giovedì, febbraio 04, 2016
Sono stati i giorni della grande rabbia a Genova. La rabbia dei lavoratori dell’Ilva di Cornigliano aderenti ai sindacati Fiom e Failms contro la messa in discussione dell’accordo di programma sullo stabilimento ligure risalente al 2005, che, in cambio della chiusura dell’altoforno e delle attività a caldo, garantiva il mantenimento dei livelli occupazionali e la continuità di reddito per i dipendenti dell’azienda. 
 
di Lorenzo Carchini

Sinistraineuropa - Tre giornate di protesta che hanno incassato l’appoggio della segretaria generale della Cgil Susanna Camusso: “La Cgil è al fianco dei lavoratori Fiom dello stabilimento Ilva di Genova e lo sarà anche domani nello sciopero generale dei metalmeccanici” – ha chiarito dopo aver incontrato i manifestanti – “Il nostro obiettivo non è avere la moltiplicazione della mobilitazione ma che il governo si assuma l’onere di dare risposte che oggi nel bando di vendita di Ilva non ci sono”
. Secondo la segretaria “il silenzio del governo preoccupa perché non dice quali siano le intenzioni dell’esecutivo per il futuro di questo gruppo. Un’ulteriore preoccupazione è l’assenza di qualsiasi riferimento dell’accordo di programma per Genova dal bando di vendita. Non è un problema di forma ma di sostanza”.

Tre giorni a Genova: fuori dal Palazzo

Nella giornata di lunedì scorso, gli operai dell’Ilva di Genova, in assemblea permanente, avevano occupato la fabbrica di Cornigliano, avviando manifestazioni nei pressi dello stabilimento. Come spiegato da Bruno Manganaro, leader della Fiom genovese: “Pensiamo che il governo abbia dato uno schiaffo alla città, oltre che ai lavoratori. Il governo vuole vendere Ilva, compreso questo stabilimento: senza dichiararlo sta strappando l’accordo di programma, per questo dobbiamo alzare la voce per difendere reddito, posti di lavoro e stabilimento”. L’occupazione della fabbrica è quindi stata decisa per alzata di mano nell’assemblea convocata da Fiom e Failms, improvvisando successivamente un corteo verso la stazione ferroviaria e bloccando il traffico. Un’iniziativa che, però, aveva spaccato i sindacati. In una nota, il segretario generale della Fim-Cils Marco Bentivogli, confermando la legittimità della Fiom, dichiarava però “inaccettabile che non si consenta di esprimersi a chi ha idee diverse”. In particolare, risultava inammissibile “dichiarare la fabbrica occupata quando metà dei lavoratori sono già entrati nonostante le intimidazioni”. Nel secondo giorno di protesta, martedì, alcuni tra i lavoratori avevano trascorso la notte in fabbrica e si disposti a continuare finché il governo non avesse garantito la presenza dei suoi ministri – nello specifico Guidi o Poletti, titolari dello Sviluppo Economico e del Lavoro – all’incontro fissato per il 4 febbraio al Ministero. Le manifestazioni erano proseguite nella giornata, paralizzando fino alle 16:00 l’intera città, unendo centinaia d’operai, muniti anche di mezzi meccanici, delegazioni delle altre fabbriche e del porto al coro “Ilva Genova” e “l’accordo di programma non si tocca”. Chiaro il commento di Armando Palombo (coordinatore Fiom rsu dell’Ilva): “Ci sono a rischio altri 700 posti di lavoro, Genova ci ha traditi, noi fermiamo la città e siamo pronti ad andare ad oltranza”, dando appuntamento ai lavoratori metalmeccanici per la giornata successiva, in un lungo corteo che avrebbe portato da Cornigliano alla Prefettura. Mercoledì, terzo giorno di protesta, vide l’unione di tutti i metalmeccanici Cgil in piazza Massena, Cornigliano, per lo sciopero generale che ha visto tutte le tute blu del sindacato incrociare le braccia dalle 8 alle 12, in difesa dell’accordo siglato nel 2005. Presenti anche sindacalisti di Filt Cgil, Filctem Cgil, lavoratori di Amiu, studenti ed una delegazione dei camalli della Compagnia Unica Culmv.

