lunedì, gennaio 13, 2014
Lpl pubblica in esclusiva un ciclo di racconti inediti del noto scrittore Silvio Foini. (prima parte)

Lo Spitfire del maggiore Alan Khenilwort stava inseguendo velocissimo lo Stukas tedesco che aveva appena sganciato il proprio carico di morte sul villaggio a est del fiume. Sapeva che avrebbe assolutamente dovuto abbatterlo per impedirgli altri crimini ai danni della popolazione del piccolo paese. Alan sapeva che, dopo aver raso al suolo le modeste abitazioni con le micidiali bombe, il suo avversario avrebbe virato per terminare il truce e crudele ruolo di distruzione ed avrebbe aperto il fuoco con le mitragliatrici che aveva sotto quelle sua ali a delta pronunciato e mirato a tutto ciò che sotto di lui si muoveva. Meglio se inermi civili. Questo era contro ogni regola della cavalleria aerea ma il pilota tedesco, di queste, se ne infischiava! Lo Stukas si era accorto del nemico che si avvicinava sempre più alla sua coda: avrebbe atteso ancora qualche momento quindi avrebbe piroettato il suo aereo inarcandosi nel cielo con la manovra detta Himmelmann che gli avrebbe consentito di trovarsi direttamente dietro all’aereo inglese compiendo “il giro della morte” come si diceva in gergo. Le mitraglie avrebbero sputato una sventagliata di proiettili esplosivi e l’elegante Spitfire sarebbe stato crivellato e abbattuto. Alan Khenilwort da parte sua non era certamente uno sprovveduto: migliaia di ore di volo in ogni scenario di battaglia ne avevano fatto un asso dell’aviazione di Sua Maestà Britannica tanto che a soli 29 anni era stato già insignito del titolo di Sir e ammantato da un alone di invincibilità. Ora, in quella fredda sera del febbraio 1943, mentre si trovava di stanza in nord Italia, in servizio sul Lago Maggiore, avrebbe affrontato un altro dei truci piloti tedeschi. Aveva scorto, disegnate sulla fusoliera verde dello Stukas nemico le sagome di ben otto aeroplani: stavano a significare altrettante vittorie dell’avversario, cioè altrettanti nemici abbattuti in duelli aerei. “Non sarò certamente io il nono caro Fritz.” Pensava mentre portava lo Spitfire ad effettuare una velocissima picchiata che sorprese l’avversario che aveva appena iniziato la sua manovra. Lo Stukas si trovò, qualche istante più tardi, ad offrire la pancia all’inglese che stava cabrando sotto di lui: non ci sarebbe stato il nono disegno di un piccolo aereo nemico sulla sua fusoliera. Per il pilota di Hitler il turno di morire era arrivato.

La mano di Alan si strinse alla cloche ed il suo pollice pigiò sul pulsante di sparo. Sul suo bel volto si disegnò una maschera d’odio feroce: “ Crepa bastardo! Ora tocca te!” Sibilò con una smorfia a labbra serrate mentre i proiettili dei suoi due cannoncini penetravano nel ventre del mostro sopra di lui come lame taglienti nel burro. Virò immediatamente a destra azionando gli alettoni e il timone di coda per evitare la collisione con lo Stukas che precipitava in fiamme. Poté osservare per un brevissimo istante il volto dell’odioso nemico. Una maschera di sangue, immobile. Era già morto: le pallottole penetrate dal sotto dell’aereo lo avevano pietosamente spedito all’altro mondo evitandogli il terribile schianto che fra poco sarebbe seguito. Volteggiò sull’aerea dello scontro finché vide l’aereo nemico esplodere in una fiammata arancione non appena impattò il suolo. Trasse un profondo sospiro poi chiamò via radio la sua base. “Spitfire a base. Spitfire a base. Datemi un “roger” se mi copiate. Parla Khanilworth.” Tra un fruscio che pareva uno sciame d’api inferocite udì l’addetto alle comunicazioni. “Ti copio maggiore, Avanti.” “Abbiamo un moscone in meno a zonzo per il cielo. Ho abbattuto la carogna che ha procurato gravi danni poco dopo l’argine del fiume. Vedete se potete inviare soccorsi.... La zona è pulita: il tedesco lavorava da solo.”

