, talvolta un po' indignati e impauriti, talvolta un po' distratti. Una minaccia e una guerra globale, seppur "a pezzi" come efficacemente detto da papa Francesco. Una guerra alla quale è difficile dare una data di inizio, uno svolgimento territoriale, una chiara paternità, dovendo sempre ragionevolmente ipotizzare delle connivenze che strisciano sinuose e insidiose sotto il terreno economico e politico di chissà quali bande criminali ed equilibri planetari.

Una guerra alla stabilità e alla certezza che il progresso potesse metterci al riparo da tanti pericoli. Una guerra alla pretesa o ipotizzata superiorità dei Paesi più sviluppati.

Questi attentati, al di là delle sfumature nelle loro connotazioni, rappresentano una sorta di livella, per dirla con Totò, che accomuna dinanzi alla morte americani, europei, africani, asiatici, ricchi e poveri. Una globalizzazione della violenza che non conosce confini o stati e che, soprattutto, è incurante del minimo senso di umanità.

Un terrorismo che si arma e parte alla volta dei luoghi della normalità, sulle strade di chi va al lavoro, di chi vuole trascorrere qualche ora allo stadio o al parco giochi con i propri bambini.

La trasversalità dell'esposizione a questo pericolo che si annida in ogni istante delle nostre giornate è evidente, spesso finisce persino per condizionare le nostre scelte su come muoversi e dove andare. Atti che indignano e, se i social network sono ormai lo specchio della società, su ogni bacheca appaiono puntuali bandiere, slogan, hashtag con i vari #iosono e giù i Paesi colpiti. Ma non tutti, in verità. È evidente come si percepiscano maggiormente vicine le stragi compiute non solo nel cuore dell'Europa ma anche oltreoceano, in quegli USA così affini alla nostra cultura e ai nostri modelli di vita. Viene in mente uno dei criteri del giornalismo secondo il quale l'importanza di un fatto scema in misura direttamente proporzionale al crescere della sua distanza dalla porta di casa nostra. Come dire che gli avvenimenti che avvengono nella mia vita o in uno dei cerchi concentrici che si dipanano dal mio microcosmo, destano la propria attenzione e partecipazione emotiva, man mano che questi si allontanano i loro contorni e intensità si fanno sempre più evanescenti.

Da ciò appare chiaro come filino via, nella quasi totale indifferenza, le frequentissime efferatezze compiute da gruppi terroristici in Nigeria ma anche in Afganistan, Yemen, Iraq e in quei Paesi che percepiamo distanti, non solo geograficamente ma anche culturalmente. Sono soprattutto i cristiani le vittime di questa nuova e inquietante "pulizia religiosa". Ma - al di là del credo - si tratta sempre di uomini, donne, bambini, strappati dalle loro vite.

Ciò su cui, forse, è necessario lavorare in questa complicata fase storica è proprio una maggiore prossimità agli altri, alle sorti del mondo, indipendentemente dalle differenze di latitudine, cultura, religione e tradizioni.

Se c'è una cosa da imparare dai terroristi di questo secolo è proprio la trasversalità: come loro rendono carne da macello ogni cittadino che si trovi sulle strade dei loro progetti di morte, così noi tutti dovremmo percepire come affini chi, quotidianamente, cammina per le strade di questo mondo, condividendo un diritto alla vita che non può essere sottoposto a condizioni.

Solo una globabilizzazione della solidarietà, della condivisione e della vicinanza possono permettere di creare una grande catena umana improntata al bene, per resistere e fare fronte a un'insidia planetaria dai contorni disumani.


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