domenica, settembre 14, 2014
In questa seconda puntata della serie dedicata al “piccolo” giudice vogliamo approfondire uno dei temi più cari al nostro magistrato, vale a dire il rapporto tra fede e diritto quali dimensioni distinte, ma al tempo stesso complementari, dell’animo umano e il reciproco intrecciarsi della sfera religiosa e di quella giuridica (di cui troviamo traccia sia nell’Antico Testamento che nei Vangeli) tanto nella comunità statale quanto in quella ecclesiale. (articoli precedenti)

di Bartolo Salone

Rosario Livatino affronta il tema indicato nel discorso “Fede e diritto”, tenuto nel 1986 presso la sala conferenze delle suore vocazioniste di Canicattì. Sostiene il nostro giudice che, al di là delle apparenze, alla prova dei fatti le due realtà (fede e diritto) risultano interdipendenti, in reciproco contatto, sottoposte ad un continuo confronto, “a volte armonioso, a volte lacerante, ma sempre vitale, sempre indispensabile”. L’interdipendenza tra queste due dimensioni dell’animo umano, secondo Rosario, è resa evidente sia dalla innegabile presenza di un momento fideistico nell’ordinamento giuridico sia dalla altrettanto innegabile presenza del momento giuridico nella sfera fideistica e nell’organizzazione ecclesiastica.

Quanto alla presenza del momento fideistico nell’ordinamento giuridico, basti considerare le numerose norme con le quali la legislazione penale, civile, amministrativa e processuale riconosce rilevanza al fattore religioso e, ancor prima, gli articoli che la nostra Costituzione dedica al fenomeno religioso: l’art. 7, il quale esordisce che “lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani” e che i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi; l’art. 8, che riconosce l’eguale libertà di tutte le confessioni religiose davanti alla legge e il loro diritto “di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano”; l’art. 19, che riconosce a tutti “il diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma, individuale od associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume”; infine l’art. 20, il quale, memore delle vessazioni subite dagli enti ecclesiastici in età liberale a causa delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico, garantisce per l’avvenire che “il carattere ecclesiastico e il fine di religione o di culto di una associazione od istituzione non possono essere causa di speciali limitazioni legislative, né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, capacità giuridica e ogni forma di attività”.

Sulla rilevanza che il momento giuridico ha nella sfera religiosa, sostiene ancora Rosario, non possono esservi dubbi sia considerando l’Antico Testamento che il Nuovo. Impressionante è infatti la mole di passi giuridici dell’Antico Testamento, al punto da poter parlare di un vero e proprio “diritto biblico”. Se le disposizioni contenute nei libri vetero-testamentari assumono prevalentemente la veste di un comando o di un divieto imperativo (“farai/non farai…”) e talora di un comando ipotetico (“se … allora”), con o senza la previsione di una sanzione (le più antiche norme bibliche e lo stesso decalogo sono infatti sforniti di ogni sanzione), ad ogni modo “il diritto biblico – spiega Livatino – si presenta come un sistema rigorosamente etico, tendente non solo e non tanto a realizzare un ordine nella comunità politica terrena, bensì a consentire ed agevolare la perfezione morale dei singoli”. Alla sommità di questo sistema si pone Jahvé, re, legislatore e giudice, e ciò spiega il fortissimo formalismo interpretativo dei Giudei, contro i cui eccessi si dirigerà lo stesso Gesù. Nelle norme bibliche troviamo comunque forti istanze di carattere morale e di giustizia sociale, per lo più sconosciute ai popoli coevi e anticipatrici di molti secoli dei futuri sviluppi della civiltà giuridica e dello stesso diritto evangelico: basti pensare “alla esaltazione della solidarietà, alla carità verso il prossimo soprattutto se più debole, alla soppressione di ogni atteggiamento di violenza che non sia difensiva o punitiva”. E ancora al “senso fortissimo dell’uguaglianza giuridica e morale dei membri del popolo di Israele, anticipatore di circa tremila anni dei riscoperti valori giuridici” della modernità.

