domenica, aprile 13, 2014
Padre Renato Chiera e le “cracolandie” di Rio de Janeiro 

di Paolo Fucili 

Le cracolandie di Rio sono veri e propri “cimiteri di vivi”.. Eppure “mi attrae”, scrive dal Brasile un coraggioso missionario, “questo inferno pieno di Dio”. Descriverle con prosa asettica, piana, parole dai sensi netti e definiti evidentemente non si può; ci vuole l'effetto straniante dell'ossimoro, come lo abbiamo appreso a scuola, lo stridente accostamento di termini che siano per il vocabolario l'uno l'opposto dell'altro.

Padre Renato Chiera non è un raffinato letterato, né scrittore per mestiere. I suoi libri non hanno nulla di “studiato” a tavolino; eppure grondano bruciante passione ad ogni rigo. A volte li detta addirittura via skype a qualche aiutante. Ma chi si immedesima nell'affannata quotidianità di questo anziano prete piemontese, tempra d'acciaio e vulcanica verve, capisce presto perché non potrebbe neppure permettersi il lusso di passare ore su una scrivania ad infiocchettare pagine word.

Dall'inferno un grido per amore”, si intitola l'ultimo, appena uscito dai tipi delle edizioni paoline, che inizia dalla prima visita di padre Renato ad una cosiddetta “cracolandia”, una delle 12 “fisse” (più altre 6 “itineranti”) che punteggiano la sterminata Baixada Fluminense, agglomerato di povere periferie e città “satelliti” dell'enorme Rio de Janeiro. Squallidi spiazzi ai margini delle grandi arterie stradali che solcano la megalopoli “carioca”, ai margini pure delle già degradate favelas. Là si rifugiano, accomunando le proprie disperazioni, i drogati della droga più devastante che ci sia in commercio in Brasile, il crack. Buttati per terra, sotto precari rifugi di plastica e cartone, non mangiano né bevono. L'unico pensiero è procurarsi la “pietra”, derivato della cocaina arricchito con cherosene, calce, soda caustica, acido solforico, da bruciare in bicchieri o rudimentali pipe per aspirarne il fumo, che si può oppure inalare sminuzzandolo e mescolandolo a tabacco o marijuana.

La circostanza fu del tutto casuale: una “deviazione” proposta da un giovane che accompagnava un giorno padre Renato in auto verso il centro città. “Imparo subito che non posso dare denaro, perché si trasformerebbe in droga”. Ma i “cracudi”, una volta abbattuto il muro dell'indifferenza rabbiosa che li circonda, chiedono soprattutto attenzione, ascolto, amore. Frammenti di dialoghi colti qua e là fan risaltare il realismo crudo del racconto:“è già entrato qualcuno in questa cracolandia per vedere come state?”. “Padre, qui ci vieni solo tu e la polizia, ma per sparare”.

Magri, sporchi, emaciati, uomini e donne sono perennemente chini sui bicchieri ad aspirare il veleno che lentamente li ucciderà. La dipendenza è una trappola che scatta subito crudele. Ogni misero soldo racimolato finisce in pietra da bruciare per stordirsi e sopravvivere fino alla prossima dose. La prostituzione dilaga, giacché le giovani donne son disposte a tutto. La violenza estrema è pane quotidiano anch'essa. Padre Renato racconta di aver salvato lui, implorando il narcotrafficante che già lo puntava con la pistola, un cracudo giovanissimo colpevole di aver rubato un cellulare.

Inutile cercare riferimenti di tempo e luogo, tutti sparsi e piuttosto frammentari. Ma fossero stati anche frequenti e dettagliati, forse non direbbero granché, almeno al lettore italiano. La narrazione non “brilla” per ordine, aggrovigliati come sono i suoi fili. In compenso, ed è quel che importa, è come se ti inebriasse anch'essa, come il crack che brucia, attorcigliandoti lo stomaco.