Nella mattinata il cammino verso la Prefettura aveva visto anche momenti di forte tensione. Volti tesi e convinti, i lavoratori Ilva erano usciti prima delle 8 dallo stabilimento con caschetti in testa, striscioni, fumogeni e mezzi pesanti in direzione ponente, verso piazza Massena. Alla fine del Lungomare Canepa, nella città blindata, i manifestanti avevano incontrato un blocco di polizia atto a fermare la sfilata dei mezzi pesanti verso il centro, avviando così una complessa trattativa col prefetto Fiamma Spena per valutare la possibilità di continuare il cortei senza di essi. I lavoratori dietro le transenne cominciarono a protestare urlando “Non siamo delinquenti, siamo operai”, seguito da “Vergogna: il diritto di scioperare per il lavoro viene impedito dalle forze dell’ordine” e “Se non c’è lavoro c’è agitazione”, dietro lo striscione “Pact servanda sunt Ilva Genova”. Fortunatamente, la tensione non portò a scontri ed incidenti, con gli operai che protestavano pacificamente ed un’agente (assunta all’onore delle cronache) che, dapprima in tenuta antisommossa, ha tolto il casco e la maschera antigas, stringendo la mano ad un manifestante. Nel frattempo, la mediazione si era portata avanti alla ricerca di una soluzione che non comportasse il blocco dell’intera città. Da un lato il Prefetto chiedeva il blocco dei mezzi pesanti, dall’altro la Fiom chiedeva che la stessa Fiamma Spena garantisse che all’incontro al Mise previsto per il 4 febbraio ci fosse il ministro Guidi in persona o un viceministro, ma non un semplice funzionario. Accordo raggiunto in tarda mattinata, quando la polizia tolse i blindati che bloccavano il corteo, permettendo agli operai di proseguire la propria marcia verso la Prefettura, rinunciando all’uso dei mezzi meccanici in cambio di una dichiarazione scritta del Prefetto. Il corteo di circa duemila lavoratori arrivò, infine, in Prefettura intorno alle 13:00 dove una delegazione du ricevuta da Fiamma Spena, mentre fuori intorno a via Roma, il traffico era stato bloccato con un esteso schieramento delle forze dell’ordine. Poco dopo era arrivata la notizia della lettera ufficiale portata a braccio dal segretario Fiom Bruno Manganaro, secondo la quale un membro del governo (sottosegretario o viceministro) avrebbe partecipato all’incontro di domani, 4 febbraio. I lavoratori sciolsero così il corteo facendo ritorno verso lo stabilimento di Cornigliano. Una momentanea vittoria che, nelle parole di Armando Palombo, “dimostra che era giusto lottare. Abbiamo deciso la lotta con un’assemblea, abbiamo votato per alzata di mano e i fatti ci hanno dato ragione”. Ad usa settimana dagli eventi, però, ancora non ci è dato sapere con certezza chi del governo parteciperà al fatidico incontro. Se in un primo tempo si era fatto il nome di Simona Vicari, fino al 27 gennaio sottosegretario allo sviluppo economico, il suo trasferimento alle infrastrutture il giorno immediatamente successivo, ha puntato i riflettori su Teresa Bellanova, sottosegretario al lavoro ed ex sindacalista Cgil. Una mancanza di conferme che non ha fatto che riaccendere le preoccupazioni dei lavoratori.

Le voci dal Palazzo

Mentre a Genova si era assistito alla mobilitazione operaia, la politica sarà stata almeno in parte sorda, ma non è rimasta immobile, col via libera definitivo dell’aula del Senato al decreto Ilva. L’assemblea in Palazzo Madama ha approvato (157-95) il testo licenziato dalla Camera, rendendolo legge. Tra le modifiche approvate in Parlamento si prevede che le risorse sequestrate al gruppo Riva dovranno essere destinate, alla fine dei procedimenti penali, ad un apposito fondo del ministero dell’Ambiente per le bonifiche e che le somme dovranno essere impiegate per interventi sui territori di Taranto e Statte, ma anche per ulteriori investimenti per la riqualificazione e riconversione produttiva delle aree. Infine, le imprese dell’indotto Ilva potranno beneficiare del Fondo di garanzia per le Pmi “ fino all’80% dell’ammontare dell’operazione finanziaria” a titolo gratuito fino ad un importo massimo di 2,5 milioni per impresa.

Martedì scorso, il Partito Democratico in una nota ha affermato: “Sul caso Ilva bisogna lavorare tutti per abbassare la tensione, che sta superando il livello di guardia e agire per ricomporre un fronte unitario dei lavoratori, dei sindacati e delle istituzioni locali. Arriviamo all’appuntamento del 4 febbraio con alcuni punti fermi: gli investimenti del Governo decisi nel Salva Italia; l’integrazione al reddito dei lavoratori garantita fino al mese di settembre e gli impegni dei Consigli regionale e comunale per garantire un futuro produttivo a Taranto e Genova. […]Il Partito Democratico è impegnato a mettere in sicurezza due aspetti fondamentali: le garanzie occupazionali per i lavoratori e la certezza di una prospettiva industriale per tutta l’Ilva e per il sito di Genova”.

