giovedì, settembre 25, 2014
Paure, fobie, allarmismi, contagi. Sul virus ebola abbiamo letto (e scritto) di tutto. Ma qual è la reale portata dell’emergenza?  

di Gianluca Testa

Volontariatoggi - Per capire meglio il fenomeno e per sfatare alcuni luoghi comuni ci siamo rivolti a Fabrizio Pregliasco. Virologo e immunologo, Pregliasco non solo è docente dell’Università degli Studi di Milano ma è anche il presidente nazionale di Anpas. Le pubbliche assistenze operano tra l’altro ogni giorno sulle coste della Sicilia, della Puglia e della Campania con circa un migliaio di volontari.

Pregliasco, i volontari italiani sono a rischio?
“No, non lo sono. Occorre valutare il problema con obiettività. Ed è necessario affrontare la questione come un problema sanitario legato all’immigrazione. Poi, lo capisco, questa polemica colpisce alla pancia…”.

Vuole dire che in Italia non esiste il rischio del contagio? “Anche se sui barconi ci fosse qualcuno che ha contratto il virus, quasi sicuramente non sopravviverebbe a viaggio così lungo. Insomma, la catena umana del contagio è poco probabile. E se la diffusione non c’è, il rischio è solo teorico”.

Cosa c’è da sapere sull’ebola? “Innanzitutto che il virus si diffonde perché è meno grave rispetto a qualche anno fa. Conosciamo l’ebola dal 1976. Nei primi anni non lasciava speranze e i focolai epidemici si esaurivano tragicamente sul nascere. Ora il virus uccide sei persone su dieci. Quindi ha più possibilità di diffondersi”.

La sua diffusione? “E’ limitata solo a certe zone geografiche. Del resto è una conseguenza delle condizioni socio-economiche di quei paesi. C’è scarsa protezione. In Liberia molti malati sono scappati. Altre persone l’hanno contratta a seguito di pratiche funebri che prevedono il contatto con i cadaveri. Tutti motivi che facilitano la diffusione”.

Nonostante questo possiamo continuare a considerare l’Europa un posto sicuro? “Nel nostro continente non rischiamo la diffusione del virus. Anche se qualcuno contraesse l’ebola, i nostri sistemi sanitari non permetterebbero alcun tipo di contagio. Oggi, per capire meglio qual è la situazione, parlando dell’ebola viene da fare un parallelo con la tubercolosi…”.

Ci spieghi meglio. “Il problema va analizzato attraverso i dati statistici. La metà dei casi di tubercolosi riguarda persone immigrate. E il 38% degli stranieri che hanno contratto la tbc risiedono in Italia da più di cinque anni. E sa perché? Sostanzialmente si ammalano perché qua vivono male. La storia, in questo caso, ci porta indietro di un secolo”.

Ora cerchiamo di sfatare qualche luogo comune. Qualcuno teorizza che l’ebola sia un virus importato, creato dai “bianchi” per uccidere i “neri”. “Impossibile, anche tecnicamente. Studi dimostrano che l’ebola è la variante di un virus già presente sul territorio. Portatori sani sono pipistrelli e scimmie. Poi le scarse condizioni socio-economiche contribuiscono al resto, favorendo la diffusione”.

E le case farmaceutiche? C’è chi pensa addirittura che diffondano il virus per poi somministrare il loro vaccino. “Un’altra falsità. Purtroppo non esiste una cura specifica”.

Com’è possibile? “Semplicemente perché non c’era alcun bisogno. Finora il vaccino non serviva, non c’era alcun interesse commerciale. Purtroppo dobbiamo fare i conti con limitate capacità terapeutiche. Esistono solo soluzioni sperimentali, non potrebbe essere altrimenti”.

Quando avremo un vaccino efficace? “Ci vorrà parecchio tempo. Ammesso che serva ci vorrà più di un anno. In teoria, di fronte all’emergenza, si potrebbero mettere in commercio anche le sperimentazioni. Ma la ricerca ha altri tempi. Basti pensare che un farmaco normale, per il suo sviluppo, ha bisogno di almeno cinque o sei mesi”.

Ritiene che l’emergenza sia stata sopravvalutata? “Be’, se non interveniamo chiaramente il rischio diffusione è alto. Il virus va trattato come un incendio. Poi non dobbiamo trascurare che cinquemila casi riconosciuti di ebola sono l’equivalente di quante persone ogni giorno muiono in Africa a causa della diarrea”.

Quindi è un problema d’informazione? “Dobbiamo imparare a comunicare l’emergenza. Questo è il problema. L’opinione pubblica crede che sia possibile governare la natura. Ma non è così”.

Oggi cosa possiamo fare? “Aiutiamo chi è in loco e diamo soldi per contribuire a sedare l’incendio”.


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