martedì, gennaio 21, 2014
Gli uomini avanzavano incitando i quattro buoi che trainavano il pesante carro di legno: ruote e gambe affondavano nel fango della strada che dalla pianura portava su, verso la Valle. 


di Silvio Foini 

Pioveva da tre giorni e procedere su quel terreno era impresa ardua, gli uomini, bagnati dall'acqua erano intirizziti dal vento gelido che scendeva dalle montagne foriero dell'imminente inverno e le pesanti armature che alcuni indossavano non facilitavano certo quella marcia. Solo una decina di loro avevano ancora il cavallo. Dal giorno in cui avevano lasciato la Valle al seguito del loro Signore che si recava in Terra Santa, crociato, erano trascorsi nove anni: nove lunghi anni d'inferno all'insegna del pericolo costante: andare a combattere contro gli infedeli e nella loro stessa terra, non era certo stato uno scherzo! La maggior parte di coloro che avevano lasciato la Valle non vi stavano infatti tornando: i fortunati erano solamente ventisette Signore compreso; gli altri 250 avevano lasciato le loro ossa a biancheggiare in quelle lontane ed assolate contrade. Portavano seco cose assai preziose costate un prezzo altissimo e questi fortunati che ora tornavano, in compenso, non avrebbero avuto più il problema del pane quotidiano anche se avevano gettato nel fiume del tempo che più non ritorna, ben nove anni di vita. Il Santo Sepolcro del Cristo ora era libero. Il Signore della Valle alzò in un gesto imperioso la mano guantata di ferro arrestando la marcia della colonna che procedeva nel fango. Scese da cavallo e, con grande fatica, si inginocchiò a baciare il suolo quindi si rialzò in tutta la persona.

"Siamo finalmente giunti alla nostra contrada - esclamò togliendosi dal capo l'elmo piumato - II nostro viaggio è finito, potete sgravare le membra dalle sacre armi che hanno liberato il Sepolcro del Salvatore e caricarle sul carro sì che non v'abbiano a pesarvi sulle spalle ulteriormente. Quando avrete fatto ciò, dividerete le ricchezze che abbiamo portato sin qui poi, - Continuò additando il piccolo borgo di povere dimore - Tornerete alle vostre case. Domani sera, al calare del sole, attendo voi e le vostre famiglie al castello quali miei graditi amici ed ospiti. Ringrazio tutti dal profondo dell' anima!" Concluse battendo il pugno della mano destra sull'armatura, all'altezza del cuore.

Ristette qualche momento ad osservare i suoi uomini eseguire gli ordini quindi condusse il destriero verso un bivio ed imboccò la strada di destra che conduceva al castello. Lo seguivano quattro scudieri che trasportavano un pesante forziere accuratamente celato sotto un drappo rosso oro. S'inerpicarono per quasi tre quarti d'ora lungo quella mulattiera, attraverso impenetrabili boschi, regno di camosci e caprioli, quindi il Signorotto arrestò la marcia e comandò a uno dei quattro che li precedesse al castello che ora si vedeva confusamente tra le brume incipienti della sera lassù, edificato sul picco più alto.

"Avverti che sono tornato! - Ordinò ad uno scudiero, ponendogli in mano le briglie del cavallo. - Che preparino la dovuta accoglienza ad un soldato di Cristo, ad un cavaliere che torna vittorioso. Va' dunque! Muoviti!" L'uomo partì a spron battuto verso la casa del suo Signore, il Signore della Valle. I tre rimasti ripresero il cammino in compagnia del Cavaliere faticando non poco nel trasportare il pesante fardello del loro padrone che li precedeva di una ventina di passi. Poco dopo il Crociato fece segno al più giovane di loro di avvicinarsi a lui: erano giunti ad una piccola radura e posarono a terra il forziere con evidente soddisfazione. Il Cavaliere ed il suo fido scudiero Guido parlottavano a bassa voce per non far intendere le loro parole ai due rimasti poco più indietro col carico quindi si riprese il cammino. Giunti a qualche centinaio di metri dal castello che si ergeva scuro e minaccioso con la sua massiccia presenza di pietra, il Signore della Valle comandò nuovamente che si facesse sosta. Sulla sinistra del sentiero, all'altezza di un piccolo ruscello dall'acqua cristallina e spumeggiante, sorgeva una giovane robusta quercia dalle foglie ormai dorate dal pennello magico dell'autunno che cadendo stendevano un caldo tappeto alla base dell'albero. "Scavate una fossa ben profonda che possa celare ciò che avete, con tanta fatica, trasportato sino a qui. - Ordinò - Ben avete meritato un premio: quando saremo al castello, avrete venti monete d'oro ciascuno." Promise.

