mercoledì, maggio 01, 2013
Apprensione per le sorti del giornalista della Stampa Domenico Quirico, di cui non si hanno notizie dal 9 aprile. 

Radio Vaticana - In un messaggio inviato al cellulare di un collega, spiegava di essere sulla strada per Homs. Si trovava da tre giorni in Siria, aveva avvertito sia la moglie che la redazione che non sarebbe stato raggiungibile sul cellulare. Le persone con cui si trovava gli avevano chiesto di non utilizzare neanche il telefono satellitare: farlo lo avrebbe esposto al rischio di rivelare la sua presenza. Dopo aver mantenuto un silenzio di alcuni giorni, “La Stampa” ha deciso di diffondere la notizia. A spiegare il perché di questa scelta informativa, nell’intervista di Davide Maggiore è Mario Calabresi, direttore del quotidiano: ascolta

R. – Era stato deciso insieme alle autorità italiane e insieme alla famiglia di restare in silenzio per non intralciare una serie di ricerche che si stavano facendo. Domenico Quirico è andato in Siria, in un’area dove da tempo non andavano e non vanno giornalisti occidentali: nella zona di Homs, sulla strada tra Homs e Damasco. Noi sappiamo che è una zona molto pericolosa, molto difficile, in cui operano anche – oltre a gruppi jihadisti di natura varia – bande criminali, che possono fare sequestri e rapimenti. Domenico ci aveva avvisato che per un periodo di tempo sarebbe stato in silenzio. Quando sono iniziate le ricerche, noi non potevamo valutare se quel silenzio era ancora un silenzio – come dire – di lavoro, un silenzio operoso, senza problemi… Quindi è stato deciso di stare in silenzio per non accendere un riflettore, un faro su di lui, mettendolo in pericolo se stava invece cercando di tornare indietro.

D. – Quirico era ad Homs, non era il suo primo viaggio in Siria: avevate avuto dei riscontri da lui durante questo viaggio? Vi aveva descritto qualcosa delle condizioni in cui si trovava ad operare? C’erano dei presentimenti che la situazione di sicurezza non fosse esattamente come le altre volte?

R. – No, niente di questo tipo. Domenico Quirico è la quarta volta che andava in Siria nell’ultimo anno. Due volte era stato nell’area di Aleppo e questa era la seconda che entrava invece dal confine libanese. Aveva ben presente quale fosse la situazione. Le comunicazioni negli ultimi giorni in cui lo abbiamo sentito erano solo comunicazioni tecniche: “Sto bene, proseguo il viaggio”… Ma ci aveva spiegato da subito che da lì sarebbe stato impossibile scrivere e che avrebbe poi scritto i suoi reportage al ritorno. Quindi, noi oggi coltiviamo speranza e abbiamo fiducia nel lavoro che stanno facendo le autorità italiane, coordinate dall’Unità di crisi della Farnesina, e speriamo che portino al più presto ad un risultato per riuscire a trovare Domenico.

D. – Concluderei chiedendole se c’è un appello che vuole fare, oltre che ai colleghi che si occuperanno di informare su questa vicenda, anche a qualche altra persona che eventualmente fosse all’ascolto attraverso la radio?

R. – Naturalmente chiunque avesse notizie, le segnalasse. Però, anche una cosa importante: come abbiamo visto anche in situazioni precedenti di colleghi che sono scomparsi e che poi fortunatamente sono stati ritrovati, una cosa che fa grande danno sono i polveroni dell’invenzione di ipotesi e di piste non verificate, perché fanno perdere tempo a chi sta facendo le ricerche e spesso creano momenti di speranza che poi vengono delusi presto.

E sulla vicenda che ha coinvolto Quirico Davide Maggiore ha raccolto anche il commento di Domenico Affinito, vicepresidente della sezione italiana di Reporter Senza Frontiere: ascolta

R. – Reporter senza frontiere era a conoscenza della scomparsa di un giornalista italiano già da alcuni giorni, in quanto la notizia era stata riportata da un giornalista di un giornale belga alla sede locale belga. Ieri pomeriggio, prima che fosse diffusa la notizia abbiamo appreso il nome di Domenico Quirico direttamente da fonti del giornale. La scomparsa è un fatto che ancora non si riesce bene a valutare. Domenico Quirico è abituato, quando va in giro, a non avere molti contatti con la redazione ma anche con la famiglia stessa. Questo da quando fu rapito, nel 2011, durante la guerra in Libia.

D. – Più in generale, il caso di Domenico Quirico riporta l’attenzione sulla figura dell’inviato di guerra che segue i conflitti direttamente sul campo, ma che spesso subisce le conseguenze di queste stesse operazioni belliche…

R. – Con le ultime guerre, almeno negli ultimi 20 anni, stiamo assistendo a un meccanismo nuovo. Per i giornalisti è sempre più difficile recarsi sui fronti di guerra, in quanto il rischio di rapimenti e anche di uccisione è elevatissimo. Questo fa sì che le informazioni si abbiano attraverso canali nuovi, come i social network: informazioni che però difficilmente a quel punto sono verificabili. Quindi, è aumentata ancora di più l’esigenza che i giornalisti vadano in questi posti. Però, il giornalista viene visto come parte del conflitto, soprattutto se occidentale, soprattutto se nel conflitto sono coinvolti Paesi occidentali; viene visto come merce di scambio e come possibilità di ottenere soldi attraverso riscatti.

D. – Nonostante questi pericoli, la scelta degli inviati di guerra è comunque quella di continuare a partire…

R. – Non bisogna mai abbandonare la volontà di recarsi lì dove i fatti avvengono. Non c’è giornalismo se non c’è investigazione sulla realtà e contatto diretto con quella realtà. Per questo, i giornalisti hanno sempre voglia di andare in questi posti. Il giornalista che si occupa di esteri si occupa di questi fatti e quindi va a vedere cosa succede.

D. – E’ anche per questo, oltre che per il valore inestimabile di una vita umana, che, anche nel caso della sparizione di un singolo, è giusto che si mobilitino le istituzioni statali…

R. – Nel momento in cui lo Stato italiano si muove per tutelare un proprio giornalista, come potrebbe capitare per un diplomatico, per un cooperante, per un militare, lo Stato italiano non si sta muovendo per un singolo. Si sta muovendo per un bene superiore, perché nel caso del giornalista, del diplomatico, del militare, del cooperante si tratta sempre di persone che si occupano in qualche modo per l’intera comunità di fare un lavoro per tutta la comunità. Nel caso di un giornalista, perché è depositario di quel diritto che hanno tutti i cittadini italiani di essere informati. Il giornalista non è lì per nome proprio, è lì per conto di una comunità. Nel momento in cui succede qualcosa al giornalista, non c’è contraddizione nel fatto che si muova direttamente lo Stato italiano.


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