venerdì, gennaio 10, 2014
Lpl pubblicherà in esclusiva, a partire da oggi, un ciclo di racconti indetiti del noto scrittore Silvio Foini. (prima parte)

“Mi dica quando le farò male, herr Umberto.” Mi irrise il mio aguzzino spingendo brutalmente il tubo d'acciaio dentro il mio intestino. Il dolore fu tanto atroce che gocce di sudore miste a sangue e lacrime solcarono il mio viso raccogliendosi in una piccola macchia rossastra sul tavolo di legno sotto i miei occhi. “Il cielo vi punirà! - Gridai al colmo della disperazione e dell'orrore.- Se non lo farà lui, io tornerò dalla morte a fare giustizia! Maledetti voi per sempre e maledette le madri che vi generarono!”

“Sentite come strilla! Che, non ti piace traditore?” Disse il capitano delle S.S. “In Germania, nei nostri campi dove concentriamo gli ebrei e i bastardi come te, facciamo anche di meglio, sai? Anzi, perché no? Facciamo di meglio anche qui, ora! Vedrai che ti piacerà!” I due soldati che assistevano loro capitano intuirono subito ed eseguirono l'ordine senza che fosse impartito. Presero un lungo pezzo di cavo elettrico, separarono i due poli del filo di rame, li liberarono dal rivestimento di stoffa e carta che li ricoprivano e li collegarono ad una spina che sarebbe andata ad inserirsi in una presa di corrente. Fecero altrettanto con uno solo dei due fili del cavo elettrico e lo fissarono alla fine del tubo. “Siamo pronti!” Annunciarono. Il capitano Rainer si posizionò davanti a me e mi sollevò il viso prendendomi per i capelli. “Traditore, vuoi deciderti a parlare o preferisci che ti facciamo ballare un poco con la corrente?” Gli risposi: “ Fai quello che vuoi. Ti giuro che me la pagherai!” “Come! Pretendi di minacciarmi? La tua vita è nelle mie mani. Non mi sfuggirà di certo!” “Crepa maledetto!” Risposi piangendo.

Un istante dopo mi sembrò che un mostro si fosse risvegliato dentro di me e mi squassasse tutto. Il mio corpo tremava percorso dalla corrente: gli aguzzini avevano toccato con un filo elettrico il tubo d'acciaio che sporgeva dal mio intestino e con l’altro i miei testicoli. Credetti fosse giunta la fine. Così sarebbe stato se nella stanza non fosse entrato il comandante tedesco che era venuto a vedere come procedeva il mio interrogatorio. “Allora, ha parlato?” Domandò ai compagni. "No signore - Rispose il capitano delle S.S. - E' più duro di quel pensavamo... Mi lasci continuare e vedrà che gli si scioglierà la lingua" "No. Per oggi basta così! - Ordinò il Mittner - Mi serve vivo. Ributtatelo in cella.” Pensavo che ora mi avrebbero tolto dall'intestino quel pezzo di tubo infernale ma mi sbagliavo. Infatti sollevarono il tavolo ove mi avevano torturato e mi portarono in cella così com'ero. Chiusero la porta e mi trovai al buio, dolorante e distrutto nel corpo e nello spirito. Ma non cedetti: dovevo vendicarmi, fargliela pagare per tutto ciò che mi avevano fatto. Sentii il campanile della nostra chiesa battere le quattro e mi parve che una voce, nel silenzio, mi chiamasse per nome. Credevo di stare delirando e non vi feci caso. La voce mi chiamò ancora. “Chi sei?” Domandai senza nemmeno sperare in una risposta. "Sono Giulio! Sono proprio io, non temere." "Come fai ad essere qui? Hanno preso anche te?" Chiesi trasalendo a quella voce. "No, non mi hanno catturato. Almeno non adesso: mi hanno fucilato sette giorni or sono..." "Sei morto, allora?" "E sepolto, se così si può dire!" “Saremo di nuovo insieme fra non molto...” Sussurrai con un filo di voce. "Spero solo di non continuare a soffrire. Non mi puoi togliere quel coso dal sedere? Mi fa un male!” "Guarda che bastardi sono! - Esclamò la voce dell'amico venuto a consolarmi dall'al di là. - Mi spiace Umberto. Non posso toccarti: moriresti immediatamente. Abbi pazienza: la tua sofferenza grida vendetta davanti a Dio e agli uomini. Non morirai prima di esserti vendicato. Ti posso promettere solo questo: ucciderai il comandante tedesco e quell'altro capitano delle S.S.” "Come potrò? Non vedi in che condizioni mi hanno ridotto, Giulio?" La voce nel buio della cella continuò. “Tu dirai loro quello che io ti sto per suggerire. Sono notizie false ma che si aspettano di sentirti dire, patteggerai con loro. Per qualche tempo ti lasceranno vivo ed io ti aiuterò a compiere non vendetta ma giustizia.”