I tre scudieri lavorarono sodo per oltre un'ora ed era quasi notte allorché adagiarono sul fondo della fossa il pesante forziere che giungeva sin lì dalla Terra Santa. In quell'attimo, il soldato che aveva confabulato prima con il Cavaliere, si allontanò dai compagni che avevano iniziato, alla luce di una torcia, a colmare quella fossa e si avvicinò al suo Signore. Si scambiarono un'occhiata d'intesa quindi entrambi incoccarono le frecce agli archi. I dardi ronzarono come vespe insidiose nell'aria della sera e s'andarono a conficcare maligni fra le scapole dei due rimasti accanto alla fossa. Caddero, faccia avanti, nella buca che stavano ricoprendo, senza emettere nemmeno un gemito. "Nulla di personale, miei fidi - sibilò il truce Signore della Valle mentre si accertava personalmente che fossero morti- Finisci di ricoprire la fossa e fa in modo che nessuno si accorga che il terreno sotto la quercia è stato smosso.

Quando avrai terminato vieni subito da me. Fai un buon lavoro! A dopo. Guido!" "Non temere mio Signore - lo rassicurò il soldato - Se domani ti troverai a percorrere questa via, tu stesso stenterai a ritrovare il punto in cui il forziere giace, con due guardie così sicure e silenziose." Il Cavaliere si incamminò solitario verso la sua casa dove l'aspettava la dolce e giovane Laura dai seni morbidi e candidi come le cime delle montagne nel freddo dell'inverno. "...Mio Dio è tornato quel bastardo d'un vecchio! Ho pregato tanto che qualche saraceno lo spedisse all'inferno con la punta della spada... Che faremo Edoardo? Che sarà del nostro amore ora che egli è tornato?" Si trovò ad esclamare la donna.

Il bellissimo giovane strinse le mani di Laura fra le sue: "Non cesserò mai di amarti, nemmeno se tuo marito è qui! Troveremo il modo di vederci, o all'ombra di qualche segreta stanza del castello oppure approfitteremo del tempo in cui egli si dedicherà alla caccia o alla pesca... Non dimenticare che potremo contare sulla complicità della tua vecchia nutrice... ella sa ed approva. Non volle mai che tu finissi fra le braccia del Signore della Valle, ricordi?" La splendida giovane dai riccioli d'oro, gli occhi che parevano pezzi di cielo e il corpo flessuoso al pari di un giunco, si strinse all'amato singhiozzando: "Non potrò più essere solo tua Edoardo: egli mi pretenderà la notte ed io provo ribrezzo al pensiero di quelle sue mani lorde di sangue che si insinueranno sotto le mie vesti... No, quel malefico vecchio non mi avrà mai! Piuttosto mi getto nell'orrido oltre le mura di questo maledetto castello... meglio il gelido abbraccio della nera Morte..." "Già, la Morte. - Disse come pensando ad alta voce il giovane ed aitante nipote del Signore della Valle. La sua nera presenza potrebbe risolvere parecchi problemi in un sol battito di ali..." Laura si allontanò di scatto dal giovane amante sbiancando in volto. "Stai meditando di ucciderlo? Egli è troppo destro all'uso della spada... non ne usciresti vivo Edoardo..."

"No, non con il ferro... esistono altre vie che conducono all'inferno e tutte altrettanto efficaci. Non posso pensare che egli stanotte ti possa avere, mia amata! No! Egli stasera morrà! Durante il banchetto ... sarà la volta dei suoi funerali. Laura tremante chiese: "Che intendi fare? Sei certo della riuscita del tuo proposito, amore mio?". Edoardo socchiuse gli occhi: sembrava molto lontano ora da lei, trascinato via dal vortice impetuoso dell'odio che covava nell'animo verso l'anziano zio. "Sì! - confermò - Stasera verserò due gocce di un potente veleno nella sua coppa di vino. Lo preparò il vecchio che vive lassù accanto alle sorgenti del fiume: mi ha assicurato che una goccia basta ad uccidere un camoscio adulto se posta sulla punta di una freccia. All'istante giunge la morte! Basterà un sorso, un piccolo sorso di quel vino e... tutti penseranno che sia stata la gioia del ritorno ad ucciderlo... Quando stramazzerà sul pavimento della sala dei banchetti, tu urla la tua disperazione con tutto il fiato che hai in gola, gettati su di lui piangente e come straziata dal dolore..." Laura ascoltava rapita le parole dell'amato. "Nel tuo cuore occupo certamente un posto più importante della tua stessa vita, se ardisci metterla a repentaglio così...” "Ne dubitavi forse?"

"No." Fu la risposta della giovane prima che gli si stringesse addosso baciandolo sulle labbra. Un morbido tappeto di pelle di montone li accolse nell'amplesso più dolce che mai. Da quella sera tutto sarebbe cambiato per loro. La grande sala dei banchetti brulicava di persone: nobili feudatari confinanti sfarzosamente rivestiti degli abiti più ricchi, cavalieri dalle splendide armature con gli elmi dai grandi cimieri sgargianti, gran dame colme di sussiego, soldati ed alcuni popolani. Quel Guido, fido scudiere del Signore della Valle, si occupava personalmente che tutto andasse nel modo migliore e che, soprattutto, nessuno si potesse avvicinare più del necessario al suo padrone adorato. Amava sinceramente quell'uomo che molti invece, per svariati motivi, odiavano. Guido considerava la malvagità del padrone coraggio, la sua natura violenta, fermezza, il disprezzo con cui trattava la maggior parte delle persone che gli stavano attorno, nobiltà d'animo. E Guido era divenuto l'ombra del Signore della Valle, la sua brutta copia: pensava ciò che questi pensava, parlava come questi parlava e ne ricalcava, a volte maldestramente, le stesse movenze ed atteggiamenti. Il Cavaliere vedeva tutto ciò ed, a modo suo, apprezzava quel rude individuo: era l'unico cui avrebbe affidato la sua stessa vita. Ma quella sera egli non aveva occhi che per la sua giovane e bellissima moglie Laura.