Da sotto venne un “roger” di conferma, un complimento seguito da un grido gioioso e una domanda. “Cosa fai adesso maggiore? Rientri subito o te ne vai a spasso un altro poco?” Alan sorrise. “Vado fare un giretto di perlustrazione sul lago... é quasi sotto di me poi rientro. Stasera da bere per tutti... Avverti il nostro pittore che domattina voglio vedere il disegno di uno Stukas sul mio musetto accanto agli altri dieci. Digli che lo voglio rosso! A dopo. Chiudo.” Slacciò la maschera che aveva sul volto e si portò ad una altezza di 600 metri livellando il volo. Doveva smaltire la tensione che lo attanagliava dopo un combattimento: giocare a scacchi con la Morte era molto eccitante ma costava caro. Forse troppo pensò mentre scartava una gomma da masticare e ne appallottolava la carta argentata. Il lago Maggiore con le onde lievemente increspate dalla brezza dell’incipiente sera filava via veloce sotto lo Spitfire mentre Alan volgeva lo sguardo attorno: davanti a lui si avvicinava l’antica rocca di Angera, alla sua destra i paesi di Stresa, Arona, Dormelletto, mentre alla sua sinistra, la sponda lombarda del lago. Rallentò ancora la velocità dell’aereo sino a 120 chilometri orari: desiderava rimanere qualche minuto in più calato in quell’armonia del paesaggio attorno a lui che lo stava rapendo e scioglieva la tensioni accumulatesi nella sua mente. Fra poco avrebbe preso terra nel piccolo aeroporto militare di Vergiate dove era situata la base, avrebbe fatto una doccia e si sarebbe recato alla mensa ufficiali per mandar giù qualcosa e festeggiare con i colleghi l’undicesima vittoria. Non gli piaceva uccidere: lo faceva solamente per contribuire, per quanto poteva, alla fine di quel massacro che è sempre la guerra.

Era ben conscio che tutti gli avversari che aveva abbattuto fossero ragazzi come lui, anno più anno meno, ma che stessero dalla parte sbagliata. Come lui avevano il volo nel sangue, come lui una casa lontana e forse il ricordo struggente di un paio d’occhi che spesso si riempivano di pianto... Ma quella era la triste realtà della guerra. Lui era stato un ragazzino nato e cresciuto nella contea del Derbyshire, sud dell’Inghilterra. Il suo grazioso paese, Derby, era sorto poco distante dalla foresta di Sherwood, teatro delle gesta del mitico Robin Hood... Quante volte aveva sognato di essere lui l’arciere raddrizza torti che combatteva coraggiosamente contro i prepotenti! Poi era cresciuto, aveva studiato e si era messo a lavorare nella fattoria di suo padre ad allevar pecore e nel tempo libero, assieme al cugino Serafin Hall, aveva progettato e costruito un piccolo aereo dalle ali di legno che, a volte, era persino riuscito a volare fra la meraviglia di Peggy Lindsdy e di altri scettici spettatori. Aveva diciannove anni Alan e tanta voglia di volare nonché di rimanere solo con Peggy, due anni minore di lui e due grandi occhi celesti come il cielo d’estate. Lei però aveva posato gli occhi su Serafin...

Alan si era sentito cadere addosso il mondo e se ne era andato a Londra alla scuola di volo dell’aviazione militare di Sua Maestà. Era l’unica cosa che gli rimaneva da fare: scegliere e gettarsi a capofitto nel suo primo amore. Nel breve volgere di un anno era divenuto il miglior allievo pilota della scuola e quando due anni più tardi il colonnello comandante gli aveva appuntato sulla giacca dell’uniforme l’aquila d’oro con le ali spiegate il ricordo della bella Peggy dagli occhi color del cielo era svanito come la neve di Marzo. Seppe più tardi da una lettera di sua madre che la ragazza si era sposata con il cugino Serafin ma che ogni sera se ne stava a lungo seduta sulla veranda con gli occhi fissi a scrutar nel cielo se mai potesse scorgere un puntino nero che si avvicinava. Alan non si poneva il problema di una sua propria famiglia: avrebbe avuto tanto tempo davanti a se. Al momento viveva del suo aereo, di quelle due ali che lo portavano sopra le nuvole dove splendeva sempre il sole. Poi era scoppiata la guerra. Ora c’era da fare sul serio. Il tempo della gioia di vivere era finito. Tutto quello che volava e non aveva sulle ali i colori di Albione doveva essere distrutto. Era il male!