Il giorno appresso il comandante tedesco venne nella prigione ove mi trovavo legato a pancia in giù sul tavolo della tortura e mi chiese, irridendomi, se avessi trascorso una buona notte. Mi mostrai molto disponibile a parlare ed egli diede ordine immediatamente che mi liberassero da quella posizione. Mi sfilarono brutalmente il tubo dall'ano e quando mi misero in piedi, notai che il sangue mi colava lungo le gambe. Ero debolissimo. Mi portarono da mangiare ed un paio di calzoni con una maglia di lana. “Non sarebbe stato meglio per lei parlare subito, herr Umberto? Perché farsi torturare? Se lei collabora, le saremo riconoscenti come lo siamo con quel suo camerata, il Signor Gabriele Bianchi che ci sta rendendo grandi servizi.” “Ecco chi è il traditore.” - Pensai con un'ira furibonda che mi si agitava nel cuore - E' quel maledetto buono a nulla del Gabriele!” Nell'udire quelle parole. Marco s'insospettì e domandò: “Non è, per caso quel Bianchi padrone della segheria? ... Ma no, non si chiama Gabriele. Si chiama Alcide...” L'uomo riemerso dalle profondità del lago sorrise... “Invece è proprio lui. Si tratta della stessa persona! Si è cambiato il nome... come se tanto servisse a darsi una ripulita. Tuttavia in paese alcuni ricordano egualmente. Solo i giovani non sanno!” “Ecco come ha fatto a mettere insieme tanti soldi! - Disse Marco avvampando d'odio nei confronti del suo datore di lavoro. - Ti posso assicurare, papà, che è rimasto lo stesso bastardo che hai conosciuto tu! Come posso vendicarti di ciò che ti ha fatto?" “Lascia perdere, figliolo. Tutto a suo tempo. Tutto a suo tempo. Ho imparato che tutto arriva al momento opportuno”. Marco si tormentava le mani al pensiero che quella palla di lardo fosse l'autore della rovina di suo padre. “Comunque, tornando a noi - Riprese il fantasma - confermai al comandante tedesco che ero disposto a collaborare purché mi venissero dati dei soldi oltre alla libertà. Incominciai a raccontare, dopo che mi venne assicurato tutto quel che avevo richiesto, un sacco di false storie sui movimenti dei partigiani, facendo nomi e cognomi di persone morte anche da vent'anni o, addirittura mai esistite. Parlai di oscuri piani, di trame segrete, di delatori, spie e quant'altro il comandante aveva sempre desiderato sentire. Non c'era un solo brandello di verità in quanto avevo detto ma tutto era stato raccontato con una verosimiglianza tale che il tedesco si precipitò alla radio per mettersi in contatto con il comando centrale di Milano e la Gestapo per comunicare le importanti notizie di cui era appena venuto a conoscenza. Sapevo di avere un vantaggio di poche ore: la Gestapo non ci avrebbe, impiegato di più a capire che l'informatore aveva raccontato un mucchio di "balle." Comunque io avevo raccontato quel che lo spirito di Giulio mi aveva suggerito. Il comandante Mittner tornò poco dopo nella cella ove mi avevano sistemato e mi comunicò che dovevo essere trattenuto ancora per quella notte e per il giorno seguente: se le informazioni che avevo fornite avessero, corrisposto alla verità, sarei stato mandato libero con un premio di diecimila lire. Mentre diceva quelle cose potevo leggergli in faccia, a chiare lettere, che mentiva. Ero assalito da brividi di freddo che mi scuotevano come il vento fa, d'autunno, con le canne del lago. Avevo dolori in ogni parte del corpo e mi sentivo svuotato di ogni forza. “Come potrò vendicarmi - Pensavo - Se nemmeno mi reggo sulle gambe?" Il tubo d'acciaio che le S.S. avevano usato per torturarmi era ancora lì, accanto, quasi a ricordarmi quel che ancora mi poteva aspettare. Cercai di mettermi in contatto con lo spirito di Giulio ma non ci riuscivo: probabilmente mi mancava anche la forza di concentrazione.

Disteso sul materasso di crine che mi avevano fornito, bontà loro, ricordo che incominciai a pregare. Mi accorsi che prendevo forza nel farlo, stranamente ma realmente. Verso le tre di mattina ebbi l’impressione che, nell'angolo sinistro della stanza in cui mi trovavo, ci fosse qualcuno. “Giulio, sei tu?” Chiesi. Non ottenni risposta. Ripetei la domanda altre due volte e, finalmente, l'ombra che era apparsa rispose: “Sono io, Umberto! Il momento sta per giungere! Fatti forza! Ti starò accanto! Hanno saputo che hai raccontato loro delle fandonie ed ora stanno venendo qui... Stanno arrivando... sono in due: il comandante tedesco e l'S.S. Presto, raccogli quel tubo e mettiti di fianco alla porta. Muoviti! – M’incitò, vedendo che esitavo. - Appena si apre, picchia con tutta la forza che ti rimane il tubo sulla testa del primo che entra. Uccidilo! - Sibilò - Non appena vedrai anche l'altro, colpiscilo con un calcio all'inguine, poi chiudi la porta." Ascoltavo incredulo le parole dell'amico: "Come potrò fare quello che mi stai dicendo? - Domandai saggiando le mie scarsissime forze - Ammetti pure che riesca a rompere la testa al primo, l'altro mi sopraffarà in un attimo!" "Quando sarà il momento - Promise la voce del fantasma - Avrai anche la mia forza. La forza dell'odio è mille volte superiore a quella di un povero corpo. Ora, - Gridò quasi - vai alla porta, stanno per entrare!"

Mi sorpresi dell'agilità con cui balzai giù dal lettino ed afferrai il pesante tubo d'acciaio che stava sul pavimento. In un istante fui a lato della porta, le braccia alzate e le mani strette spasmodicamente attorno al tubo. La porta si aprì violentemente, spinta più che dalla mano del capitano Rainer, dall'ira che lo pervadeva. Accese la torcia poiché era buio nella stanza e la lama di luce andò a colpire la parete di fronte, illuminò il pagliericcio su cui nessuno giaceva quindi roteò fulminea per tutto il perimetro della cella. L'ufficiale entrò imprecando, ma ben presto s'interruppe perché il tubo stretto nelle mie povere mani compì un arco velocissimo e preciso colpendo il cranio rasato del tedesco. Fu un rumore che non avevo mai udito prima, ma che mi impressionò. L'S.S. senza un lamento cadde in avanti sul pavimento dove, uno scarafaggio spaventato riguadagnò precipitosamente il proprio nascondiglio.