Quando era giunto al castello, però non l'aveva trovata ad accoglierlo festosa: la vecchia nutrice Elisabetta gli aveva riferito che la signora stava male ma che lo avrebbe incontrato a cena.

Il Cavaliere non vedeva l'ora che il festino finisse, che gli ospiti lasciassero la sua casa per aver modo di restare con lei, tenerla fra le braccia, quelle braccia che da tempo anelavano stringere quel giovane corpo provocante.

Nessuna delle donne che aveva avuto durante quei nove lunghi anni l'aveva saputo consolare della mancanza di Laura. Ora però lei era lì, sotto lo stesso suo tetto e quella notte... quella notte si sarebbe rifatto abbondantemente del tempo perduto. "E' ora che io abbia un figlio che erediti il mio feudo. Si diceva pregustando il talamo così a lungo disertato.- Stanotte Laura concepirà il mio erede... Ora é tempo per la gioia..." "Nobile zio, non vuoi brindare col figlio di tuo fratello?" Edoardo, nella sua rilucente corazza di cavaliere ed i colori della Valle nello stemma che aveva sul petto si era avvicinato al Signore e gli porgeva un prezioso calice di vino. "Certo che brinderò con te! Lascia che ti guardi Edoardo! - Esclamò il Cavaliere compiaciuto - Sei diventato un uomo. Ti lasciai bambino... Quanti anni avevi?" "Dodici, quando partisti assieme a mio padre. Desidero che tu mi racconti di lui, delle sue imprese ed anche della sua morte valorosa..." "Certamente Edoardo. Durante il pranzo, tu ed io avremo da parlare molto. Ora lasciami correre incontro alla mia dolce sposa. Guardala... sta entrando ora... è... è magnifica vero?" Il giovane abbassò lo sguardo: non voleva guardare la donna che era apparsa in cima alla grande scala di pietra e stava scendendo per raggiungerli nella grande sala. Tutti gli invitati voltarono gli sguardi nella sua direzione in silenzio: si potevano udire gli scoppiettii della legna che ardeva nel grande camino che riscaldava la sala dei banchetti. Laura indossava uno stupendo abito di velluto rosso con fascia dorata che metteva in evidenza l'esile vita e scendeva quasi a toccare la pietra dei gradini. L'ampia scollatura evidenziava l'abbondanza dei seni che si muovevano al pari di seta mossa dalla brezza della sera. Il Signore della Valle rimase colpito e turbato da quella visione così leggiadra e sentì fremere, sotto gli spessi calzoni di cuoio, la propria virilità e deglutì forte. "Non è divina?" Domandò al nipote. "Certo, è degna di te!" Rispose questi.

Il Cavaliere nemmeno l'ascoltò: i suoi passi pesanti risuonarono nel silenzio sotto le cupe volte della sala di pietra. Edoardo vide, come in un sogno, lo zio volare leggero ed agile su per la grande scalinata e prendere fra le braccia la sua Laura. Provò un impeto di furore che controllò prima che esplodesse inequivocabilmente quando il suo rude zio, abbracciando la donna, le assestò una gran pacca sul sedere sorridendo compiaciuto di quelle rotondità sode che incontrò la sua manaccia. Laura dal canto suo non ricambiò l'abbraccio del focoso marito: non se lo ricordava quasi nemmeno più. Nove anni di lontananza cambiano il cuore di una donna e se poi questa ha pure trovato di che consolarsi... Rimase come esile canna fra le nerborute braccia del marito, ricoperte di lunghi peli grigi. Quando finalmente poté liberarsi da quell'abbraccio per lei tanto sgradevole, cercò con lo sguardo il suo giovane amante, ma non riuscì a scorgerlo fra la gente che affollava festante la grande sala dei banchetti.

Occupò il posto accanto al marito, al centro della tavola che era stata apparecchiata e, memore degli accordi che aveva stretti con il giovane amante, cominciò ad interessarsi, con fin troppo slancio, al Signore della Valle accarezzandogli la mano ed il viso con atteggiamento di amore e di passione di chi a lungo ha dovuto attendere... Il vino scorse a fiumi dentro i calici d'argento degli invitati e si mischiò ai racconti delle imprese del Signore in Terra Santa. Edoardo stava seduto a una decina di metri dallo zio e dall'amante, era ciarliero e si mostrava molto felice: a tratti alzava alto il proprio calice brindando e invitando gli altri a farlo alla salute e alla felicità dell'amato zio che era tornato finalmente a casa. Giunse ad esclamare, fra il battimani generale: "Ora che non ho più mio padre, morto da valoroso per la gloria di Nostro Signore, desidero che tu ne prenda il posto adorato zio!" Il Cavaliere era al colmo della felicità per quelle filiali dimostrazioni d'affetto.