Il riferimento a concetti e forme giuridiche possiamo ritrovarlo, a ben vedere, anche negli “spiritualissimi” libri evangelici. A conferma di ciò, Rosario richiama i seguenti passi, tratti tutti dal capitolo 5 del Vangelo di Matteo: “Non crediate che io sia venuto ad abolire la legge e i profeti: non sono venuto per abolire, ma per portare a compimento. Poiché io vi dico: prima che passi il cielo e la terra, non uno jota della legge passerà finché tutto si compia” (Mt 5, 17-18); e ancora: “Chi violerà uno solo di questi comandamenti, anche minimi, ed insegnerà agli uomini a fare altrettanto sarà considerato minimo nel regno dei cieli; chi invece li avrà praticati ed insegnati sarà considerato grande nel regno dei cieli” (Mt 5, 19). Se questo è vero, tuttavia è innegabile che il Vangelo esprima una esigenza di superamento del diritto biblico, come risulta, fra gli altri, dal seguente passo: “Se la vostra giustizia non sorpasserà quella degli scribi e dei farisei, non entrerete nel regno dei cieli” (Mt 5, 20). Il diritto evangelico, pertanto, parte dal diritto biblico, su cui poggia le sue fondamenta, per radicalizzare le esigenze etiche già prefigurate nel primo: da qui la critica di Gesù al formalismo religioso nelle sue famose parole sul sabato, fatto da Dio per l’uomo e non viceversa. Ma l’esempio più importante della concezione morale del diritto evangelico è costituito dalla fortissima affermazione di Gesù sulla unità ed indissolubilità del matrimonio. “Si tratta di un tema – sottolinea Livatino – che ha la capacità di evidenziare, forse più di ogni altro, il passaggio dal diritto biblico a quello evangelico e che al contempo ha rappresentato nei secoli la tessera concettuale più connotante della concezione cristiana della vita umana”.

Cristo stesso, però, con la celebre massima “Date a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio” ha riconosciuto l’esigenza di una distinzione e di una relativa autonomia tra la sfera religiosa e quella giuridica. Non si tratta, invero, di una separazione, bensì di una distinzione tra i due piani, ossia di una “articolazione strumentale”, che pone l’esigenza di un coordinamento. Quest’esigenza di coordinamento funzionale tra le due sfere viene così espressa dal giudice Livatino: “Non importa che lo Stato assuma volto e natura etici e confessionali, non occorre cioè che Cesare sia credente. E’ sufficiente che ogni singolo Stato rispetti, nella sua legislazione terrena, quelle esigenze della persona, dei gruppi, della comunità, che sono indicate dalla loro stessa umanità di vita”. Infatti, continua il Nostro, “Date a Cesare significa date ciò che è giusto che Cesare chieda; ma Cesare ha a sua volta una regola naturale che deve rispettare”. Riconoscere l’interdipendenza tra la sfera fideistica e quella giuridica significa allora, in un’ottica cristiana, riconoscere appunto l’esistenza di limiti alle pretese di Cesare, limiti derivanti dal diritto divino e naturale, contro quella tendenza ad assolutizzare il potere temporale, che è la vera tentazione della modernità e che non di rado ha condotto e conduce a derive autoritarie o addirittura totalitarie.

Quanto sostenuto circa i rapporti tra fede e diritto dovrebbe condurci anche a non meravigliarci del fatto che la Chiesa si sia dotata nel corso dei secoli di un articolato sistema giuridico volto a regolare la sua vita interna e le relazioni tra i pastori e i fedeli. Solo con l’età moderna, a partire da Lutero, si comincia a guardare con sospetto al diritto e, particolarmente, al diritto nella Chiesa. Lutero, infatti, non riuscendo a cogliere il nesso necessario che lega carità e diritto (per Livatino invece è questa l’essenza della prospettiva evangelica, come visto nel precedente articolo di questa mini-serie), non riuscì neppure a comprendere la correlazione esistente tra la Chiesa invisibile e la Chiesa visibile o, se si preferisce, la Chiesa quale mistero di fede e la Chiesa-istituzione. Lutero, proprio perché ritiene che il diritto – espressione della volontà di potenza del legislatore terreno – è privo di una sua intrinseca razionalità, non può concepire la Chiesa come istituzione (anche) terrena. Da qui il ripudio dell’istituzione ecclesiale e la demonizzazione dello stesso diritto canonico.

Eppure, se si ritiene di non aderire ad una visione così estrema (che sottende un pregiudizio fortemente negativo verso il diritto e il fenomeno giuridico in genere), bisognerà convenire con San Tommaso che la Chiesa, quale “societas perfecta”, fatta pur sempre di uomini ma tendente ad un fine soprannaturale, si serve legittimamente del diritto come strumento per il perseguimento dei suoi scopi primari, che sono la gloria di Dio e la salvezza delle anime; e convenire che “la natura di mezzo dell’ordinamento canonico non toglie che, come tale, esso sia costitutivo ed ineliminabile per l’esistenza storica della Chiesa” quale comunità dei credenti in Cristo. Anche nella comunità ecclesiale, pertanto, l’intreccio tra fede e diritto si rivela a conti fatti necessario.


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