Il comandante tedesco Mittner, pistola in pugno, entrò a sua volta nella cella buia, illuminata appena dalla torcia del compagno finita sotto il pagliericcio. Sentii dentro di me una strana forza che sicuramente non poteva provenire dalle membra sfinite e peste che mi ritrovavo. Compresi che era quella di cui mi aveva parlato Giulio poco prima: sfruttai l'attimo di stupore che vidi sul viso cattivo del Mittner e, con inaudita violenza, lasciai partire un terribile calcio che lo raggiunse all'inguine. Un grido gli morì nella gola ed egli si accasciò mugolando di dolore. Immediatamente richiusi la porta della cella che era rimasta aperta e trascinai il mio aguzzino in mezzo alla stanza. Raccolsi la torcia ed illuminai l'angolo in cui prima era apparso lo spirito del mio amico. Era ancora là e sorrideva: "Hai visto che ce l'hai fatta? Uno è morto, l'altro è in mano tua. Nessuno li verrà a cercare qui almeno per un po'! Fai del capitano ciò che vuoi. La giustizia ora è tua, Umberto." "Lo debbo uccidere, Giulio?" La risposta venne come una fucilata: secca e implacabile. "Sì!" “Poi che mi accadrà?” Domandai terrorizzato. "Ciò che ti aspetta sarà comunque, Umberto - Rispose la voce dello spirito con tono che non ammetteva repliche - Fra poche ore dovrai morire: portati almeno dietro questo uomo malvagio e libera il mondo dalla sua immonda presenza. Deve morire soffrendo. Così è comandato!" Avevo ascoltato la sentenza della condanna a morte per il mio aguzzino provenire direttamente dall'al di là. Come potevo discutere? Quanto male aveva fatto quell'uomo che ora era ai miei piedi! Avevo giurato di vendicarmi solo il giorno avanti oppure il giorno ancora precedente? Non me lo ricordavo; ora dovevo solo farlo. Lo legai strettamente per i polsi con la cintura di cuoio dei suoi pantaloni quindi gli immobilizzai le gambe con la correggia della fondina della pistola che portava quello che avevo ucciso per primo. Attesi che si riprendesse dal dolore lancinante che gli aveva procurato il mio calcio sferratogli al basso ventre con la forza della disperazione, quindi gli puntai la luce della torcia elettrica direttamente negli occhi. Aveva la bava alla bocca e cercava di vedere chi fosse dietro quella luce che lo abbagliava. "Bastardo! - Esordii - Non mi riconosci più? Tè lo avevo detto che me l'avresti pagata!" "Tu!" Bisbigliò. "Bravo! Avevi dei dubbi? Quando prometto una cosa, io la mantengo, come puoi vedere! Ora ti ucciderò per quello che hai fatto e non solo a me. Ti ricordi di quell'uomo che hai cercato di arrestare qualche tempo fa? Quel tal Giulio che ti ha beffato, quello che ha fatto fesso te ed i tuoi grandi guerrieri crucchi? Ti debbo uccidere anche per lui, sai? - Mi voltai verso l'amico che era sempre rimasto in fondo alla cella e gli chiesi - Dì, ti può vedere, Giulio?" "Certamente! - Rispose la voce nell'ombra - Ora sta per morire, mi può vedere ed anche sentire." Il comandante Mittner voltò il viso di scatto udendo quelle parole e riconoscendo quella voce. "Mi vuoi far credere di essere morto tu? Ti ho fatto fuggire come una lepre attraverso il lago: che cosa sei tornato qui a fare?" "Sono tornato per te, comandante. Mi hanno fucilato lunedì scorso i tuoi compagni, sulla riva del Toce, a pochi chilometri da Domodossola. Un istante prima di essere colpito da una pallottola tedesca, pregai Dio di rincontrarti e di vederti morire. Credi non sappia quel che hai fatto a mia sorella la sera che fuggii? L'hai violentata e poi con la baionetta le hai aperto la pancia, maledetto. Ora, per mano di quest'uomo che hai torturato, morirai allo stesso modo: con la pancia aperta. Io starò fino all'ultimo qui accanto per prendermi la tua anima e condurla dove merita. Umberto - mi invitò poi lo spirito di Giulio - Compi la tua giustizia!"

Marco ascoltava il racconto di suo padre con il fiato sospeso, sobbalzando di tanto in tanto. L'uomo tornato dalla profondità del lago e dalla Morte gli stava narrando la più incredibile delle storie. Dopo una breve pausa, riprese il racconto. "Il tedesco implorava che lo lasciassi vivere, prometteva libertà e danaro: sapevo perfettamente che stava mentendo, ormai avevo imparato a conoscere i tedeschi. Raccolsi il fodero con la baionetta che avevo sfilato dalla sua cintola prima di legarlo e ne provai il filo taglientissimo sul palmo della mano: - Quanti ne hai sgozzati, con questa crucco? Lentamente gli tagliai la giubba di panno spessa un dito quindi la camicia di cotone e la maglia di lana che stava a contatto con la pelle: il prigioniero mi guardava sprezzante. "Cosa pensi di fare, italiano traditore? Non sai che tu, vivo, da qui non uscirai?" Lo schernii: "L'importante è che nemmeno tu ne esca vivo. Ora vediamo se il sangue di voialtri maledetti è rosso come il nostro." Sotto lo sguardo compiaciuto dello spirito di Giulio, senza pietà, affondai la lama d'acciaio nello stomaco del mio nemico che urlò di dolore. "Fa male?" Gli domandai guardandolo negli occhi. Con il sangue, dalla bocca uscirono le sue ultime parole e devo dire che mi colpirono non poco: "Oggi tu mi uccidi ma io mi vendicherò e maledico la tua razza... Un giorno mi prenderò tuo figlio..." In preda all'ira, spinsi la lama ancora più a fondo e la tirai verso il basso. Uscirono i visceri... ma ormai il comandante Mittner era morto. Raccolsi il tubo d'acciaio col quale mi aveva fatto sodomizzare e glielo posizionai nel ventre. "Portatelo all'inferno, crucco!"

A quel punto mi sentii svuotato d'ogni forza ed energia: la mia vendetta era compiuta, ora potevano fare di me quel che volevano. Guardai negli angoli bui della stanza, ma lo spirito del mio amico non c'era più. Pensai di fuggire ma mi mancavano le forze. Mi accasciai al suolo accanto ai corpi dei miei due nemici ed attesi. Non passò nemmeno un quarto d'ora che nella stanza irruppero tre soldati armati: alla luce delle loro torce apparve lo spettacolo che avevo preparato. Urlarono nella loro lingua parole che non compresi, quindi mi presero a calci, poi mi stordirono colpendomi al capo con qualcosa di pesante. Quando rinvenni, notai che faticavo a respirare, ero legato mani e piedi, chiuso probabilmente dentro ad un sacco di iuta. Dovevo essere su di una barca o qualcosa del genere: probabilmente eravamo sul lago.

