martedì, novembre 07, 2017
Politico, studioso, terziario domenicano e francescano, costruttore di pace. Di lui il cardinal Benelli disse: «Nulla può essere capito se non è collocato sul piano della fede»

Marco Roncalli, Firenze

Vatican Insider - Non sta passando inosservato e non solo nella «sua» Firenze, la città cui lui aveva dato un ruolo internazionale, il quarantesimo anniversario della morte di Giorgio La Pira: politico, studioso, terziario domenicano e francescano, costruttore di pace, mancato il 5 novembre 1977 in un «sabato senza vespri» come aveva scritto in un lettera. Quattro decenni fa come oggi - 7 novembre - ai suoi funerali in Duomo, accompagnati da una processione interminabile di amici ed estimatori di ogni credo religioso e politico, arrivati anche da lontano, il cardinal Giovanni Benelli affermò: «Nulla può essere capito di Giorgio La Pira se non è collocato sul piano della fede». No. Non è un caso se Giovanni Paolo II nel 1994 lo collocò unico contemporaneo insieme a De Gasperi nella sua preghiera «Per l’Italia e con l’Italia». Come non a caso alla sua morte, su un quotidiano romano - poco tenero con lui in vita - si poteva leggere questo pezzo inatteso:

«Oggi il povero La Pira, questa complessa, contraddittoria figura di uomo, che sarà da tutti ricordata per l’altezza morale, quella che ne riscatta tutte le irrequietezze e le stramberie, si è liberato dei grandi affanni della sua vita: la troppa miseria diffusa nel mondo e la pace sempre più turbata e minacciata, tra gli stati e all’interno degli stati. Auguriamogli che, se c’è un aldilà, possa vedere realizzati i grandi ideali per i quali la sua vita si è consumata e spenta, come un cero liquefatto dal suo stesso ardore».

Domenica scorsa nella basilica di San Marco (dove le sue spoglie, dieci anni fa, sono state traslate dal cimitero di Rifredi) è stato l’arcivescovo di Firenze cardinale Giuseppe Betori a presiedere la Messa solenne del quarantennale e non sono pochi gli appuntamenti - già realizzati o in programma- «in memoriam».


Come la lettura dei «Folli» - atto unico di Rodolfo Doni - nel pomeriggio del 10 novembre nel Cenacolo di Santa Croce, oppure il convegno «La triplice famiglia di Abramo» il 14 dicembre a Palazzo Medici Riccardi. Il «sindaco santo» è pure al centro della nuova edizione di «Unity in diversity», la conferenza internazionale dei sindaci promossa dal Comune di Firenze (proprio sull’esempio di quelle organizzate da La Pira negli anni Cinquanta) che si apre oggi a Firenze e si conclude domani in Vaticano, su invito della Pontificia Accademia di Scienze sociali. Ma La Pira sabato scorso, 4 novembre, è stato ricordato anche in Calabria, nella cattedrale di Cassano allo Jonio dal vescovo Francesco Savino, e il giorno dopo alla seconda edizione del Forum «Vivre ensemble» da Agnès Brot a Cannes. Lo sarà in un incontro di studi il 25 novembre a Civita Castellana e due giorni dopo all’Università di Bari o il 2 dicembre ad Alghero. Senza dimenticare, appunto, le manifestazioni già svoltesi, in Italia (da Motta di Livenza a Palermo, da La Verna a Chieti) o all’estero (persino all’Università Nanzan di Nagoya, in Giappone) negli ultimi tre mesi.


Non solo. Proprio in occasione di questo anniversario in diverse sedi si sono registrati aggiornamenti sulla causa di beatificazione di La Pira aperta nel 1986 e la cui fase diocesana si è conclusa nel 2005. Una causa per la quale l’auspicio è che ora «possa esserci un’accelerazione» ha dichiarato Betori: almeno per il riconoscimento delle virtù eroiche e il conferimento del titolo di venerabile. Del resto, benchè ci siano ancora passi da compiere, non è una novità che non pochi lo preghino già, senza attendere il verdetto della Chiesa, chiedendone l’intercessione, come testimoniano i messaggi affidati al quaderno accanto alla sua tomba.