"Perché non dovrei considerarlo mio figlio, in fondo?" Si domandava osservando quel bel giovane che in effetti, essendo figlio di suo fratello gli somigliava molto. "Vieni a sedere accanto a me e a Laura, caro nipote." L'invitò facendo cenno al suo scudiero Guido di lasciare libera la sedia alla sua sinistra. Guido prontamente cedette il posto a Edoardo che fu così accanto al Cavaliere e più vicino alla sua Laura. Parlarono a lungo delle battaglie che si erano svolte sotto le mura di Gerusalemme e il Signore della Valle narrò delle temerarie imprese che aveva compiute suo fratello Abelardo, il padre di Edoardo.

Ricordò di un cruento duello contro un gigantesco moro che combatteva con la forza di dieci uomini. Abelardo si batteva con estremo valore contro quella scatenata furia nera e il duello durava ormai da quasi un'ora: si vedeva che l'epilogo si avvicinava. Entrambi coperti di ferite e di sudore faticavano quasi a sferrare i fendenti ed erano a corto di fiato ma, nessuno dei due voleva cedere le armi. Il sole stava per tramontare oltre il limitare delle mura della città quando un ultimo suo raggio andò ad illuminare, riflettendovisi sopra, la lama della spada di Abelardo che parve sfolgorare di luce propria.

Il moro fiaccato nel corpo pur possente vide in quella luce dorata una sorta di magia e anche il suo coraggio venne meno. Si arrese ad Abelardo che mostrando una grande nobiltà di cuore, lo risparmiò. Il moro promise che mai più avrebbe incrociato il suo ferro col Cavaliere cristiano cui doveva la vita. Edoardo ascoltò il racconto di quell’avventura con viva emozione e considerò fra se medesimo di quale padre fosse figlio. Dentro il suo animo ora si combattevano due pensieri: come avrebbe potuto liberarsi dello zio in modo così vile e basso quale era avvelenarlo? Se voleva la sua donna avrebbe dovuto conquistarsela o non avrebbe mai più avuto stima di se stesso. Avrebbe avuto la forza di sopportare il rimorso di quella riprovevole azione?

Il secondo pensiero era quello della rinuncia a Laura. Tutto sommato, la Valle non era avara di bellezze... quella ragazza bionda che aveva incontrato nel bosco la settimana prima del ritorno dello zio era un fiore di rara bellezza, tuttavia... ripensando al corpo nudo di Laura steso accanto a lui era percorso da un fremito che lo scuoteva nel profondo. E no! Per Laura provava amore oltre che attrazione. La giovane bionda del bosco avrebbe potuto averla, una, due, dieci volte, ma poi tutto sarebbe finito lì. Edoardo sentiva che Laura gli aderiva come un guanto alla mano, uno stivale al piede, un fodero alla spada. No! Non vi avrebbe rinunciato mai e non avrebbe permesso che suo zio, anche se marito di Laura, la potesse avere. Neanche una sola volta.

Le dita della sua mano sinistra tormentavano l'anello che stava all'anulare della mano destra: nascosta sotto la pietra: v'era la micidiale pozione che se versata nel calice dello zio, l'avrebbe mandato a raggiungere il suo valoroso fratello in un breve battito di ciglia. Il giovane non udiva più i commensali che vociavano in preda ai fumi del vino. Nemmeno il Signore della Valle stava dando un decoroso spettacolo di se tracannando boccali su boccali ed eruttando rumorosamente. Laura gli stava seduta immobile accanto non partecipando in alcun modo alla festa. I suoi occhi guardavano il volto dell'amante che sembrava lontano, molto lontano da quella tavolata tanto allegra. Ella immaginava quali sentimenti si stessero combattendo nel cuore del giovane cavaliere e ne soffriva. Nel frattempo, qualcuno accanto al camino, stava parlando ad alta voce, quasi litigando con il proprio interlocutore. Si trattava di due cavalieri che avevano seguito nella Crociata il Signore della Valle ed a Edoardo parve di intendere, da ciò che si dicevano i due, qualcosa di orribile. Ignorato dallo zio che pure stava a pochi palmi di distanza, si alzò dalla sedia e con fare indifferente si portò alle loro spalle rimanendo ad ascoltare attentamente.

Ciò che udì gli fece scoppiare nel petto un furore così tremendo che, estratta la spada, trafisse uno dei due che stramazzò a terra, mentre un lago di sangue macchiava il pavimento. Il silenzio si fece assoluto nella grande sala: tutti guardavano Edoardo che brandiva la spada sporca di sangue come un angelo vendicatore. I commensali parevano non credere ai loro occhi: alcuni scuotevano il capo come per uscire dalla nebbia delle abbondanti libagioni. Il Signore della Valle, con passo malfermo si portò accanto al nipote che ora aveva puntato la spada alla gola dell'altro cavaliere impietrito dal terrore per quell'assalto così improvviso. Laura era rimasta al proprio posto con la mano sulla bocca nel tentativo di reprimere un urlo. "Che hai fatto, nipote mio? Perché hai trafitto Gerardo? Lo sai che era uno dei miei migliori amici?" Urlò il Cavaliere con una espressione di incredulità assoluta sul volto irato. Per tutta risposta, nel silenzio che ora gravava palpabile sulla sala dei banchetti, Edoardo intimò al cavaliere in ginocchio davanti a lui: "Parla, se vuoi che la punta di questa spada non ti trapassi la gola.