Sentivo discutere tre uomini, ma non comprendevo nulla. Meglio così: avrei sofferto ancora di più se avessi inteso quel che si dicevano. Ad un certo momento, la barca si fermò. Mi venne tirato un calcio poi aprirono il sacco in cui ero rinchiuso. Attesi il colpo di pistola rassegnato al mio destino, ma questo... non venne. Vidi la sagoma di un gatto che si divincolava e poi quella di un altro. Li gettarono dentro al sacco con me e poi lo richiusero. I due animali, spaventati, mi piantarono le unghie ovunque sul corpo, cercando una possibile via di fuga. Urlai per il dolore quando un'unghia di uno di quelle povere bestiole penetrò nel mio occhio destro: sentii che gocciolava, non saprei se sangue oppure acqua, fatto sta che non vedevo più nulla. Rivolsi una breve preghiera a Dio: non l'avevo ancora terminata che mi sentii sollevare e scaraventare fuori bordo. L'acqua gelida del lago si chiuse sopra di me ed i miei infelici compagni che si dibatterono strenuamente, poi nel sacco, che stava affondando, rimasi vivo io solo. Non potevo più trattenere il fiato.

Un senso di pace infinita mi aveva preso. Sapevo che potevo benissimo respirare: perché non farlo? Respirai profondamente e sentii i polmoni raggelarsi per l'acqua fredda che entrò in loro. Poi venne la notte ed io, stanco, mi addormentai. Finalmente ero libero e felice. In un istante riemersi dalla profondità nera del lago. La barca con la quale ero stato trasportato fin lì, si stava allontanando pigramente con i tre tedeschi che stavano ridendo. Ora compresi anche quel che stavano dicendo. Ridevano pensando a come ero morto. Venne da ridere anche a me, sai Marco? Come potevo essere morto se ero lì, accanto a loro? Mi ricordai improvvisamente di te e di tua madre ed in un attimo vi fui accanto: provai a chiamarvi, ma non potevate udirmi. Non potevate udire la voce dell'al di là. Piansi dal dolore ma venni subito consolato: seppi che avrei potuto starvi accanto per sempre. E così è stato e sempre sarà, figlio mio. Anche tua madre è qui, adesso.

Solo che tu non la puoi vedere. Non è ancora pronta..." Marco si accorse di stare piangendo: sentiva fortissimo l'impulso di correre verso quell'uomo che era stato suo padre e di abbracciarlo, ma non lo fece. Ricordava ciò che quel fantasma gli aveva ordinato: "Non toccarmi! Ne ora ne mai!" "Anche se non apparteniamo più allo stesso mondo - Esclamò - tu sarai sempre mio padre ed io tuo figlio!" "Questo è vero. Marco! Un giorno saremo ancora tutti e tre insieme, io, tu e tua madre. Un giorno."

Il giovane rimase qualche istante pensieroso: quanti misteri attorno a lui. Non se ne era mai accorto. Aveva vissuto i suoi vent'anni così, semplicemente come avrebbe potuto viverli un cane oppure un gatto, preoccupandosi di soddisfare i suoi propri bisogni primari, mangiare quando aveva fame, bere quando aveva sete, fumare delle sigarette, dormire quando aveva sonno. Quand'era uscito da quell'istituto in cui era stato accolto amorevolmente, tra virgolette, aveva appena compiuto 16 anni e non sapeva che ne sarebbe stato della sua vita. Un lavoro vero e proprio non l'aveva ed il pescatore non l'avrebbe fatto: era un mestiere che non pagava. Uscire la notte con la barca, sul lago nero come l'inchiostro, sia che piovesse o ci fosse il vento freddo che scendeva dalle montagne, per portare a riva qualche luccio oppure qualche trota, non valeva tanto sacrificio. Ricordava le parole che gli diceva, un tempo, suo padre frenando la sua propensione di bimbo ad accompagnarlo sul lago a pesca. Così, a 16 anni, l'anziano parroco, Don Bruno, l'aveva fatto assumere come garzone nella segheria del Bianchi e gli aveva trovato quel misero alloggio nella vecchia cascina prospiciente alla riva del lago.