Ma chi è stato davvero questo siciliano nato a Pozzallo il 9 gennaio 1904 , arrivato a Firenze nel 1926 per laurearsi e lì rimasto di fatto tutta la vita, che nella sua vita ha sempre lasciato aperti quelli che per lui erano i due veri libri sacri, il tempo presente e la Bibbia?

Chi è stato questo umanista convinto del diritto per tutti - ma soprattutto per i poveri- al pane e all’Eucarestia, alla fede come alla conoscenza? 
Difficile farne un ritratto senza recuperarne – insieme - la duplice passione per Dio e i fratelli, nutrita dalla preghiera. Sfogliando un albo ideale incontriamo il ventenne La Pira, dopo la crisi religiosa della prima giovinezza mentre scrive a padre Gemelli «quale dolce ideale non aver nel cuore che il Signore e non vivere che di Lui e per Lui!». Si sovrappongono presto le immagini del giovane professore pronto a palesare la sua distanza da ogni totalitarismo e da ogni pratica di discriminazioni, quelle del giurista Docente di Diritto romano che sulla sua rivista Principi fa ornare il sintagma caro a Pio XI «unità del genere umano», quelle del professorino nella Costituente e del Deputato alla Camera (legato particolarmente a Lazzati, Dossetti, Fanfani...), del sindaco nel capoluogo toscano, poi di nuovo del parlamentare.

Strano protagonista della politica che la considerava un impegno di umanità e santità, tale da «potere convogliare verso di sé gli sforzi di una vita tutta tessuta di preghiera, di meditazione, di prudenza, di fortezza, di giustizia e di carità». E strano democristiano che confidava di avere solo una tessera «quella del battesimo». Ecco poi il profilo dell’uomo vissuto da povero pensando ai poveri, già animatore nella Conferenza di San Vincenzo, che ai più bisognosi volle dare anche dignità. Ecco il profeta di pace e il pioniere dell’incontro dei popoli: a partire dai «Colloqui» organizzati nella «città del Fiore» a favore del dialogo internazionale e dei negoziati per superare i conflitti. Figura di un mondo e di un tempo che probabilmente non c’è più. Uomo dalla fama di visionario utopista («Sogniamo, ci illudiamo? Siamo utopisti?», è del resto la domanda intermittente in tante lettere), che agli occhi di parecchi sembrò scambiare spesso la realtà del presente con il futuro desiderato.

Nelle sequenze che ci riportano a La Pira, non mancano i tre Papi del suo tempo (Pio XII, Giovanni XXIII, Paolo VI), destinatari di valanghe di lettere; e tanti leaders incontrati per individuare nuovi modelli di sviluppo per l’Italia e i paesi sulla via della decolonizzazione, leaders ai quali chiese di condividere il suo sguardo sull’Europa - «leva di Archimede» dall’Atlantico agli Urali, destinata a sollevare il mondo «verso il monte dell’unità», o su quel Mediterraneo oggi cimitero di migranti invece che - come nel suo sogno - il «grande lago di Tiberiade» punto di attrazione delle nazioni. E a questo proposito non vanno dimenticate le speranze irrealizzate sulla necessità - condivisa con Martin Buber - di una soluzione federale arabo-ebraica per la pace in Medioriente.