E' vero ciò che ha detto a te, qualche attimo fa, costui che ora giace nel suo sangue? Parla e ripeti a voce ben chiara sì che tutti possano udirti, o ti ucciderò subito." "Risparmiami, per amor del cielo, Edoardo. Va bene, ripeterò tutto. Io e Gerardo stavamo ricordando come morì tuo padre: non un ferro saraceno squarciò il suo petto, ma un ferro cristiano, quello che armava la mano di..." "Taci maledetto!" Urlò a quel punto il Signore della Valle avventandosi contro il cavaliere che Edoardo teneva sotto la minaccia della propria arma. Ma non arrivò all'obbiettivo: la spada di Edoardo gli penetrò nel costato all'altezza del cuore. Mentre si piegava sulle ginocchia ed un fiotto di sangue gorgogliava dalla bocca, tese le braccia verso il nipote, il suo carnefice, in un ultimo, disperato, silenzioso grido. "Rimanete tutti ai vostri posti!" Ordinò Edoardo sempre con la spada stretta nel pugno saltando sulla tavola del banchetto. Un'espressione d'ira ed odio mortale gli alterava i dolci lineamenti. Laura stentava a riconoscere nel suo mite amante quel giovane leone. "Tu - Ordinò al cavaliere cui aveva risparmiato la vita - Racconta a tutti quello che sai, sì che si comprenda come io abbia appena compiuto giustizia di un'atrocità che gridava vendetta davanti a Dio ed agli uomini."

Il conte Alberto si rialzò da terra e disse solo due parole: "In Terra Santa, il Signore della Valle si macchiò del delitto di Caino. Abelardo fu ucciso a tradimento da suo fratello per questioni di interesse che erano sorte circa il possesso di queste terre al loro ritorno. Io ed il cavalier Gerardo fummo testimoni del delitto. Che Dio mi perdoni!" Un brusio si levò nella sala dei banchetti. Edoardo saltò giù dalla tavola ordinando a tutti di lasciare il castello, quindi si avvicinò a Laura che tremava. Udirono un urlo strozzato dietro di loro ed il corpo di Guido, lo scudiero del Signore della Valle, piombò faccia a terra sul pavimento di sasso: fra le sue spalle stava conficcata un'ascia da guerra. Nella mano destra stringeva ancora un lungo affilato pugnale: quello che avrebbe voluto piantare nella schiena di Edoardo. A metà del ballatoio di legno che conduceva alle stanze del piano superiore, un giovane, vestito con i colori del feudo confinante, agitò la mano guantata in un saluto in direzione dei due giovani. "Grazie, Silvio!" Fece Edoardo. "Dovere, amico mio! Dovere!"

Tre giorni dopo il corpo del Signore della Valle raggiunse gli scheletriti antenati nella cripta del castello e Edoardo poté avere Laura tutta per se e per lunghi anni felici. Ma il nuovo Signore della Valle, il Cavaliere Edoardo dell'Ossola però non poté mai dormire sonni tranquilli: molte e molte notti Laura lo sentì parlare nel sonno ed agitarsi come se volesse sfuggire a qualche oscuro pericolo: qualcosa o qualcuno, nottetempo, si aggirava attorno alle possenti mura del palazzotto di Edoardo. In molti giuravano di aver veduto l'ombra di un cavaliere crociato a cavallo percorrere i viottoli delle montagne lamentandosi lugubremente. Ma come ognun sa, le leggende, son solo favole. Oppure... no?

°°°°

"Il rag. Della Valle è desiderato in direzione. " Così, la voce impersonale di una segretaria della Banca, spezzò il brusio che regnava negli uffici della Filiale. Edoardo, con gesto stizzito, gettò la biro sul foglio di una distinta di versamento che stava compilando. "Ma che cazzo vuole ancora quello stronzo?" Si chiese spingendo indietro nervosamente la sedia con le gambe. "Un minuto, per favore! Torno subito!" Si scusò col cliente dall'altra parte dello sportello, al di là del vetro antiproiettile. Percorse tutto l'ufficio cogliendo qualche sguardo dei colleghi e qualche sorrisetto ironico.

