giovedì, ottobre 11, 2012
Sì, Dio «ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato»: ma noi ora «come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?»
 
di Carlo Mafera

L’8 ottobre 2012, nel corso della prima Congregazione generale del Sinodo dei Vescovi, Benedetto XVI ha proposto ai padri sinodali una meditazione divisa in due parti. La prima ha approfondito il significato della parola «evangelium» «euangelisasthai» (cfr. Lc 4,18). La seconda ha commentato l’Inno dell’Ora Terza “Nunc, Sancte, nobis Spìritus”, che i padri avevano recitato.
È interessante fare un approfondimento sulla seconda parte, dove viene messo in evidenza il ruolo dello Spirito Santo nel tempo della Chiesa che stiamo vivendo attualmente. Sì, Dio «ha veramente rotto il grande silenzio, si è mostrato»: ma noi ora «come possiamo far arrivare questa realtà all’uomo di oggi, affinché diventi salvezza?». A questa domanda il Pontefice ha risposto nella seconda parte della sua meditazione, dedicata all’Inno dell’Ora Terza “Nunc, Sancte, nobis Spìritus”. A partire dalla prima strofa: «Dignàre promptus ingeri nostro refusus, péctori», «preghiamo affinché venga lo Spirito Santo, sia in noi e con noi». Questa prima strofa dell’inno ci dice qualcosa di decisivo e perfino ci ammonisce con severità: «Noi non possiamo fare la Chiesa, possiamo solo far conoscere quanto ha fatto Lui. La Chiesa non comincia con il “fare” nostro, ma con il “fare” e il “parlare” di Dio».

Come in concreto proceda questa cooperazione «teandrica» della Chiesa con Dio è descritto nella seconda strofa dell’Inno: «Qui – nota il Papa – abbiamo, in due righe, due sostantivi determinanti: “confessio” nelle prime righe e “caritas” nelle seconde due». Inoltre, «sono aggiunti i verbi: nel primo caso “personent” e nel secondo “caritas” interpretato con la parola fuoco, ardore, accendere, fiammeggiare».

La riscoperta della profezia biblica, come in quella dei carismi in genere, si ha con il Concilio Vaticano II. Con il suo accento sulla Chiesa-popolo di Dio, il concilio ha ricreato uno spazio per la dialettica fra istituzione e carisma e ha rimesso in luce il carattere profetico di tutto il popolo cristiano. Cristo, dice un testo conciliare, compie il suo ufficio profetico nella Chiesa “non solo per mezzo della gerarchia, la quale insegna in nome e con la potestà di Lui, ma anche per mezzo dei laici che perciò costituisce suoi testimoni”.

La riscoperta del prezioso ruolo dei laici, con l’enciclica Christifideles Laici, rappresenta una grande novità, dopo le intuizioni del Concilio Vaticano II. Questi promuovono la Parola di Dio in un modo straordinario, perché se il sacerdote può raggiungere un certo numero di fedeli, questi a loro volta, anche con l’uso dei moderni mezzi di comunicazione, o con quei movimenti spontanei che nascono dal basso ma sono comunque legati alla gerarchia e alla tradizione ecclesiastica, possono raggiungere una sconfinata moltitudine di cosiddetti lontani. Questo processo è simile a quella della fissione nucleare dove la divisione degli atomi procede praticamente all’infinito.

Quindi come si svolge questo processo di diffusione della Parola? Con la “Confessio”e con la “Professio”: «confessionem personent». Questo ci indica che «la fede ha un contenuto» che si tratta di confessare, non è solo un sentimento o un’emozione: «Dio si comunica, ma questo Io di Dio si mostra realmente nella figura di Gesù ed è interpretato nella “confessione” che ci parla della sua concezione verginale della Nascita, della Passione, della Croce, della Risurrezione». Noi non possiamo e non dobbiamo reinventare il contenuto della fede: «Dobbiamo entrare in questa “confessione”, farci penetrare, così che “personent” – come dice l’Inno – in noi e tramite noi. La “confessio” non è qualunque cosa che si possa anche lasciar cadere; la “confessio” implica la disponibilità di dare la mia vita, di accettare la passione». Chi prende sul serio queste parole dimostra che «veramente quanto confessa è più che vita: è la vita stessa, il tesoro, la perla preziosa e infinita». La credibilità piena e totale si mostra «solo per una realtà per cui vale la pena di soffrire, che è più forte anche della morte, e dimostra che è verità che tengo in mano, che sono più sicuro, che “porto” la mia vita perché trovo la vita in questa confessione».

A questo punto è opportuno dire qualcosa sugli “ingredienti” umani della testimonianza e della profezia, cioè sulle disposizioni d’animo che ne favoriscono l’esercizio. In altre parole, cosa dobbiamo fare perché il carisma profetico possa “ravvivarsi” in noi. Il primo requisito è la preghiera. Abbiamo sentito cosa dice Gesù agli apostoli: “Anche voi mi renderete testimonianza, perché siete stati con me fin dal principio”. Bisogna prima essere stati “con Gesù”, in ascolto e in contemplazione del suo volto per percepire le sue parole e intravedere i suoi disegni. Senza preghiera, niente profezia!

Ma oltre a ciò si devono mettere in evidenza altri due altri requisiti, anch’essi vitali: umiltà e amore. Il profeta è uno che “mentre parla, tace”, cioè scompare per far posto a un’altra voce. La ricerca della propria gloria spegne la profezia, come la sabbia e la polvere che si gettano sulle fiamme e le soffocano. Al contrario, la rinuncia alla propria gloria dà via libera allo Spirito.

Sono presenti 0 commenti

Inserisci un commento

Gentile lettore, i commenti contententi un linguaggio scorretto e offensivo verranno rimossi.



___________________________________________________________________________________________
Testata giornalistica iscritta al n. 5/11 del Registro della Stampa del Tribunale di Pisa
Proprietario ed Editore: Fabio Gioffrè
Sede della Direzione: via Socci 15, Pisa