La verità è che, quando si ha a che fare con La Pira, si affaccia spesso la difficoltà di separare il politico dalla persona spirituale, di scomporne visione storica e teologica, di vagliare conseguenze di tesi come «civiltà cristiana» e «comune figliolanza abramitica». Non era lui del resto l’uomo capace di parlare con Krusciov al Cremlino della Madonna? Di abbracciare Ho Chi Minh e Pham Van Dong, ad Hanoi e idealmente lo stesso John Kennedy.? «La geografia della grazia condiziona la storia dei popoli!», scrisse al teologo francese Jean Daniélou il 5 aprile 1960. A quella storia La Pira guardò con lucidità. Viaggiando ripetutamente, mediando, tessendo relazioni senza confini, sempre pronto a condividere pezzi di strada. Il cammino di un profeta del ’900 che ha indicato - come ha affermato Daniele Menozzi aprendo una raccolta di saggi- «la possibilità di trarre dal messaggio cristiano gli anticorpi necessari ad opporsi, pur senza abbandonare la prospettiva finale di una unitaria ricomposizione delle differenze religiose, a quelle tendenze storiche in cui la convivenza civile pare volgersi alla cancellazione violenta dell’alterità».

Ora che le celebrazioni di rito si susseguono, resta forse da interrogarsi su cosa resta davvero di questo cattolico devotissimo, per taluni sin troppo papista, o troppo mariano, al contempo accusato di essere - come scriveva don Giuseppe De Luca nel ’61 - una specie di «Fidel Castro» italiano. Di fatto, già sei anni prima, Gedda (anticomunista come lui ma distante: per sensibilità religiosa e approccio politico) a proposito di La Pira, affermava: «Addormenta e sconnette il fronte anticomunista della Chiesa cattolica, sbugiarda la “Chiesa del Silenzio”, avvelena le organizzazioni cattoliche come l’Università Cattolica …, alcuni settori dell’Azione cattolica,… le Acli».

E lo stesso cardinal Montini, restando a quel ’61 manifestò come la sua sensibilità ecclesiastica e quella carismatica lapiriana non coincidessero («alcune volte il suo modo d’interpretare i fenomeni del nostro tempo in senso teologico e teleologico mi sembra troppo ottimista», così il 21 marzo ’61). Come ha spiegato Andrea Riccardi introducendo il carteggio fra La Pira e Paolo VI curato da Augusto d’Angelo dal bel titolo «Abbattere muri, costruire ponti», il disegno montiniano per il futuro della Chiesa «era chiaramente riformatore e richiedeva gradualità e creazione di consenso»; per La Pira, invece «il tempo della decisione e dell’intervento era l’oggi e subito»: questo nel respiro di un cattolico che viveva una dimensione del mondo senza frontiere, lanciato in iniziative a servizio della Chiesa benché mai integrate nella diplomazia vaticana. È un altro aspetto su cui occorrerà riflettere in termini più vasti, tra strategie fallite ed esiti raggiunti.

Sorprende a ogni modo la libertà di questa voce singolare del ’900 che alla metà del secolo scorso, nell’immediato dopoguerra, si era già costruito una gerarchia di valori, scegliendo l’«umanesimo della trascendenza e della grazia» sull’«umanesimo antropocentrico e terrestre» e che più tardi avrebbe visto nel Concilio voluto da Giovanni XXIII e portato avanti da Papa Montini «lo strumento più prezioso ed adeguato per realizzare (sia pure in prospettiva) il fatto fondamentale che definisce la nuova epoca storica della Chiesa e dei popoli: l’unità della Chiesa!» (così a Paolo VI il 9 luglio ’63). Convinto sì di una felicità dell’uomo che deve iniziare già sulla terra (soddisfatta almeno nei bisogni primari della persona nella prospettiva del bene comune), derivante però da qualcosa di più grande. Convinto dunque di un destino sociale del Vangelo, e così abbandonato alla Parola che durante la crisi della Pignone (che stava portando ai licenziamenti) telegrafò a Roma: «cambiate la legge, io non posso cambiare il Vangelo». A ben guardare forse sta qui quell’ umanesimo cristiano di La Pira, tra profezia e storia, e quel suo ottimismo cristiano che lo portava a sostenere con certezza - come sintetizzava il poeta Mario Luzi - «Dio c’è, la Provvidenza esiste, noi abbiamo la fortuna di essere qui».


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