"Ce l'ha con te stamattina il capo eh, Edoardo?" "Fottiti Gianni!" Rispose all'amico che occupava l'ultima scrivania prima della porta di vetro su cui stava il cartello "Direzione". Bussò due volte finché una voce sgradevole latrò: "Avanti." Il dottor Dell’Orso, un ometto piccolo, brutto, con baffetti cattivi che si tendevano a dismisura in false risate alzò appena gli occhi seminascosti da due spesse lenti che i dipendenti chiamavano "culi di bottiglia". "Si accomodi, ragioniere! Si accomodi!" Edoardo si sedette sulla poltroncina di finta pelle nera che stava davanti alla scrivania e siccome il direttore non parlava, tutto intento a leggere una lettera, il giovane impiegato prese a tormentarsi le unghie delle mani in evidente stato di disagio. "Non sia impaziente, la prego. Sarò subito da lei." Promise l'ometto dall'altro lato della scrivania, con un sorrisetto sornione che non prometteva nulla di buono. Infatti, qualche attimo più tardi, riposto ciò che aveva appena terminato di leggere in una cartelletta marrone esordì: "Dunque, ragioniere... L'ho chiamata ancora nel mio ufficio, ma stavolta non è proprio per questione di lavoro..." Edoardo cambiò posizione sulla sedia. "Mi dica pure direttore..."

"Sì! Dunque, riguardo quell'appezzamento di terra che lei ha ereditato alla sfortunata morte di suo padre..." “Ebbene?" Chiese il giovane incuriosito. L'ometto che gli stava seduto davanti si trovava in una sorta di imbarazzo: strano! Non era mai accaduto. "Vede - riprese finalmente il direttore riassumendo infine il suo consueto atteggiamento sicuro - interessa molto ad un mio amico, al conte De Filippi, il nostro maggiore azionista." "A che si deve quest’interesse?" Domandò Edoardo scuotendo le spalle. "Sa che quel terreno è confinante alla sua villa, no? Siete vicini di casa..." "Sì! L'ho veduto spesso nelle mattine di domenica percorrere il parco a cavallo sconfinare tranquillamente nel mio terreno. E allora? Lo vuol comperare per caso?" “Sì! Ed è pronto ad offrirle un congruo prezzo." "Peccato che io non desideri vendere. A nessun prezzo. Noi Della Valle non abbiamo mai venduto un ettaro della nostra terra nel corso dei secoli. Per noi la terra è sacra." Rispose seccamente il giovane.

Il direttore lo fissò da dietro le spesse lenti montate con un filo d'oro e quasi sibilando riprese: "Che se ne fa un giovane come lei di tutto quel terreno improduttivo? Pensi - Lo blandì - con tutti i soldi che De Filippi le darebbe per quel bosco, lei potrebbe vivere di rendita senza nemmeno più dover lavorare in Banca." Edoardo si impose la calma mentre rispondeva: "Io lavoro ma non per necessità. Mi piace stare allo sportello a contatto con le persone. Anche mio padre, pur potendo vivere agiatamente e di rendita, ha sempre voluto occuparsi della campagna. Non perché si sia degli avari, ma solo perché non desideriamo isolarci e non abbiamo mai avuto propensione all'ozio. Mi capisce?" Il direttore pareva essere seduto sulle spine. Edoardo non l'aveva mai veduto così e ne gioì dentro di se. Che aveva da guadagnare in quell'affare? Forse il De Filippi gli aveva promesso una percentuale? Questo era poco ma sicuro!

"Ma caro ragioniere - seguitò il direttore con tono mellifluo - Lei ha tanta di quella terra attorno al suo palazzotto che pochi ettari non la rimpicciolirebbero che di un po'..." "Direttore - Sbottò spazientito il giovane - Se non le spiace, le ho già risposto quindi me ne tornerei di là. Ho un cliente al banco e..." "Vada, vada pure. Io gliel'ho chiesto gentilmente. Così mi aveva pregato di fare il conte poc'anzi. Quando vorrà domandarglielo di persona non so se sarà tanto educato. Sa... - minacciò con un sorrisetto cattivo - è il maggior azionista di questa Banca... il padrone quasi..." "Che si fotta! - Ringhiò Edoardo fra i denti - Se insisterà, farà la fine del suo trisnonno... Dev'essere un chiodo fisso di famiglia per i De Filippi volere quel bosco." "Scusi che fine ha fatto l'avo del conte De Filippi?" Gli occhi di Edoardo si fecero cattivi: "Fu trovato morto con una freccia nel cuore proprio al limitare del bosco in questione e... - Aggiunse con voce tagliente - Non fu certo il mio trisnonno a toglierlo di mezzo!" "Ah, Sì! - rispose il direttore togliendosi gli spessi occhiali per pulirli accuratamente con una piccola pelle di daino - Ho sentito raccontare la leggenda di quel suo antenato, quel cavaliere crociato ucciso dal nipote; quello che nelle notti di luna cavalca per i monti.” Edoardo si chiuse la porta di vetro alle spalle e disse fra sé: "Che pezzo di stronzo!" "Che voleva quello?" Gli domandò il collega ed amico quando uscì dall'ufficio del direttore. "Stronzate! Si limitò a rispondergli riprendendo il suo posto allo sportello dove un cliente lo stava ancora pazientemente attendendo. Fu il mattino del giorno seguente che il conte De Filippi andò in banca.

Dirigendosi verso la porta a vetri, dietro alla quale stava l'ometto con gli occhiali dalle lenti spesse, indirizzò un'occhiataccia a Edoardo che finse d'ignorarlo assolutamente. "Ora mi farà chiamare di là... - Pensò il giovane con un'ira sorda nel cuore che gli provocò un lieve tremore alle mani forti - e sentiremo che avrà da dire... " Qualche attimo più tardi, dall’ingresso principale della banca, entrò lei.