Adesso, era il 1955, aveva 20 anni e un lavoro che, anche se non era il massimo, almeno gli permetteva di campare. Rialzò lo sguardo per domandare qualcosa allo spirito di suo padre, ma con grande costernazione, non lo vide più. Qualche alga rinsecchita stava sul pavimento, sola testimone che non aveva sognato. Lo spettro di suo padre, l'Umberto matto, era veramente stato lì, accanto a lui, in quella misera stanza dal pavimento fatto di scricchiolanti assi di legno, attraverso le fessure delle quali, si vedeva il portico sottostante. "Ed ora, che faccio di me stesso? - Si domandò affacciandosi alla finestra della stanza che dava sul lago - Come potrò affrontare il pericolo che mi minaccia? E quel grasso porco del Bianchi? Dirgli che so tutto di lui e di ciò che ha fatto a mio padre? Prenderlo a calci la prima volta che mi tratterà male? Beh! - Sospirò guardando le nuvole lontane nel cielo della sera che si andava tingendo di rosso - Ora è meglio che vada al negozio della Lia a comperare qualcosa da mangiare. Anche oggi non sono andato a lavorare. Ma in fondo, non me ne frega un niente! Si rompa la schiena da solo quel maiale traditore del padrone. Tanto non lo temo più di certo. Anzi, ora sarà lui a temere me. Mi pagherà anche quando non lavorerò... Quanto meno, me lo deve. E' stato lui la rovina della mia famiglia!" Gettò un ultimo sguardo sul lago e si perse nell'osservare le cime delle Alpi che gli facevano corona. Quel lago ricolmo più di misteri che di pesce. Là, in fondo, la Rocca di Angera, posta in cima ad una collina, sembrava una muta e severa sentinella che stava diventando sempre più nera nell'incipiente notte. Il negozio della Lia stava proprio dietro la Chiesa, in una viuzza stretta ed in salita: Marco vi entrò facendo tintinnare il campanello sopra l'uscio. L'aveva fabbricata lui quella porta: ci aveva messo due domeniche di lavoro, poi era venuto un vetraio da Sesto Calende e, nell'intelaiatura, aveva posizionato un grosso vetro. Al suono argentino rispose la voce dell'anziana donna: "Arrivo subito... un momento!" Infatti poco dopo, la tenda di ciniglia che separava il vano negozio dal retro si aprì. " Oh, sei tu Marco! Mi hai trovata per miracolo. Stavo per chiudere. - Indicò il grosso orologio omaggio della Galbani - Vedi, sono quasi le sette... Che ti do?" "Due panini all'olio e un etto di salame. Grana grossa - Aggiunse mentre prendeva una bottiglietta di Coca Cola dallo scaffale alle sue spalle - Tagliato sottile, per favore." - La Lia prese dal bancone un grosso salame e lo sistemò nell’affettatrice. Lo strinse fra i denti d'acciaio della macchina e cominciò a girare la manovella che azionava la lama rotonda ed affilata. Marco rimase incantato ad osservare quel lucente disco che ruotava e tagliava il salame col tipico rumore ritmico. “... Ancora Marco?” “No, penso che basti! Grazie Lia!” Rispose il giovane come scuotendosi da quella sorta di torpore nel quale era caduto osservando la lama ruotare... ruotare. "Prenditi anche quella banana. - L'invitò la negoziante - E' l'ultima rimasta e domani la dovrò gettare. Stasera è ancora buona. Su, te la regalo. Marco." "Grazie, sei gentile! Quant'è?" "Stasera niente! - Rispose sorridendogli l'anziana donna - L'ultimo cliente non paga!" “Oh, questa non la sapevo!” - Esclamò Marco con gratitudine - Ora vado nella mia stanza a mangiare. Grazie ancora. Ah, se avessi bisogno di me per qualche lavoretto al bancone, chiamami! Tanto io, la domenica, non vado a spasso. Non ho ancora da parte i soldi per comprarmi la Lambretta. " Era sulla porta del negozio e stava tirando la maniglia quando Lia lo fermò: "Perché non stai a mangiarli qui da me i panini? Adesso chiudo il negozio. Almeno non mangerai da solo e neanche io. Poi facciamo anche il caffè. Vuoi?" "Oh sì, grazie! - Rispose il giovane ben felice di poter rimanere a parlare con qualcuno - La tiro giù io la serranda." Afferrò la maniglia alta sopra la sua testa e tirò verso il basso. La pesante saracinesca scese rumorosamente lungo la guida e toccò il gradino di sasso. Marco fece scattare il lucchetto interno di sicurezza, quindi richiuse con cura la porta di legno. "Eccomi Lia! - annunciò ponendo il sacchetto con la sua cena sul vetro del bancone - Sono contento che tu mi abbia invitato a restare qui!" "Che vuoi, da quando il mio Peppino se n’è andato a mangiar l’insalata dalla parte delle radici sono sempre da sola la sera. Mi viene la malinconia, mi ricordo del tempo che se n'è andato e mi viene da piangere. Sono vecchia sai? Presto chiuderò..." "Vuoi chiudere il negozio? - Chiese Marco - E dove andrò io a comperarmi il pane ed il resto?" Lia lo guardò con un sorriso: "Non dicevo del negozio... dicevo della mia vita, caro ragazzo. Quest'anno a maggio saran 80." "Pensavo fossi più giovane, davvero, ma non sei vecchia! Sei sempre uguale, come quando ti ho conosciuta. Ti ricordi che venivo qui con la mamma quando c'erano i Tedeschi e avevamo la tessera per il pane?" L'anziana donna sembrò fissare un punto lontano oltre le mura della casa: "Quanto tempo è passato caro il mio Marco! Quante ne sono successe!" Disse scuotendo il capo, bianco come la neve del Monte Rosa. "Sai me la ricordo bene la tua mamma. Quanti anni avrebbe se fosse ancora qui?" "Penso una cinquantina, Lia. Anno più, anno meno." "E il tuo papa?" "Anche lui. No, lui no! Ne avrebbe quasi sessanta. Tè lo ricordi?" Domandò Marco con una luce nuova che gli brillò negli occhi. "E chi se lo dimentica l'Umberto? - Rispose la donna assentendo con un gesto del capo - Lui sapeva leggere nel cuore di tutti. Ti poteva dire cosa ti era accaduto dieci anni prima, cosa ti sarebbe accaduto dieci anni dopo e poi, poi diceva che parlava con i morti. Io ci credevo... ci credo ancora adesso. Marco. A me aveva raccontato delle cose che nessuno, all'infuori di me e di mia madre avrebbe potuto sapere." "E dai, - fece Marco - andiamo a sederci di là che ho fame! Parliamo dopo!" Si sedettero attorno ad un tavolo rettangolare su cui era tesa una tela cerata a quadretti bianchi e rossi. Lia si affettò del pane scuro e staccò un pezzo di formaggio grana da una mezza forma che stava posata sul tavolo. Marco tagliò con cura i suoi panini a li imbottì con salame. "Prendi! - l'invitò la Lia - mettici dentro qualche pezzetto di burro... è più buono!" Marco accettò e prese a mangiare di gusto assentendo con cenni del capo. La donna si alzò e tolse dalla ghiacciaia un fiasco di vino. L'etichetta diceva che era Chianti. "Lascia stare la Coca Cola che ti fa venire le rane nella pancia, va! Beviti un bel bicchiere di questo! Continuò reggendo quasi con fatica il grosso fiasco - Ti fa sangue! Sei pallido, ne hai bisogno!" Il giovane tentò di rifiutare ma il bicchiere di vetro era ormai colmo. "Poi mi girerà la testa Lia... Non bevo mai vino..." "Ma va là! Bevi! Fa come faceva tuo padre... non si faceva pregare. Il mio buon Peppino, che era suo amico, glielo teneva da parte sai?" "Sì, così poi mio padre parlava con gli spiriti!... - Rispose allegramente Marco - Ma sì, oggi è una giornata molto particolare per me! Chissà se con questo in corpo rivedrò lo spirito di mio padre... Sai, mi sono ricordato di alcune cosette che intendevo domandargli prima che sparisse..." "Come sarebbe... prima che sparisse?" Domandò l'anziana donna allontanando dalle labbra il bicchiere di vino che stava accingendosi, a bere. “Sì... insomma... non so come dirlo Lia....” "Beh, almeno provaci no? Che, hai veduto tuo padre?" "Io credo... credo... anzi, sonò certo' di sì. Ho visto il suo spirito. Abbiamo anche parlato. A lungo. Ho saputo delle cose..." "Ohe, Marco, non vorrai mica spaventarmi, vero?" Disse la donna facendosi il segno della Croce per tre volte - Non ho bisogno di incubi notturni. Già non dormo che qualche ora..." "No, Lia! Non ti voglio spaventare! Facciamo così: finiamo di mangiare e poi io me ne vado a dormire e tu anche." L'anziana donna trangugiò d'un flato il suo vino quasi a farsi coraggio, quindi propose: "Ora faccio il caffè. Non quello di cicoria, quello vero, poi tu mi racconterai tutto. Stai tranquillo: tuo padre era una così cara persona che non mi spaventerà certo solo perché ora è morto o perché tu mi parli di lui. Avanti! - Lo incoraggiò, facendogli una carezza sui capelli biondi e disordinati - comincia a raccontare." L'orologio, omaggio della Galbani, camminò a lungo prima che Marco avesse terminato di parlare. Lia non l'interruppe mai anche se a tratti, sobbalzava sul sedile della sedia di legno. Il giovane parlava e beveva. Il fiasco col Chianti, ora, era vuoto ma Marco non era affatto ubriaco. "Allora? Ti ho raccontato tutto... Che ne pensi? Domandò il giovane alla sua attenta ascoltatrice." "Che vuoi, mi ha fatto venire i brividi starti a sentire. Comunque questo è un segno del cielo. Ascolta tuo padre: se ti ha detto che sei in pericolo lo sei davvero. L'Umberto non parlava mai a vanvera. Ecco che fine aveva fatto quella carogna di un comandante tedesco: ucciso da tuo padre. In paese tutti credevano che fosse stato trasferito altrove. Me lo ricordo sai quella volta che entrò in negozio e requisì gli unici due prosciutti e la mortadella per darli ai suoi tangheri di soldati. Il Peppino, che aveva cercato di opporsi, fu minacciato con la Lugher, una grossa pistola tedesca... Beh! Son felice che l'Umberto l'abbia fatto fuori. Ora tu devi stare in guardia. Marco. Quell'essere spregevole è tornato dall'inferno. Credo che la sua anima sia in quella sega nuova che è arrivata dove lavori tu. Stanne lontano, se puoi, altrimenti cambia lavoro. Anzi, ti faccio una proposta: vuoi il mio negozio? Io non ho figli e non saprei a chi lasciarlo." "Non m'intendo di salami e formaggi Lia. Sei davvero una donna generosa! Come potrei mai ripagarti?" "Col tuo lavoro qui dentro Marco. - Sorrise la vecchia - Se tu non vai più alla segheria, sarai fuori pericolo." Marco parve prendere in considerazione quelle parole e rimase un lungo istante pensieroso poi disse: "Accetto di cuore cara Lia, ma prima... prima devo rendere innocua quella macchina maledetta... devo far di tutto perché quell’anima dannata che in essa alberga, tomi da dove è venuta e vi rimanga per sempre. Ti prego di una cosa: non fare parola con nessuno di quanto ti ho detto. Quando tutto sarà finito, se finirà bene, intendo, io lavorerò nel negozio che però rimarrà sempre tuo, fino alla fine. Io sarò per tè quel figlio che non hai mai avuto e tu sarai la mia famiglia. Nel tuo cuore c'è tanta bontà... Verrò ancora domani e ti racconterò se sarà accaduto qualcosa. Buona notte Lia! Buonanotte e prega per me!" Marco uscì dalla porticina del retro e s'avviò per le stradine deserte e semibuie del paesino che stava, allora come oggi, in riva al lago. Era quasi giunto alla cascina in cui abitava quando s'accorse di essere seguito. Un grosso cane nero, mai veduto prima d'allora, camminava sui suoi passi. Marco si fermò e lo fìsso negli occhi scuri che brillavano alla luce della luna. Anche il grosso cane si fermò. Non si mossero entrambi per alcuni minuti poi Marco si voltò e riprese il suo cammino. Il cane rimase accucciato sui sassi sconnessi della stradicciola a guardarlo, finché il giovane non chiuse alle sue spalle la porta di legno della stanza in cui abitava. Allora si alzò e, trotterellando, raggiunse la cascina. Salì le scale e s'accucciò davanti alla porta. Marco si tirò le coperte fin sotto il mento, disse un'Ave Maria ed un Requiem Aeternam per i suoi morti quindi si addormentò. Domani doveva andare alla segheria. Qualcosa l'aspettava e non era certo piacevole. "Dove accidenti ti sei andato a cacciare, maledetto buono a nulla?" Con queste parole venne accolto dal grasso padrone della segheria il mattino dopo. Erano le nove passate da un pezzo: il giovane aveva tardato di proposito. "Dove diavolo mi pare, vecchio stronzo!" Rispose avvicinandosi ad un grosso tronco di abete, quasi ignorando il padrone. "Ohe! E' il modo di rispondere? Vuoi che ti prenda a calci? Se mi fai ancora uno scherzo del genere, ti ritroverai senza lavoro. Almeno per quanto mi riguarda. Capito bestione?" Marco balzò verso l'interlocutore e lo afferrò per il risvolto della giacca: l'espressione che gli si era dipinta sul volto terrorizzò l'uomo. Gli parve di scorgere negli occhi del giovane qualcosa di sinistro e pericoloso. Qualcosa che gli turbò la coscienza fin nel profondo. "Cosa fai Marco?" Biascicò l'uomo sbiancando in viso: non si sarebbe mai aspettato una simile reazione da parte del giovane lavorante. "Che faccio? Quello che mi pare, pancione! Ti dispiace? Mica sono il tuo servo sai? Credo che metà, o meglio tutta questa dannata segheria sia la mia! Visto e considerato che te la sei fatta vendendo, mio padre ai tedeschi vent'anni fa o poco meno... Allora, che mi volevi dire, socio?" Pose un particolare accento ironico sull'ultima parola. Il Bianchi deglutì a vuoto tre o quattro volte prima di riuscire a spifferare qualche monosillabo: "Ma che... cosa dici? Sei diventato matto? Che c'entrano i Tedeschi... tuo padre... con la ... la segheria?"