Secondo Lorenzo Basso, membro della commissione Attività produttive della Camera ed ex segretario ligure del Pd, “Quell’accordo è un accordo di legge quindi ha ancora valore ma il tema di fondo è che è un accordo fatto con un’azienda, l’Ilva, che non c’è più. Oggi l’Ilva è in amministrazione straordinaria e un domani – ha auspicato il deputato del Pd – avremo un altro acquirente quindi si tratta di far presente quelle clausole ai soggetti che verranno”.

In conclusione, sul rilancio del gruppo Ilva il governo non intende cambiare strategia. Ai microfoni di Rainews24 il ministro dello Sviluppo Economico Federica Guidi (la cui presenza al Mise il 4 febbraio costituisce uno dei pomi della discordia) ha detto: “Il governo sta continuando a fare quello che ha sempre dichiarato: rimettere velocemente tutto il complesso Ilva sul mercato, rilanciarlo, fare un turnaround complesso e complicato, soprattutto mantenere giusti impegni sull’aspetto ambientale e rilanciare (l’Ilva) senza perdere la strategicità di un impianto siderurgico. Questo vale per tutta l’Ilva non solo per Genova”. Dichiarazioni non particolarmente rassicuranti, dal momento che non viene di fatto tolta l’Ilva dal mercato (anche Paolo Scaroni, vice presidente di Rothschild si sarebbe fatto avanti), anzi il processo risulterebbe “solo accelerato” pur tenendo conto delle “condizioni di contesto che negli ultimi due anni sono molto cambiate: il mondo dell’acciaio e della siderurgia – ha concluso il ministro – è in un buco nero peggiore di quello del 2009”.

Duro quindi anche il compito del governo che, da un lato, dovrà far valere le condizioni e le garanzie degli operai mentre, dall’altro, dovrà trovare un soggetto acquirente che possa rilanciare l’Ilva mettendo dei forti paletti in modo che chi acquisterà non sia soltanto un soggetto economicamente in grado di farsi carico dei debiti contratti ma anche di rilanciare la produzione.

Se, però, il bando di vendita non dovesse andare a buon fine si aprirebbe un problema assai complesso e ricco di conseguenze. Il prestito fatto dallo stato ad un’azienda in amministrazione controllata avverrebbe al di fuori delle normative europee sugli aiuti di stato, accelerando il conflitto fra governo ed Europa, finendo per colpire anche Taranto, dove occorrono gli investimenti maggiori.

Intanto la procura si muove

Succede a Genova, ma il pensiero va, inevitabilmente, a Taranto, nella fabbrica “sorella maggiore” dove la situazione è quella di una irreale calma apparente. Aspettando un futuro incerto e dalle tinte fosche. Nel giorno in cui la Cassa depositi e prestiti ha ufficializzato di aver dato disponibilità a partecipare ad un progetto di rilancio dell’Ilva, la procura di Milano ha iscritto nel registro degli indagati nove persone per la bancarotta dell’Ilva. Secondo Repubblica, oltre ai membri della famiglia Riva, spicca il nome dell’ex prefetto, Bruno Ferrante. Nominato nel 2012 ai vertici dell’azienda come garanzia per una gestione trasparente ed in discontinuità con il management precedente, lasciò l’azienda con Enrico Bondi già nel maggio 2013 dopo il sequestro dello stabilimento di Taranto ed essere finito nel mirino dei magistrati per reati ambientali.

La nuova indagine della procura meneghina è stata aperta nel giungo scorso, cinque mesi dopo la dichiarazione d’insolvenza da parte del Tribunale fallimentare propedeutica alle procedure di amministrazione straordinaria. Il 28 febbraio i giudici fallimentari hanno però rilevato un indebitamento dell’Ilva di oltre 2,9 miliardi di euro, un capitale circolante negativo per circa 866 milioni ed una posizione finanziaria negativa per quasi 1,6 miliardi di euro; decisione impugnata dalla famiglia Riva e dagli azionisti di minoranza Amenduni, secondo i quali lo stato d’insolvenza è imputabile alla gestione commissariale e non all’Ilva come azienda.

La questione è aperta e preoccupante, se piove di quel che tuona.


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