giovedì, marzo 15, 2012
Nel ciclo di articoli incentrato su grandi figure femminili, il ricordo di una donna che ha combattuto nel fango delle trincee durante la guerra civile spagnola

di Paola Bisconti

Le battaglie di Moncloa, di Pineda de Humera, di Siguenza, di Cerro del Alguira sono state comandate dalla “capitana” Micaela Feldman de Etchebéhère. Il nomignolo attribuito all’unica donna che guidò una milizia durante la guerra civile spagnola rispecchia le caratteristiche di una personalità sui generis: bella, colta e raffinata, aveva la stessa forza di un uomo e la determinazione di un soldato che combatte con eroismo. Ha vissuto fra l’Europa e il sud America dove trovò riparo quando le truppe franchiste invasero Madrid. A causa delle sue origini ebraiche temeva le persecuzioni e scappò prima in Francia per poi raggiungere l’Argentina. Qui avvenne l’incontro fulminante con Luis Ernesto Hippolyte Etchebéhère, il suo futuro marito.

Entrambi frequentavano gli ambienti culturali argentini, e si conobbero durante una riunione organizzata dalla rivista letteraria “Insurrexit”. Mika aveva 17 anni e lui 19, insieme volevano rifare il mondo. Dopo gli studi presso l’Università di Buenos Aires hanno collaborato con il gruppo marxista non dogmatico per poi aderire, nel 1924, al Partito Comunista, che però iniziò presto a sostenere Trotzky e Stalin. Mika così decise di abbandonare il gruppo che non rispecchiava più la sua ideologia politica e nel 1936, anno in cui scoppiò la guerra civile spagnola, si unì al Poum, la società anarchica. I sostenitori del Partito di Unificazione Marxista combatterono contro il golpe di Francisco Franco ma durante questa lotta, nella battaglia di Guadalajara, in Atienza, Hippolyte fu colpito da un fascista e perse la vita. Mikusha, come la chiamava il suo amato compagno, ha continuato a lottare attraversando le trincee con le mani e le guance nel fango.

Nata nel 1902, Mika era figlia di immigrati russi; il padre insegnava la lingua yiddish in una colonia ebraica. Durante l’infanzia aveva ascoltato le storie dei rivoluzionari russi fuggiti dalle prigioni siberiane. A soli 15 anni entrò in contatto con un gruppo di anarchici. Ha studiato odontoiatria in Patagonia, dove ha visto con i suoi occhi il massacro dei contadini e dei gauches da parte dei militari ha curato i denti dei campesinos. In Argentina ha collaborato con alcuni giornali di sinistra come “Libre”. In Francia ha lavorato come traduttrice e si è stabilita per anni, fino all’ultimo giorno della sua vita: aveva 90 anni quando nel 1992 è morta e il suo corpo è sepolto nel cimitero Père-Lachaise.

Prima di spirare, nel 1975, Mika ha pubblicato la sua biografia “Ma guerre d’Espagne à moi”. Ora, dopo tanti anni, un nuovo libro ci ricorda questo splendido personaggio: “La Miliziana” scritto da Elsa Osorio, edito da Guanda. Il testo intende omaggiare la storia d’amore fra Mika e Hippolyto ricostruendo lo scenario storico e bellico che hanno vissuto e condiviso. Altre figure maschili emergono fra le pagine come Jan Well, agente del Pcus in Germania, e Andrei Kozlov, consigliere sovietico in Spagna. Entrambi erano innamorati di Mika, con una passione ossessiva che mette in risalto la straordinarietà della miliziana.

La donna che ha vissuto gli anni in cui la Germania hitleriana e l’Italia fascista sostenevano la dittatura di Francisco Franco ha suscitato l’ammirazione da parte dell’esercito che combatteva contro il regime. In lei, infatti, vedevano una sorta di leggenda vivente. Era amata da Borges e Cortàzon, era temuta come la più pericolosa rivoluzionaria, era rispettata dai bambini per le amorevoli cure ed era stimata dai soldati per il coraggio che dimostrava. In trincea leggeva alle truppe Dumas e Salgari, è stata maestra di coro e insieme ai suoi soldati cantava per rispondere agli insulti dei nemici. L’ultima battaglia l’ha combattuta nel 1968, a fianco dei sampietrini che nello storico maggio francese protestarono contro il capitalismo e il potere gollista. Mika sosteneva i principi dell’insurrezione e consigliava agli studenti che manifestavano di indossare i guanti bianchi. In caso di fermo le loro mani sarebbero rimaste immacolate come quelle dei “bravi ragazzi”...

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