Marco lo teneva ancora per il bavero della giacca. Con stizza lo spintonò lasciandolo andare. L'uomo barcollando, indietreggiò, inciampò in un asse che stava alle sue spalle e cadde seduto per terra nella segatura. Rimase in quella posizione, le mani a palme aperte e le braccia irrigidite dietro al tronco, ad osservare il volto di Marco sul quale si era dipinta una maschera d'odio. L'uomo sapeva bene quanto fossero vere le parole che il giovane gli aveva sibilato ad un palmo dagli occhi. Ma come poteva aver saputo? Nessuno, in paese, aveva parlato più di quei fatti lontani. Probabilmente nessuno aveva mai saputo con precisione quel che era accaduto... Vecchi fantasmi passarono rapidamente nella mente del Bianchi. No, non poteva essere! Era assurdo. Riprese un poco della solita baldanza che gli veniva dal fatto di essere padrone. "Tu sei toccato nel cervello, caro il mio ragazzo..." bofonchiò rialzandosi da terra e rassettandosi gli abiti sgualciti e sporchi di segatura."Sei matto come..." Marco non lo lasciò terminare. "Attento a quel che dici, brutto bastardo! Se ti azzardi solamente a nominare mio padre, ti farò pentire di tutto quello che gli hai fatto vent'anni fa ed anche di quello che, indirettamente hai fatto a me."