L'ira che covava nel petto del giovane parve dissolversi come d'incanto: alta, molto ben fatta, capelli ramati che incorniciavano un volto dolcissimo illuminato da due stupendi occhi azzurri, la donna si avvicinò al suo sportello. Proprio al suo. Edoardo non l'aveva mai veduta prima a Domodossola: non se la sarebbe certo dimenticata! "Mi scusi - disse con una voce che alle orecchie del giovane Della Valle suonò come melodia - Sto cercando mio zio, il conte De Filippi. Dovrebbe essere a colloquio col dottor Dell’Orso, il direttore.

Ho delle carte che sono appena andata a ritirare dal notaio Colonna, qui davanti..." Edoardo la stava fissando quasi non facendo caso a ciò che la ragazza aveva detto. Quel volto... quella figura... quella voce... "Prego signorina?" Si scusò arrossendo visibilmente - Mi perdoni, ero distratto..." Ora fu la giovane donna a non rispondere subito: guardava attentamente il viso dell'uomo che le stava davanti. "Dio mio! E'... è lui che stavo aspettando?" Si ritrovò a pensare con estrema sorpresa, mentre una gioia sottile le si diffondeva nell'anima e nel corpo. Il suo sguardo si posò velocissimo sul dito anulare della mano sinistra del giovane. No, non era sposato! Non portava la fede d'oro. "Ah si, - riprese deglutendo a vuoto - Ho detto che devo consegnare queste carte a mio zio che è a colloquio col direttore e...” “Oh! Certo, attenda un attimo, signorina! - Rispose Edoardo sollevando la cornetta del telefono interno - Chi devo annunciare, prego?" "Laura De Filippi Spina..." "Laura... De Filippi?" "Mi chiamo così!" "Certo! Mi perdoni... pronto? C'è la signorina Laura... va bene, subito!" Edoardo riagganciò la cornetta del telefono. "Si accomodi! Suo zio ed il direttore l'attendono..." La ragazza non si mosse: i loro occhi si scrutarono vicendevolmente per un interminabile istante quasi a cercare qualcosa di profondamente nascosto... Fu il giovane a superare per primo quell'attimo. "Le faccio strada, venga. Entri da quella porta là in fondo." Attraversarono il grande ufficio e gli sguardi dei colleghi maschi si puntarono sullo splendido fondo schiena della ragazza. Edoardo bussò alla porta di vetro. "Avanti!" Cantilenò la querula voce del direttore.

Il giovane abbassò la maniglia d'ottone della porta e l'aprì scostandosi per far passare la ragazza. Il suo profumo l'inebriò. "Laura... " le sussurrò, mentre passava davanti a lui, vicinissima. Lei sfiorò la sua mano ancora posta sulla maniglia ed entrò chiudendosi la porta alle spalle. "Che sventola!" Disse piano Gianni alzandosi da dietro la scrivania sepolta da scartoffie. "Una notte con quella e non so che darei..." Edoardo nemmeno udì quelle parole. "Ehi! Svegliati! - Gli disse agitandogli davanti agli occhi il palmo della mano con le cinque dita aperte. - Che, ti sei imbambolato ? Ah! Il colpo di fulmine! - Esclamò subito dopo l'amico.- Ecco perché non ti andava quel bel pezzo di domenica scorsa al Trocadero! Ti mancava il botto sul testone. Stavolta ci siamo eh, ragazzo?" “Che dici, cretino?" Rispose automaticamente il giovane Della Valle. Quella è Laura!” “E chi diavolo sarà mai?” Esclamò Gianni vedendo con quale intensità Edoardo aveva pronunciato quel nome. "Ah Sì, sì, quella di... chiare, fresche, dolci acque..." Rise il collega battendogli la mano sulla spalla. "Va a lavorare! Non vedi che c'è gente al tuo sportello?..." Edoardo non si sentiva in grado di riprendere il suo posto: qualcosa l'aveva afferrato allo stomaco e non voleva lasciare la presa. Gianni vide che l'amico era sconvolto. "Vieni, ti accompagno a prendere un espresso - propose facendo cenno ad un altro impiegato che prendesse momentaneamente il posto del collega. Ti si schiariranno le idee..." La macchinetta sputò nel bicchierino di plastica bianca quello che veniva, con una parola grossa, chiamato caffè espresso ed i due giovani presero a sorseggiarlo.

"Va meglio adesso?" "Beh, si. Non so che mi ha preso: tutto mi girava attorno..." "Di gente che si è rincoglionita per una donna ne ho vista - affermò serio Gianni - Ma almeno prima se la è portata a letto almeno una volta!" "Ma non c'entra! Non capisci! E' quella di cui ti ho parlato lunedì mattina, quella che mi viene in sogno una notte sì e l'altra pure. Ti assicuro che è lei!" "Calmati, ragazzo - gli rispose condiscendente Gianni, che ora cominciava a preoccuparsi un poco - Si chiama Laura anche quella?" "Sì, ed è lei, ne sono sicuro per Dio! Ora però so chi è ed entro stasera andrò a fondo della cosa." Gianni gettò i bicchierini di plastica vuoti nell'apposito raccoglitore. "Dai, torniamo dentro, manca poco all'ora di pranzo. Oggi andiamo dal Negri e ci spariamo due panini giganti a testa. Con lo stomaco pieno poi ne riparliamo, vuoi?" "Grazie Gianni, sei un caro amico!"

