Chiedere a Dio la grazia di un cuore che sappia amare e non si lasci sviare da tesori inutili
Radio Vaticana - È la sostanza dell’omelia tenuta questa mattina da Papa Francesco a Casa S. Marta, durante la Messa concelebrata con il cardinale Francesco Coccopalmerio, il vescovo Juan Ignacio Arrieta e l’ausiliare José Aparecido Gonzalves de Almeida, rispettivamente presidente, segretario e sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, accompagnati da alcuni collaboratori del dicastero. Presente alla celebrazione personale della Fabbrica Basilica S. Giovanni in Laterano, guidato da mons. Giacomo Ceretto, oltre a dipendenti della “Domus Sanctae Marthae”. Il servizio di Alessandro De Carolis:
La caccia all’unico tesoro che si può portare con sé nella vita dopo la vita è la ragion d’essere di un cristiano. È la ragion d’essere che Gesù spiega ai discepoli, nel brano riportato oggi nel Vangelo di Matteo: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Il problema, spiega Papa Francesco, sta nel non confondere le ricchezze. Ci sono “tesori rischiosi” che seducono “ma che dobbiamo lasciare”, quelli accumulati durante la vita e che la morte vanifica. Constata con lieve ironia il Papa: “Io non ho mai visto un camion da trasloco dietro un corteo funebre, mai”. Ma c’è anche un tesoro che “possiamo portare con noi”, un tesoro che nessuno può rapinare, che non è – afferma – “quello che hai risparmiato per te”, ma “quello che hai dato agli altri”:
“Quel tesoro che noi abbiamo dato agli altri, quello lo portiamo. E quello sarà il nostro merito – fra virgolette, ma è il nostro ‘merito’ di Gesù Cristo in noi! E quello dobbiamo portarlo. E’ quello che il Signore ci lascia portare. L’amore, la carità, il servizio, la pazienza, la bontà, la tenerezza sono tesori bellissimi: quelli portiamo. Gli altri no”.
Dunque, come asserisce il Vangelo, il tesoro che vale agli occhi di Dio è quello che già dalla terra si è accumulato in cielo. Ma Gesù, rileva Papa Francesco, fa un passo oltre: lega il tesoro al “cuore”, crea un “rapporto” fra i due termini. Questo, soggiunge, perché il nostro “è un cuore inquieto”, che il Signore “ha fatto così per cercare Lui”:
“Il Signore ci ha fatto inquieti per cercarlo, per trovarlo, per crescere. Ma se il nostro tesoro è un tesoro che non è vicino al Signore, che non è dal Signore, il nostro cuore diventa inquieto per cose che non vanno, per questi tesori… Tanta gente, anche noi siamo inquieti… Per avere questo, per arrivare a questo alla fine il nostro cuore si stanca, mai è pieno: si stanca, diventa pigro, diventa un cuore senza amore. La stanchezza del cuore. Pensiamo a quello. Io cosa ho: un cuore stanco, che soltanto vuol sistemarsi, tre-quattro cose, un bel conto in banca, questo, quell’altro? O un cuore inquieto, che sempre cerca di più le cose che non può avere, le cose del Signore? Questa inquietudine del cuore bisogna curarla sempre”.
A questo punto, prosegue Papa Francesco, Cristo chiama in causa anche l’“occhio”, che è simbolo “dell’intenzione del cuore” e che si riflette sul corpo: un “cuore che ama” rende il corpo “luminoso”, un “cuore cattivo” lo rende buio. Dal contrasto luce-tenebre, nota il Papa, dipende “il nostro giudizio sulle cose”, come peraltro dimostra il fatto che da un “cuore di pietra”, “attaccato a un tesoro della terra” – a “un tesoro egoista” che può diventare anche un tesoro “dell’odio” – “vengono le guerre…”. Invece, è la preghiera finale del Papa, per intercessione di S. Luigi Gonzaga che oggi la Chiesa ricorda, chiediamo “la grazia di un cuore nuovo”, un “cuore di carne”:
“Tutti questi pezzi di cuore che sono di pietra, il Signore li faccia umani, con quella inquietudine, con quell’ansia buona di andare avanti, cercando Lui e lasciandosi cercare da Lui. Che il Signore ci cambi il cuore! E così ci salverà. Ci salverà dai tesori che non possono aiutarci nell’incontro con Lui, nel servizio agli altri, e anche ci darà la luce per conoscere e giudicare secondo il vero tesoro: la sua verità. Il Signore ci cambi il cuore per cercare il vero tesoro e così diventare persone luminose e non persone delle tenebre”.