Inviato di stanza nelle vicinanze di Parigi, durante un volo di addestramento, con solamente qualche proiettile in dotazione nel cannoncino si era immediatamente reso conto che il nemico non concedeva sconti e lui aveva dovuto adeguarsi prontamente: con l’abilità innata nel volo e con l’esperienza acquisita alla scuola aveva fortunosamente avuto la meglio sull’aereo nemico ma era atterrato malconcio e con il motore in fiamme. Da allora in poi, massima determinazione nel non farsi illusioni cavalleresche del tipo quelle di Manfred Von Richtofen, il Barone Rosso della prima guerra mondiale, suo idolo. Alan stava ripensando a tutte queste cose mentre stava per lasciarsi dietro il lago quando avvertì lo Spitfire sobbalzare come se avesse urtato contro qualcosa. Un secondo più tardi realizzò di essere stato colpito da qualcosa sotto di lui. Cercò di far virare l’aereo ma questo non rispose ai comandi. Una scura scia di fumo nero si disegnava dietro la coda: l’impianto oleodinamico era stato colpito. Intravide proprio sulla sponda del lago le fiammate di una batteria contraerea tedesca che sputava proiettili al suo indirizzo. Cercò di non cadere in preda al panico controllando la respirazione ed azionò l’acceleratore dei giri dell’elica e lo Spitfire acquistò velocità. Alan si rese conto che comunque il velivolo era ingovernabile e decise di lanciarsi col paracadute. Sarebbe finito nell’acqua gelida del lago ma almeno non si sarebbe schiantato al suolo.

Si trovò a pensare che non avrebbe mai più rivisto il suo fido compagno che si sarebbe inabissato nelle acque scure sottostanti che si avvicinavano sempre di più... non avrebbe più potuto dargli una amichevole pacca sul musetto... non avrebbe mai più udito quel rumore dell’elica che alle sue orecchie suonava come una dolce musica. Si accorse di stare piangendo. Strinse i pugni, mormorò un addio e innescò la carica esplosiva che lo eiettò fuori dell’abitacolo regalandogli il violento schiaffo dell’aria sul volto. Poi cominciò a cadere verso l’acqua. Aprì il paracadute e scese malinconicamente. Considerò, con disappunto, quanto la riva non fosse così prossima a lui. Eppure gli era parso di si. Vide lo Spitfire sollevare una imponente colonna d’acqua toccando la superficie del lago quindi inabissarsi lentamente senza prendere fuoco e senza apparentemente subire danni alla struttura. L’alettone della coda, prima di sparire fra le piccole onde si agitò curiosamente... quasi in un ultimo saluto rivolto a lui.

Alan scosse il capo: ora doveva preoccuparsi di se stesso. L’acqua distava meno di dieci metri dai suoi piedi. Qualche istante dopo ne avvertì il gelido abbraccio mentre vi sprofondava. Il panico lo colse all’improvviso: le funi del paracadute si erano inspiegabilmente attorcigliate attorno al suo corpo e gli stavano impedendo i movimenti. Cercò freneticamente il coltello che portava legato alla coscia destra, nell’apposita tasca della tuta di volo ma non lo trovò. L’aria stava mancando ai suoi polmoni. Se non fosse riuscito a liberarsi dalle funi di nylon sottile ma robustissimo entro pochi secondi, sarebbe annegato. “Come un topo...” Gli venne da pensare. I suoi occhi potevano scorgere la superficie del lago allontanarsi sempre più mentre un forte dolore alle orecchie sembrava volergli fare scoppiare i timpani. Intanto scendeva impotente verso il fondo melmoso ricoperto dalle alghe nere. Al limite dell’umana resistenza rivide in un velocissimo film tutta la sua giovane vita poi, vinto dallo spasmo automatico della respirazione inspirò. La maligna acqua del lago prese possesso dei suoi polmoni provocando lo svenimento immediato. Non era poi tanto difficile morire pensò mentre gli ultimi brandelli della sua coscienza si perdevano nel nulla. Il corpo si adagiò lentamente su un fluttuante letto di alghe che lo accolse come braccia pietose mentre una lieve corrente lo cullò fluendo lieve attorno a lui. Aveva la consapevolezza di essere morto: i neuroni del suo cervello agonizzante ed ormai in piena anossia, gli stavano presentando il meraviglioso volto di una splendida fanciulla curiosamente vicinissimo al suo. Alan non ebbe, e non avrebbe potuto avere del resto, alcuna reazione. I suoi occhi azzurri fissavano sbarrati quella visione... poi ne udì la voce. “Come pensi che potremo mai ritrovarci noi due se ora tu ti lasci andare? Sono nata oggi, per te!”

