Cosa vuoi fare da grande? Il calciatore, il veterinario, il pompiere, rispondevano una volta i bambini interrogati da genitori e maestri. A queste nobilissime professioni, da qualche tempo se n’è aggiunta un’altra, sicuramente meno nobile: quella del mafioso. La rappresentazione che spesso e volentieri pellicole cinematografiche e serie televisive forniscono finisce per essere un modo (sicuramente non voluto) di mitizzare la figura del criminale, rendendolo un eroe da imitare.
Ormai Spiderman, Superman e Batman sono supereroi fuori moda. I veri miti, oggi, sono Al Capone, Vito Corleone e Totò Riina. “Mentre gli altri volevano fare mestieri normali, io da piccolo sognavo di diventare come Al Capone o Tony Montana. Adesso che ho 19 anni ho realizzato che non mi è possibile, perché vivendo una piccola cittadina degli Usa qui non ho opportunità”, ha scritto in un lettera un ragazzino americano ad Antonio Nicaso, giornalista nonché uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta in Italia. La cosa non ci stupisce affatto, visto il forte ruolo educativo che media come televisione e cinema hanno sui ragazzi.
Il rapporto film/vita reale è talmente tanto forte che, come spiega Nicaso, “non si sa se i film hanno copiato i mafiosi o viceversa”. Ha dovuto sicuramente studiare molto Marlon Brando quando, nel lontano 1972, interpretò per la prima volta il personaggio di Vito Corleone, vincendo il premio Oscar come “miglior attore protagonista”. Uomo d’altri tempi, temuto, rispettato e amorevole padre dei suoi figli, don Vito riserva ai suoi nemici offerte “che non potranno rifiutare”. La “qualità” che spesso viene riconosciuta a uomini come il don Vito di Brando è quella del “self-made-man”, e cioè quell’uomo che parte dal nulla, dalla povertà, dalla miseria, e con il sudore del suo corpo e la fatica delle sue braccia, ma anche con un po’ di astuzia, la famosa “wit” inglese, e tanta violenza, costruisce un impero.
“L'occhio antropologico di Garrone non ha permesso quello che per me sarebbe stata una sconfitta, cioè di rendere incredibilmente interessanti dei personaggi per il solo fatto che questi personaggi militavano in certe organizzazioni”, ha detto Saviano a proposito del film tratto dal suo libro, “Gomorra”. Tra spaccio, traffico di armi e delinquenza di ogni tipo si muovono i camorristi di Napoli, eroi “di carta” che conquistano il potere ma, pericolosamente, anche alcuni spettatori. Un effetto analogo è stato prodotto dalla fiction televisiva “Il capo dei capi”, in cui viene ripercorsa la storia del mafioso “per eccellenza” (che però adesso è in gattabuia) Totò Riina. Quando il criminale diventa eroe romantico la popolarità cresce, come dimostra il proliferare di gruppi su Facebook a lui dedicati.
Il problema, se effettivamente è possibile dare una colpa a qualcuno, non sta nel parlare di mafia (perché di mafia si deve parlare), ma nel modo in cui lo si fa. Come ha scritto il giornalista Walter Giannò: “Una cosa è la battaglia culturale, un’altra è lo sfruttamento commerciale della presenza mafiosa nella realizzazione delle fiction televisive o nei lungometraggi per il grande schermo”.
Vero è anche che, se si parla di capolavori cinematografici, non si può evitare di citare “C’era una volta in America”, uno dei migliori film di Sergio Leone, in cui Noodles, un Robert de Niro giovane, adulto e anziano conosce la mafia (e quindi il potere), se ne innamora e ne viene distrutto. In questo caso l’eroe mafioso, quello che ha tutto e da tutti è temuto, finisce per diventare un uomo solo, incapace di dimostrare l’amore che prova per la sua amata e tradito dall’unico amico che gli è rimasto. L’eroe diventa antieroe, il potente impotente, ma ancora in grado di scegliere di non uccidere l’amicizia che lo lega all’amico traditore Max, perché continua a pensare, nonostante tutto, che quella è un'amicizia che “il tempo non può scalfire”.
