martedì, giugno 04, 2013
Diciannove anni fa ci lasciava Massimo Troisi, un pezzo storico del cinema italiano, attore, regista e soprattutto l’uomo che fece della lingua napoletana un marchio distintivo. A quasi vent’anni di distanza, che cosa ci ha lasciato? 

di Ilaria Sulla

Spontaneo, genuino, tanto timido da avere difficoltà a relazionarsi con le ragazze, Massimo Troisi cresce in una numerosa famiglia meridionale, maturando una profondità non indifferente e una grande stima per Pasolini, cui dedica alcune poesie in dialetto napoletano. La passione per la recitazione gli fa compagnia sin da subito, ma Massimo è malato: è nato con un’anomalia cardiaca, per cui deve spesso sospendere i suoi spettacoli teatrali per controlli e interventi al cuore, ma non ne parla mai, tanto che ne sono a conoscenza solo le persone a lui più vicine.

Si dedica sia al teatro che al cinema, ma è con le pellicole che conquista il successo come uno dei più grandi della storia del cinema e della televisione italiana. Con Lello Arena ed Enzo Decaro conquista la popolarità con “La Smorfia”, in “Ricomincio da tre” è il giovane Gaetano, timido ragazzo di provincia che sogna la città, in “Non ci resta che piangere” è il bidello Mario, che insieme all’amico Saverio (Roberto Benigni) si trova catapultato nella Toscana di fine ‘400, e nell’ultimo film della sua carriera è Mario, il postino di Pablo Neruda (qui un omaggio). E’ l’ultima interpretazione di Troisi, che muore 12 ore dopo la fine delle riprese a soli 41 anni.

Ma qual è l’eredità che ci ha lasciato? Troisi ci fa comprendere, in ogni singolo personaggio interpretato, parola scritta o film diretto, che il legame con la sua terra è una cosa sacra. Dietro al cliché della napoletanità si è sempre nascosto un amore speciale e indissolubile per la sua patria. Che qualcuno potesse non comprendere il dialetto non era così essenziale: quel modo di parlare così confidenziale e sincero andava oltre la comprensione, e certo gli occhi si facevano capire. E’ emblematico il fatto che, alla domanda di Isabella Rossellini sul perchè parlasse sempre in napoletano, lui risponda: “Perché è l’unico modo in cui so parlare” (qui un pezzo dell'intervista).

Ma Napoli non è solo un dialetto da sfoggiare, e questo Troisi lo sa bene: Napoli vuol dire anche tanti problemi da risolvere. Non ignaro del potere dei mass media, Troisi usa gli schermi (sia televisivo che cinematografico) e il teatro per parlare all’Italia di Napoli, una città afflitta da piaghe come la povertà, la disoccupazione e la malattia.

“La sofferenza in amore è un vuoto a perdere: nessuno ci può guadagnare, tranne i cantautori che ci fanno le canzoni”, risponde ai microfoni di “Alta Classe” nel 1992. In effetti di amore se ne intendeva, o almeno di belle donne: l’italiana Anna Pavignano, l’americana Jo Champa, Clarissa Burt e Nathalie Caldonazzo (che sarà sua compagna fino alla scomparsa) sono i suoi legami sentimentali storici. Massimo era un uomo timido ma non è mai stato un uomo solo: nel corso della sua vita si è legato sempre a molte persone, spesso eccellenze dello spettacolo, come Roberto Benigni, Lello Arena, Marcello Mastroianni e Anna Pavignano.

“Il postino” segna l’ultimissima parte della vita dell’attore, che poco dopo la fine delle riprese muore. “Questo film lo voglio fare col mio cuore” diceva a chi gli consigliava di fare il trapianto e poi dedicarsi al film. Eccolo, il vero testamento morale di Massimo Troisi: la tenacia, la passione per il lavoro, l’amore per le radici e per le persone nonostante la debolezza fisica.


Sono presenti 2 commenti

Anonimo ha detto...

Con Troisi abbiamo trovata l'Italia distratta , trasandata ,semplice ed allo stesso tempo gentile, arguta e buona .

Anonimo ha detto...

peccato si capisse poco cosa diceva!

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