Rientrarono. La porta del direttore era aperta. Edoardo poté vedere il conte De Filippi che a quanto pareva stava chino su alcune carte, dei mappali. Laura non la poteva scorgere ma sentiva che era là dentro. Il direttore alzando lo sguardo lo vide e gli fece cenno di entrare. Con passo malfermo, col cuore in gola, entrò ancora una volta nell'ufficio di Dell’Orso. Laura era lì, accanto alla finestra dalla quale si potevano vedere il monte Calvario ed il monte Lusentino e guardava fuori distrattamente. Si voltò immediatamente non appena udì la voce dello zio dire: "Si accomodi ragionier Della Valle: avevamo giusto bisogno di lei." I due giovani si scambiarono un lungo sguardo; ma cosa era mai che li attraeva con così tanta forza? Si stava domandando Laura, mentre guardava quel bel viso regolare dalla mascella forte e volitiva e dagli splendidi occhi scuri? Edoardo aveva effettivamente un corpo molto ben strutturato, slanciato e atletico e quelle ampie spalle mal si addicevano a quello che in effetti era, un impiegato di banca.

"Vi conoscete per caso, voi due?" Domandò il conte De Filippi cui non era sfuggito quello sguardo così intenso. "Noi? Beh, no! Almeno non credo..." Balbettò Laura. "No! - Rispose con gelida fermezza Edoardo piantando lo sguardo sul volto flaccido del nobile - Non ci conosciamo ancora. Comunque piacere, signorina, io sono Edoardo Della Valle." Lei gli porse la mano e lui la strinse con delicatezza fra le sue: un torrente di emozioni e sensazioni prese a scorrere fra loro. L'ufficio del direttore, la banca, il conte... nulla esisteva più attorno.

I due giovani si avvicinarono sempre di più, sempre più vicini... poi Laura si gettò improvvisamente fra le braccia del giovane che la tenne stretta a se mormorando: "Laura, Laura, amore mio!"

Si baciarono a lungo, inconsci del luogo in cui si trovavano e delle persone che incuriosite li stavano osservando. Il direttore si levò dalla sua poltroncina e si affrettò a chiudere la porta attraverso cui entravano gli sguardi maliziosi degli impiegati. Lentamente i due giovani tornarono alla realtà. Il conte De Filippi, imbarazzatissimo, tormentava il pomolo del suo bastone da passeggio lanciando di sottecchi sguardi verso il direttore che pizzicava i corti baffetti grigio topo. "Così non vi conoscevate voi due, vero?" Esclamò sopito il nobiluomo. "Laura - continuò severo rivolgendosi alla nipote ancora fra le braccia del giovane Della Valle - Se mi avessi detto come stavano le cose... Perché non me ne hai mai parlato? Che necessità c'è di stipulare contratti per compra-vendita di terreni quando, a vedervi, c'è da credere saranno tutti vostri? Lei Della Valle - chiese il conte - non è l'unico proprietario di quel terreno che confina con il mio?" "Sì! Sono l'unico erede di mio padre, il padrone di tutte le terre e della montagna su cui sorge la mia casa..." "E fa l'impiegato di banca?" S'informò il conte con un sorrisetto. "E allora?" "No, dicevo così per dire. Chi si occupa dell'amministrazione delle sue terre e della conduzione delle campagne e del resto?" "Io stesso con l'aiuto del mio collaboratore dottor Silvio Concina." Il conte De Filippi l'interruppe: "Ma non è il figlio del fattore di vostro padre?" "Sì, è lui! E' nato nella mia casa e mio padre gli pagò gli studi fino alla laurea in agronomia. Non è mio dipendente, è come un fratello." In quella situazione molte cose non erano chiare, nemmeno ai due giovani... Laura si sciolse dall'abbraccio di Edoardo e disse: "Bene, è stata una mattina faticosa... Voi ci scuserete vero, se ora ce ne andiamo via il ragionier Della Valle ed io. Zio, aspettaci a casa verso le venti e trenta di stasera. Io e Edoardo dobbiamo parlare da soli. Ho ragione?" "Sì, da vendere, direi!" Rispose il giovane. "Ah, direttore - soggiunse - mi faccia trattenere una mezza giornata di ferie. Buon giorno conte De Filippi!" I due giovani uscirono raggianti dall'ufficio.

Gianni, seduto alla sua scrivania, li guardò camminare verso l'uscita centrale della banca. Lasciò cadere la biro che aveva fra le dita, picchiò le mani sulla scrivania ed esclamò ripetutamente: "Cazzo! Cazzo e cazzo!" Una risata generale s'infranse contro la porta automatica della filiale della Popolare di Novara che si stava richiudendo dietro a quei due.

Continua.........


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