La bocca della giovane si avvicinò a quella di Alan e soffiò una impossibile aria nei suoi polmoni. Lui tossì violentemente espellendo l’acqua mentre una piccola mano lo riportava velocemente alla superficie. Le corde che lo avevano avvinghiato erano rimaste in fondo al lago e lui era libero e seminudo. Tossì violentemente per alcuni minuti mentre qualcosa o qualcuno gli reggeva la testa fuor dell’acqua. Ora poteva vedere luminosissime sopra di lui le stelle. Pensò di essere in paradiso ma le gelide acque lo convinsero ben presto del contrario. Ormai completamente riavutosi volgeva il capo in tutte le direzioni per cercar di vedere ove fosse colei che lo aveva salvato in quel modo tanto incredibile e sovrumano. Non scorse nulla ne udì alcuna voce, quella voce, rispondere ai suoi richiami. Avvilito e incredulo prese a nuotare verso la riva ove si vedeva il tremolio di un lume. Forse una casupola di pescatori.

Con la forza di volontà raggiunse finalmente la riva e si accasciò fra i canneti che stormivano alla brezza dell’incipiente notte. Si rialzò poco dopo aver ripreso fiato e prese a camminare nella fanghiglia provocando agitazione fra un gruppo di germani reali disturbati dai suoi passi che si allontanarono starnazzando.

Si avvicinò con circospezione alla casupola scrutando intorno nelle ombre della notte. Tremava per il freddo. Da dentro si udivano le voci di un uomo e di una donna parlare sommessamente. Al giovane non riuscì di intendere quel che si stavano dicendo: parlavano si in italiano ma probabilmente in dialetto. Comprese solo alcune parole, “tedeschi” “Gestapo” e “partigiani” null’altro. Intuì che si trattava di gente umile presa nelle spire di una guerra mai auspicata e si fece forza. Bussò alla porta di legno e udì un trambusto provenire dall’interno quindi la figura di un uomo sulla cinquantina si stagliò davanti a lui allorché l’uscio si spalancò di colpo. Le due canne brunite di una doppietta da caccia stavano puntate a meno di un metro dai suoi occhi. “ Che volete? Chi siete? Fermo e con le mani in alto” Disse secco l’uomo. Invitò la donna a portare la lucerna e quando l’ebbe vicina osservò attentamente Alan.

Le canne del fucile si abbassarono. “Presto entrate!” Intimò. “Meglio che nessuno vi scorga... sapete i crucchi ci spiano dappertutto, anche di notte.”(continua)

Sono presenti 2 commenti

Anonimo ha detto...

Saggia decisione la pubblicazione del racconto in due parti . Come sempre la tua illimitata fantasia e la tua capacità letterale , coinvolgono il lettore tanto da renderlo partecipe delle avventure descritte. Sei bravissimo, hai un grande dono . Mi piacerebbe conoscere il parere di qualche tuo insegnante che forse al tempo della scuola non aveva capito le tue risorse., come spesso succede..-

Anonimo ha detto...

Foini in italiano era sempre stato molto bravo. Non mi meraviglio di queste sue belle performance.
Piera

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