Il grassone tacque. Pensò che gli convenisse. "Io non so nulla di quello che dici - Asserì con voce conciliante e poi proseguì con un sorriso di falsa benevolenza dipinto sulla grassa faccia - Ti comprendo Marco. Povero ragazzo! Hai avuto una vita dura e ce l'hai tuttora... Ho deciso di soprassedere su quanto è successo poco fa ed ho pensato che ti aumenterò la paga di 15.000 Lire al mese. Potrai andare a spasso con gli amici la domenica ed anche comperarti la Lambretta o la Vespa..." Marco sorrise. Il suo non era un sorriso di gioia, ma di amarezza infinita. "Che persona sconcia sei Bianchi! Ha fatto bene mia madre a respingerti: mi sarei vergognato se fossi stato tuo figlio. Capisci? Cerchi di comprarmi?" Il padrone della segheria impallidì: come poteva sapere quel particolare Marco? "Chi ti ha detto questa stupidaggine?" Sibilò fra ira e timore. Il giovane sorrise a fìor di labbra: "Colui che solo lo poteva sapere. Chi altri?" "Ma tuo padre è morto! Anche tua madre..." "Non lo sai che, a volte, loro ritornano? Non ricordi l'Umberto matto? Mio padre?" "Tu devi essere pazzo! Qualche serva del paese ti ha raccontato dei pettegolezzi e tu... credi di farmi paura con queste storie che vai dicendo. Vattene, sei licenziato! I pazzi sono pericolosi ed io non voglio averci a che fare più con tè. Fuori di qui! Ringrazia che non ti denuncio, balordo!" Marco esplose in una risata che raggelò il sangue nelle vene del Bianchi: "E di quell'assassino del Mittner e del suo degno compare Rainer, che mi dici? Sono anche queste chiacchiere di donne del paese? Eh? Non dormirei sonni tranquilli se fossi in te, maledetto traditore! Umberto, il vecchio Umberto, mio padre, è tornato. E' uscito dal lago e mi ha raccontato tutto. Di te, di mia madre, del Giulio... non ricordi il Giulio pescatore? Lurido maiale, per te sta arrivando la giustizia. Ora non ci sono più i crucchi che ti proteggono... aspetta e vedrai come verrà reso noto a tutti. Credevi di aver fatto tanto male e di non venir mai punito? Dio non paga solo il sabato!"