Radio Vaticana - È la sostanza dell’omelia tenuta questa mattina da Papa Francesco a Casa S. Marta, durante la Messa concelebrata con il cardinale Francesco Coccopalmerio, il vescovo Juan Ignacio Arrieta e l’ausiliare José Aparecido Gonzalves de Almeida, rispettivamente presidente, segretario e sottosegretario del Pontificio Consiglio per i Testi Legislativi, accompagnati da alcuni collaboratori del dicastero. Presente alla celebrazione personale della Fabbrica Basilica S. Giovanni in Laterano, guidato da mons. Giacomo Ceretto, oltre a dipendenti della “Domus Sanctae Marthae”. Il servizio di Alessandro De Carolis:
La caccia all’unico tesoro che si può portare con sé nella vita dopo la vita è la ragion d’essere di un cristiano. È la ragion d’essere che Gesù spiega ai discepoli, nel brano riportato oggi nel Vangelo di Matteo: “Dov’è il tuo tesoro, là sarà anche il tuo cuore”. Il problema, spiega Papa Francesco, sta nel non confondere le ricchezze. Ci sono “tesori rischiosi” che seducono “ma che dobbiamo lasciare”, quelli accumulati durante la vita e che la morte vanifica. Constata con lieve ironia il Papa: “Io non ho mai visto un camion da trasloco dietro un corteo funebre, mai”. Ma c’è anche un tesoro che “possiamo portare con noi”, un tesoro che nessuno può rapinare, che non è – afferma – “quello che hai risparmiato per te”, ma “quello che hai dato agli altri”:
“Quel tesoro che noi abbiamo dato agli altri, quello lo portiamo. E quello sarà il nostro merito – fra virgolette, ma è il nostro ‘merito’ di Gesù Cristo in noi! E quello dobbiamo portarlo. E’ quello che il Signore ci lascia portare. L’amore, la carità, il servizio, la pazienza, la bontà, la tenerezza sono tesori bellissimi: quelli portiamo. Gli altri no”.
Dunque, come asserisce il Vangelo, il tesoro che vale agli occhi di Dio è quello che già dalla terra si è accumulato in cielo. Ma Gesù, rileva Papa Francesco, fa un passo oltre: lega il tesoro al “cuore”, crea un “rapporto” fra i due termini. Questo, soggiunge, perché il nostro “è un cuore inquieto”, che il Signore “ha fatto così per cercare Lui”:
“Il Signore ci ha fatto inquieti per cercarlo, per trovarlo, per crescere. Ma se il nostro tesoro è un tesoro che non è vicino al Signore, che non è dal Signore, il nostro cuore diventa inquieto per cose che non vanno, per questi tesori… Tanta gente, anche noi siamo inquieti… Per avere questo, per arrivare a questo alla fine il nostro cuore si stanca, mai è pieno: si stanca, diventa pigro, diventa un cuore senza amore. La stanchezza del cuore. Pensiamo a quello. Io cosa ho: un cuore stanco, che soltanto vuol sistemarsi, tre-quattro cose, un bel conto in banca, questo, quell’altro? O un cuore inquieto, che sempre cerca di più le cose che non può avere, le cose del Signore? Questa inquietudine del cuore bisogna curarla sempre”.
A questo punto, prosegue Papa Francesco, Cristo chiama in causa anche l’“occhio”, che è simbolo “dell’intenzione del cuore” e che si riflette sul corpo: un “cuore che ama” rende il corpo “luminoso”, un “cuore cattivo” lo rende buio. Dal contrasto luce-tenebre, nota il Papa, dipende “il nostro giudizio sulle cose”, come peraltro dimostra il fatto che da un “cuore di pietra”, “attaccato a un tesoro della terra” – a “un tesoro egoista” che può diventare anche un tesoro “dell’odio” – “vengono le guerre…”. Invece, è la preghiera finale del Papa, per intercessione di S. Luigi Gonzaga che oggi la Chiesa ricorda, chiediamo “la grazia di un cuore nuovo”, un “cuore di carne”:
“Tutti questi pezzi di cuore che sono di pietra, il Signore li faccia umani, con quella inquietudine, con quell’ansia buona di andare avanti, cercando Lui e lasciandosi cercare da Lui. Che il Signore ci cambi il cuore! E così ci salverà. Ci salverà dai tesori che non possono aiutarci nell’incontro con Lui, nel servizio agli altri, e anche ci darà la luce per conoscere e giudicare secondo il vero tesoro: la sua verità. Il Signore ci cambi il cuore per cercare il vero tesoro e così diventare persone luminose e non persone delle tenebre”.
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