“Per i malati terminali, affinché nelle loro sofferenze siano sostenuti dalla fede in Dio e dall’amore dei fratelli”: è questa l’intenzione di preghiera generale di Benedetto XVI per il mese di ottobre.
Sul binomio fede-amore nella cura dei malati, Alessandro Gisotti ha raccolto la riflessione del prof. Vincenzo Saraceni, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani: ascolta
R. – Il medico, quando incontra un sofferente, fa una scoperta della propria fragilità e quindi avverte il dovere di avere solidarietà nei confronti di quel malato. Io credo che per quanto riguarda la disponibilità alla solidarietà e all’amore del fratello che in quel momento si trova in condizione di fragilità possiamo sperare nella convergenza di tutti. Certo, la fede è invece un fatto personale, un fatto che aggiunge qualcosa in più, e questo riguarda in particolare i medici cattolici.
D. – Anche nella Spe salvi, la seconda Enciclica di Benedetto XVI, c’è una sottolineatura sull’amore, sull’amore che salva…
R. – Da medico, credo di poter dire che ogni domanda di salute che il malato fa è anche una domanda di salvezza e noi dobbiamo distinguere fra guarigione e salvezza. Molte volte guariamo ma non sempre salviamo. Possiamo ricordare la parabola dei lebbrosi. Di dieci, uno solo tornò indietro e gli fu chiesto: dove sono gli altri nove che erano stati guariti? Ma a lui fu detto: va perché la tua fede ti ha salvato. Io credo che all’interno del nostro agire medico ci sia una prospettiva di salvezza che è l’accettazione della propria condizione di malattia o possibilmente di morte. Credo che questo lavoro sia importante: si può guarire anche quando si riesce a far accettare al malato la propria condizione di fragilità e il proprio destino.
D. – Il Papa ha messo più volte in guardia dai rischi che una società efficientista possa portare a oscurare il valore innato della persona. Questo è ancor più vero nel caso di persone malate che si avvicinano alla morte?
R. – Questo è ancor più vero intanto perché la medicina sta assumendo un orientamento di neutralità nei confronti della morte, nei confronti del dolore, e la neutralità è favorita dallo schermo tecnicistico e tecnologico sempre più presente nella nostra attività medica. Dobbiamo sperare di poter superare questo schermo e andare invece al cuore del problema, che è l’incontro con la persona malata.
D. – Sul cosiddetto “fine vita” il dibattito nelle società occidentali è molto acceso. Quali sono secondo lei i riferimenti che non dovrebbero mai essere trascurati?
R. – Direi che il riferimento essenziale sia la dignità della persona umana e mi piace sottolineare che la dignità della persona umana è un fatto assoluto in sé, che fa parte di qualunque uomo, ma sta soprattutto nella relazione tra il medico, il personale sanitario, e il malato. Molti malati riferiscono di essersi sentiti indegni da come venivano guardati o da come non venivano guardati. Credo che il tema della relazione come fondamento della dignità del malato sia un tema che vada approfondito.(bf)
Sul binomio fede-amore nella cura dei malati, Alessandro Gisotti ha raccolto la riflessione del prof. Vincenzo Saraceni, presidente dell’Associazione Medici Cattolici Italiani: ascoltaR. – Il medico, quando incontra un sofferente, fa una scoperta della propria fragilità e quindi avverte il dovere di avere solidarietà nei confronti di quel malato. Io credo che per quanto riguarda la disponibilità alla solidarietà e all’amore del fratello che in quel momento si trova in condizione di fragilità possiamo sperare nella convergenza di tutti. Certo, la fede è invece un fatto personale, un fatto che aggiunge qualcosa in più, e questo riguarda in particolare i medici cattolici.
D. – Anche nella Spe salvi, la seconda Enciclica di Benedetto XVI, c’è una sottolineatura sull’amore, sull’amore che salva…
R. – Da medico, credo di poter dire che ogni domanda di salute che il malato fa è anche una domanda di salvezza e noi dobbiamo distinguere fra guarigione e salvezza. Molte volte guariamo ma non sempre salviamo. Possiamo ricordare la parabola dei lebbrosi. Di dieci, uno solo tornò indietro e gli fu chiesto: dove sono gli altri nove che erano stati guariti? Ma a lui fu detto: va perché la tua fede ti ha salvato. Io credo che all’interno del nostro agire medico ci sia una prospettiva di salvezza che è l’accettazione della propria condizione di malattia o possibilmente di morte. Credo che questo lavoro sia importante: si può guarire anche quando si riesce a far accettare al malato la propria condizione di fragilità e il proprio destino.
D. – Il Papa ha messo più volte in guardia dai rischi che una società efficientista possa portare a oscurare il valore innato della persona. Questo è ancor più vero nel caso di persone malate che si avvicinano alla morte?
R. – Questo è ancor più vero intanto perché la medicina sta assumendo un orientamento di neutralità nei confronti della morte, nei confronti del dolore, e la neutralità è favorita dallo schermo tecnicistico e tecnologico sempre più presente nella nostra attività medica. Dobbiamo sperare di poter superare questo schermo e andare invece al cuore del problema, che è l’incontro con la persona malata.
D. – Sul cosiddetto “fine vita” il dibattito nelle società occidentali è molto acceso. Quali sono secondo lei i riferimenti che non dovrebbero mai essere trascurati?
R. – Direi che il riferimento essenziale sia la dignità della persona umana e mi piace sottolineare che la dignità della persona umana è un fatto assoluto in sé, che fa parte di qualunque uomo, ma sta soprattutto nella relazione tra il medico, il personale sanitario, e il malato. Molti malati riferiscono di essersi sentiti indegni da come venivano guardati o da come non venivano guardati. Credo che il tema della relazione come fondamento della dignità del malato sia un tema che vada approfondito.(bf)
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