Ormai Spiderman, Superman e Batman sono supereroi fuori moda. I veri miti, oggi, sono Al Capone, Vito Corleone e Totò Riina. “Mentre gli altri volevano fare mestieri normali, io da piccolo sognavo di diventare come Al Capone o Tony Montana. Adesso che ho 19 anni ho realizzato che non mi è possibile, perché vivendo una piccola cittadina degli Usa qui non ho opportunità”, ha scritto in un lettera un ragazzino americano ad Antonio Nicaso, giornalista nonché uno dei massimi esperti di ‘ndrangheta in Italia. La cosa non ci stupisce affatto, visto il forte ruolo educativo che media come televisione e cinema hanno sui ragazzi.
Il rapporto film/vita reale è talmente tanto forte che, come spiega Nicaso, “non si sa se i film hanno copiato i mafiosi o viceversa”. Ha dovuto sicuramente studiare molto Marlon Brando quando, nel lontano 1972, interpretò per la prima volta il personaggio di Vito Corleone, vincendo il premio Oscar come “miglior attore protagonista”. Uomo d’altri tempi, temuto, rispettato e amorevole padre dei suoi figli, don Vito riserva ai suoi nemici offerte “che non potranno rifiutare”. La “qualità” che spesso viene riconosciuta a uomini come il don Vito di Brando è quella del “self-made-man”, e cioè quell’uomo che parte dal nulla, dalla povertà, dalla miseria, e con il sudore del suo corpo e la fatica delle sue braccia, ma anche con un po’ di astuzia, la famosa “wit” inglese, e tanta violenza, costruisce un impero.
“L'occhio antropologico di Garrone non ha permesso quello che per me sarebbe stata una sconfitta, cioè di rendere incredibilmente interessanti dei personaggi per il solo fatto che questi personaggi militavano in certe organizzazioni”, ha detto Saviano a proposito del film tratto dal suo libro, “Gomorra”. Tra spaccio, traffico di armi e delinquenza di ogni tipo si muovono i camorristi di Napoli, eroi “di carta” che conquistano il potere ma, pericolosamente, anche alcuni spettatori. Un effetto analogo è stato prodotto dalla fiction televisiva “Il capo dei capi”, in cui viene ripercorsa la storia del mafioso “per eccellenza” (che però adesso è in gattabuia) Totò Riina. Quando il criminale diventa eroe romantico la popolarità cresce, come dimostra il proliferare di gruppi su Facebook a lui dedicati.
Il problema, se effettivamente è possibile dare una colpa a qualcuno, non sta nel parlare di mafia (perché di mafia si deve parlare), ma nel modo in cui lo si fa. Come ha scritto il giornalista Walter Giannò: “Una cosa è la battaglia culturale, un’altra è lo sfruttamento commerciale della presenza mafiosa nella realizzazione delle fiction televisive o nei lungometraggi per il grande schermo”.
Vero è anche che, se si parla di capolavori cinematografici, non si può evitare di citare “C’era una volta in America”, uno dei migliori film di Sergio Leone, in cui Noodles, un Robert de Niro giovane, adulto e anziano conosce la mafia (e quindi il potere), se ne innamora e ne viene distrutto. In questo caso l’eroe mafioso, quello che ha tutto e da tutti è temuto, finisce per diventare un uomo solo, incapace di dimostrare l’amore che prova per la sua amata e tradito dall’unico amico che gli è rimasto. L’eroe diventa antieroe, il potente impotente, ma ancora in grado di scegliere di non uccidere l’amicizia che lo lega all’amico traditore Max, perché continua a pensare, nonostante tutto, che quella è un'amicizia che “il tempo non può scalfire”.
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