Bianchi taceva. Una ridda di pensieri gli turbinava nel cervello: Marco sapeva veramente tutto. Se il giovane avesse parlato, per lui e la sua adorata segheria sarebbe stata la fine. Che avrebbe detto poi la Tina, sua moglie? Era all'oscuro circa il suo passato di delatore. Avrebbe perduto oltreché al resto anche la sua stima. Decise quel che avrebbe fatto. E c'era da farlo subito. In quel preciso momento. "D'accordo bastardo! - annunciò con un sospiro di resa - Ti faccio socio al 50% della mia segheria. Ma con ciò si metta una pietra sopra di tutto. Il passato è passato. Mi spiace per tuo padre, ma erano tempi così: morte tua... vita mia... come dicevano gli antichi romani. Comprendi? Sei d'accordo con me, 'socio'?" Marco pensò di prendere tempo: non si sarebbe atteso dal Bianchi, da quell'uomo avarissimo ed avido, una capitolazione così repentina. "Vedremo, 'socio'! Domani ti darò una risposta. Vedrò di parlare con lo spirito di mio padre e seguirò il suo consiglio. La mia risposta sarebbe già no fin da ora, ma non si sa mai... tutt'al più ti farò fare la fine di quel porco del tuo vecchio amico Mittner. A proposito, se non lo sapessi, fu mio padre a dargli il benservito. Anche a quell'altro maledetto del Rainer." Aveva appena terminato di pronunciare quelle parole che, da dentro il capannone, sotto la tettoia, si udì il rumore di un motore elettrico che si metteva in funzione e girava al massimo. Lentamente quel rumore si trasformò in un urlo lugubre e terrificante. Il Bianchi spalancò gli occhi di solito ridotti a due fessure maligne e fece cenno con la mano in direzione del frastuono. "Cosa sta accadendo? Hai attaccato la nuova macchina alla corrente?” "No di certo, pancione! Et quella macchina tedesca che si mette in moto da sola. La sua lama una volta era un tubo d'acciaio di cui si servirono i tuoi amici per torturare mio padre..." "Madonna, Marco! Che stai dicendo? - Gridò terrorizzato il Bianchi - mi tirerai pazzo se continui così..." "Pazzo di dolore fecero diventare mio padre. Per colpa tua! L'Umberto con quello stesso tubo uccise i suoi due nemici ed al Mittner lo mise nella pancia. Il cadavere venne portato in Germania e là, il tubo fu tolto dal corpo di quell'assassino e finì in una fonderia dove recuperavano l'acciaio. Ma in quel tubo si era insinuata l'anima di quella carogna del Mittner. Ora è tornata qui! Vuole la vendetta. Cerca me. Per sua sfortuna mi ha trovato. Questa volta morirà per sempre!" Il padrone della segheria si accorse di sudare freddo. Si asciugò la fronte imperlata da grosse gocce e chiese a Marco: "Cosa intendi fare alla mia macchina, se è vero quello che stai dicendo?" "In un modo o nell'altro la distruggerò, stanne certo! Stavolta siamo alla resa dei conti per tutti, per Dio, vivi o morti! Ti saluto socio." Il giovane voltò le spalle all'ex padrone e s'incamminò lentamente verso il cancello della segheria. Non l'aveva ancora raggiunto quando alle sue spalle gli giunsero delle grida ed il latrare sordo di un cane. Si voltò pronto ad affrontare il pericolo da qualunque parte provenisse. Poco lontano, dietro di lui, un grosso cane nero, dal lucido mantello folto, sovrastava il Bianchi steso per terra a pancia all'aria. A breve distanza un oggetto di metallo scuro. Una pistola con la canna lunga: una vecchia Lugher tedesca del tempo di guerra. Il grosso cane ringhiava minaccioso con le zampe anteriori poste sul petto del Bianchi. Marco comprese allora, appieno, di che pasta fosse fatto il suo ex padrone, il suo nuovo nemico. Tornò lentamente sui suoi passi e raggiunse l'uomo e la bestia che aveva la schiuma alla bocca. "Toglimi di dosso questa belva Marco! Per favore, aiutami!" Implorò pazzo di terrore il Bianchi. Marco rimase qualche attimo ad osservare il cane: era di una razza indefinita ma aveva una nobiltà spiccata che traspariva dall’armoniosa conformazione del corpo. Sotto il lucido mantello vibravano potentissimi muscoli, il muso era affilato come era quello di un lupo, i denti lunghi ed acuminati molto più di quelli d'acciaio della sega maledetta che stava poco più in là, sotto il capannone. "Volevi spararmi, alle spalle! Vigliacco! Il tuo cuore non è mutato, sei il solito traditore che eri vent'anni or sono. Perché mi chiedi aiuto? Non potresti avere un briciolo di dignità e comportarti da uomo? Mi fai schifo!" Concluse Marco raccogliendo da terra la pistola. Non si intendeva di anni, non ne aveva nemmeno mai impugnata una. La soppesò sul palmo della mano e provò un fremito d'orrore: sul calcio, quasi illeggibile un nome inciso: Mittner Henrich. "Proprio con questa?" Gridò Marco all'uomo steso per terra, tenuto ivi immobile dal cane nero. Alzò il braccio che l'impugnava verso il cielo e premette il grilletto. Una, due, tre, quattro volte. Uno, due, tre, quattro spari rintronavano nell'aria ed i bossoli caddero accanto al viso del Bianchi che era scosso da violenti tremiti. Quando Marco riabbassò il braccio che impugnava la Lugher tedesca, il suo padrone rideva... rideva... Poi, con un sussulto, quel riso si spezzò per sempre. "Ora puoi anche lasciar perdere, amico mio. E' morto!" Disse Marco posando la mano sulla testa del cane che gliela leccò cun un gesto d'affetto. "Grazie a te, sono vivo! Non ti avevo mai visto in giro per il paese prima dell'altra sera. Mi avevi fatto paura sai? Da dove vieni? Ce l'hai un padrone? Se vorrai, potrai vivere con me. Fammi dare un'occhiata a questo qui... Sì, - concluse il giovane rialzandosi dalla posizione chinata che aveva assunto per osservare il suo mancato assassino - è stato sprofondato all'inferno! Finalmente ha avuto ciò che si meritava!”

Il cane nero alzò il muso ed ululò. Marco raccolse i bossoli dei proiettili che con ira aveva esplosi verso il cielo, li ripose con cura nella tasca dei calzoni e così fece anche con la pistola. "Questa andrà in fondo al lago!" Si disse sollevando, il grasso corpo di quello che era stato, di certo, uno fra i migliori seguaci di Giuda. Lo trascinò fino davanti alla porta dello sgabuzzino che fungeva da ufficio e l'appoggiò, seduto, contro la parete di legno. Seguito dal cane che pareva essere diventata la sua ombra, uscì dalla segheria, richiuse il cancello con cura e poi gridò: "Presto toccherà anche a macchina diabolica!" Udì chiaramente il rumore della sega elettrica che si metteva in moto. "Urla quanto vuoi! Di lì, non ti puoi muovere!" Salito in paese raggiunse la piccola caserma dei carabinieri e raccontò ad un brigadiere di aver trovato morto il suo padrone.

Il sottufficiale scrisse per benino quel che Marco stava raccontando e quando ebbe terminato l'invitò a firmare la deposizione. "Ora andiamo a dare un'occhiata. Venga con me, per favore!" Con la camionetta verde, accompagnati da un militare, raggiunsero la segheria. Trovarono il corpo del Bianchi così come Marco l'aveva lasciato. "Infarto! - Sentenziò il brigadiere - Io me ne intendo. Sa che in Calabria, al mio paese, ne ho visti di morti così... Son tutti uguali! Hanno la bava alla bocca e..." "Se non le spiace - l'interruppe Marco - io dovrei andare a casa. Non mi sento molto bene..." "Ma certo! L'accompagniamo noi. Poi passiamo ad avvisare il dottore ed il prete." "Grazie! - Rispose Marco rifiutando l'offerta - Io ed il mio cane andiamo a piedi. Grazie comunque e buongiorno!" Arrivarono alla vecchia cascina Marco ed il suo nuovo amico, ma il cane, al momento di salire le scale che conducevano nella stanzetta occupata dal giovane, si arrestò. Uggiolò e guai. Leccò la mano del ragazzo, come a pregarlo di non insistere perché salisse e s'allontanò in direzione della riva del lago. Marco trasalì nel vederlo entrare in quell’acqua scura. Nuotò per qualche decina di metri, poi voltò il muso in direzione della spiaggia, abbaiò due volte e scomparve fra le onde che increspavano la superficie del lago.


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