L'autore del resto non è nuovo a simili “discese agli inferi” del Brasile che nulla ha a che vedere coi banali stereotipi in voga, tipo calcio e samba. Delle 72 primavere che conta, 47 da prete, 36 ne ha passate laggiù da missionario fidei donum, stabilendosi a Nova Iguacù, a qualche decina di chilometri dal centro di Rio. Il battesimo del fuoco fu l'uccisione brutale di un ragazzino sulla porta di casa sua. “Fin da piccolo”, ricorda in un breve inciso autobiografico, “volevo essere come don Bosco, ma non sapevo cosa significasse: poi alcuni fatti mi illuminarono”. E' diventato l'apostolo dei meninos de rua, i “bambini di strada” che accolse fondando la Casa do Menor, salvandone migliaia da una vita di emarginazione, miseria e violenza, avviandone 45.000 almeno, è stato calcolato, ad un mestiere che garantisse loro un futuro. “Abbiamo sentito molte grida per fame, casa, scuola, famiglia, lavoro, futuro, ma ben presto abbiamo scoperto che il clamore più grande è per essere figli, per la presenza di qualcuno che li ami”, è la sintesi di quasi 30 anni di attività, raccontati in altri libri dalla sua fervida penna e in interviste, incontri, testimonianze pubbliche nel corso di periodici rientri in Europa e in Italia, in cerca di sostegno alla causa dei meninos de rua ieri e delle cracolandie oggi.

E il “nesso”, tra i due “inferni”, sta non solo nel fatto che tra i “dannati” del secondo ci sono anche bambini e adolescenti, i più scontrosi e difficili da avvicinare, si impara con dolore leggendo. “Siamo disperati, ci sentiamo rigettati da tutti”, dice una donna, “nessuno più ci sopporta, famiglia, amici, società”. “La dilagante diffusione della droga”, riflette Chiera, “è un segno di una società ammalata, profondamente svuotata, che ha estromesso Dio, l'amore, la gratuità e vuole ubriacare i giovani con cose e piaceri che non corrispondono alla sete di assoluto che c'è in tutti”. O ancora, “la nostra esperienza a fianco di chi non si sente amato ci dice che la maggior parte dei tossicodipendenti proviene da famiglie spezzate, quasi inesistenti, ferite, violente perché a loro volta violentate e abbandonate...”.

Nelle sue periodiche visite in cracolandia, indossa sempre tunica bianca e un curioso cappellino da baseball. Struggente il racconto di una notte di Natale con improvvisato “presepe vivente” e distribuzione di doni, oppure la notte trascorsa tra i cracudi di Manguinhos prima di celebrare la messa di Pasqua, la mattina successiva, in una parrocchia della lontana (in tutti i sensi) Copacabana, il quartiere delle spiagge vip. Dove questo energico prete trovi tutta questa energia, detto per inciso, Dio solo lo sa.

Ad accoglierlo fu la minacciosa scritta, vergata su un muro, “Bem vindo ao inferno”. “Mi sento come in una cattedrale in adorazione di ostie vive e sanguinanti”. L'indomani se ne andò inseguito dall'urlo di un uomo, “portaci Dio, portaci Dio...”. “In quarantasette anni di prete, mi ha mai gridato questo tra la gente perbene”. Altro squarcio di “missione” nelle periferie delle periferie, quelle care al nostro amato Francesco, è il racconto di una messa di suffragio per un defunto celebrata tra uomini e donne chini tutti indifferentemente sui fumi del crack. “Sono proprio contento”, pensa tra sé il celebrante. “di essere prete e poter comandare a Gesù di venire nell'ostia e di essere presenza nella cracolandia...”.

Gli “insuccessi” che pure non mancano, le “fughe” nascoste di chi era stato faticosamente tirato fuori da lì, ma è di nuovo risucchiato, non lo turbano: “abbiamo imparato ad amare senza aspettarci niente”. Semmai gli provocano sdegno le operazioni violente di polizia per “ripulire” le cracolandie, col solo effetto di spostarle in luoghi dove la loro vista è ancora più evidente, agli occhi di coloro cui si vorrebbe al contrario nascondere quello spettacolo. Il Brasile, rampante potenza economica, e Rio in particolare sono tutte proiettate su Mondiali di Calcio ed Olimpiadi, quando non saranno ammesse, nell'ottica di politici e amministratori, brutte figure. “Vorrei che questi poveri cracudos fossero dei cani”, commenta amaro padre Renato; “tutta l'umanità e soprattutto la protezione degli animali si alzerebbe indignata per gridare allo scandalo e per proteggerli”.

Si consiglia vivamente la lettura per intero, compresa l'ispirata prefazione, a firma di Chiara Amirante: “Padre Renato consegna a ciascuno di noi le lacrime di tanti piccoli abbandonati nei deserti delle nostre città con la certezza che l'amore è più forte, l'amore vince. Solo l'amore può salvare il mondo”.


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