domenica, dicembre 16, 2012
Pochi organi di informazione hanno riportato che lo scorso 6 novembre, assieme all’elezione presidenziale, gli abitanti dello stato americano del Massachusetts hanno rifiutato la legalizzazione del cosiddetto “suicidio assistito”.

Uccr - La notizia ha una certa rilevanza in quanto il Massachusetts è rinomato per essere tra i più liberal degli USA, con il 48% di abitanti non particolarmente interessato alla religione. Ma c’è un altro motivo per cui vale la pena segnalare questo risultato, ovvero che contro il suicidio assistito si sono schierate le più importanti voci medico-scientifiche e mediatiche americane, oltre ovviamente alla Chiesa cattolica.

Stiamo parlando dell’American Medical Association (AMA), la quale ha ribadito la sua posizione espressa nel suo statuto: «E’ comprensibile, anche se tragico, che alcuni pazienti in costrizione estrema – come ad esempio coloro che soffrono di una malattia terminale, dolorosa e debilitante – possano arrivare a decidere che la morte è preferibile alla vita. Tuttavia, permettendo ai medici di partecipare al suicidio assistito si potrebbe causare più male che bene. Il suicidio assistito è fondamentalmente incompatibile con il ruolo del medico come guaritore, sarebbe difficile o impossibile da controllare, e pone seri rischi sociali». Quindi, si è proseguito, «anziché partecipare suicidio assistito, i medici devono efficacemente rispondere alle esigenze dei pazienti in fine vita. I pazienti non devono essere abbandonati una volta che si determina che la cura è impossibile. Interventi multidisciplinari dovrebbero essere richiesti, compresa la consultazione di specialisti, hospice, sostegno pastorale, consulenza familiare, e altre modalità. I pazienti verso la fine della vita devono continuare a ricevere sostegno emotivo, una cura adeguata al controllo del dolore, il rispetto per l’autonomia del paziente, e la buona comunicazione». In modo molto simile si è posta la Massachusetts Medical Society (MMS), spiegando che «il suicidio assistito non è necessario per migliorare la qualità della vita», ed esprimendo soddisfazione «che la maggioranza degli elettori è d’accordo sul fatto che il ruolo del medico è quello di guarire e consolare, non di aiutare la morte».

Ricordiamo che la stessa posizione contraria a eutanasia e suicidio assistito è stata recentemente assunta o ribadita anche dalla British Medical Association (BMA), dalla German Medical Association e dalla New Zealand Medical Association.

Dello stesso avviso anche l’American Nurses Association (ANA), la quale ha proibito con forza la partecipazione degli infermieri in pratiche di suicidio assistito o l’eutanasia, «perché questi atti sono in diretta violazione del Codice Etico, le tradizioni e gli obiettivi etici della professione, e la sua alleanza con la società». Si riconosce inoltre il disagio degli infermieri soffrono quando viene loro chiesto di partecipare ad un’eutanasia e al suicidio assistito, ribadendo che esistono dei limiti al diritto per diritto dei pazienti all’autodeterminazione.

Ma anche i media progressisti hanno posto un veto. Ad esempio il New York Times ha titolato: “Il suicidio di scelta? Non così in fretta” un articolo di un disabile pro-choice, Ben Mattlin, il quale ha sottolineato l’alto rischio di abusi: «ho vissuto così vicino alla morte per così tanto tempo che io so quanto sia sottile e poroso il confine tra coercizione e libera scelta e come è facile che qualcuno, inavvertitamente, ti influenzi nel sentirti svalutato e senza speranza», sentendo la pressione che ti dice essere «”ragionevole” lasciarsi andare, per alleggerire gli altri». Malato da sempre di atrofia muscolare spinale ha risposto ai sostenitori dicendo che «non si può veramente concepire le molte forze sottili che emergono quando la vostra autonomia fisica è irrimediabilmente compromessa». Tuttavia, ha continuato, «ho imparato quanto sia facile essere percepito come una persona la cui qualità di vita è insostenibile». La sua testimonianza è preziosa perché spiega quanto anche su questo «siamo inesorabilmente influenzati dal nostro ambiente circostante», non è mai una scelta libera. Così, l’esistenza di una legge liberalizzante diventa davvero molto pericolosa.

Anche un altro disabile, Shakira Hussein, affetta da sclerosi multipla, ha preso posizione spiegando «perché non vorrei che lo Stato sia un accessorio per il mio suicidio», il motivo è che «io non mi oppongo alla legalizzazione dell’eutanasia perché non riesco a capire il desiderio di aggirare il dolore e la dipendenza, mi oppongo perché credo che sia intrinsecamente discriminatorio per lo stato determinare che il desiderio di porre fine alla vita è in alcune circostanze una patologia psichiatrica da combattere, ma in altre circostanze è una scelta razionale di interrompere una vita che è vista come in possesso di meno valore. Mi oppongo perché non credo che l’eutanasia sia una scelta autonoma in una società che stigmatizza così i corpi malati e disabili, che vede l’invecchiamento come una diminuzione piuttosto che l’accumulazione, che non fornisce l’accesso veloce e universale alle cure palliative, che ha lunghe liste di attesa per l’accesso alle cliniche per la gestione del dolore». Così, i sostenitori dell’eutanasia «rafforzano la convinzione che una vita compromessa non è una vita degna di essere vissuta».

La stessa affermazione di Hussein è stata fatta da Martin Cullen, specialista di terapia intensiva a Sydney (Australia), il quale parallelamente ha spiegato: «ho assistito ad atteggiamenti pro-eutanasia di alcuni medici. Essi credono fermamente che la vita di alcuni pazienti non è degna di essere vissuta. Questa è una arrogante mancanza di rispetto per la dignità umana». Vogliamo infine inviare un saluto a Marco Plebani, che si è spento in questi giorni a Erba (Co), immobilizzato da 35 anni a causa di un incidente in motocicletta. «Vale sempre la pena vivere», amava ricordare quando i temi del fine vita erano sulla bocca di tutti.

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