giovedì, dicembre 27, 2012
Giovanni Paolo II, nell’Angelus del 13 febbraio 1994, così scriveva: “Una domanda interpella profondamente la nostra responsabilità: quale civiltà si imporrà nel futuro del pianeta?”

di Carlo Mafera

Dipende da noi se sarà la civiltà dell'amore, come amava chiamarla Paolo VI, oppure la civiltà - che più giustamente si dovrebbe chiamare inciviltà" - dell'individualismo, dell'utilitarismo, degli interessi contrapposti, dei nazionalismi esasperati, degli egoismi eretti a sistema”. Così diceva papa Wojtyla, che concludeva: “La Chiesa sente il bisogno di invitare quanti hanno veramente a cuore le sorti dell’uomo e della civiltà a mettere insieme le proprie risorse e il proprio impegno per la costruzione della Civiltà dell’Amore”.

La politica per sua natura è un servizio, in quanto ha come suo obiettivo proprio il bene comune quale presupposto essenziale per il pieno sviluppo della persona. Pertanto l’esperienza di fede dei credenti non costituisce un impedimento ad un serio e proficuo impegno politico, ma al contrario un dono prezioso da cui scaturisce quella sapienza e quella forza morale necessarie per vivere responsabilmente ed efficacemente l’esperienza politica.

Per realizzare la civiltà dell’Amore di cui parlava Giovanni Paolo II si deve ritornare alla legge impressa nella natura che permane come regola suprema di vita e principio etico, nonostante lo slittamento avuto con i "diritti fondamentali dell'uomo". Questa legge non è una coercizione, è al contrario una perenne sfida che si pone all'uomo perché in essa possa scoprire come esercitare la sua libertà e la sua progettualità. Ma l'uomo non può fare con la natura tutto ciò che desidera o che vuole: qui c’è il primato dell'etica nei confronti di ogni potenzialità che l'uomo scopre nella natura. Quando il legislatore pone al centro del proprio agire il diritto e ne scopre i fondamenti là dove persona e natura si ritrovano in un sano equilibrio, egli potenzia la legge e la rende norma stabile per l'agire dei cittadini nella società.

Il richiamo che in politica bisogna porre al centro la dignità della persona, unitamente al bene comune, non è nuovo: è da sempre l'insegnamento sociale della Chiesa. Ciò che oggi è necessario considerare sono le condizioni per la dignità della persona e il raggiungimento del bene comune. Alcune problematiche devono essere considerate proprio perché attestano "esigenze etiche fondamentali e irrinunciabili" per un credente sia che si impegni in politica sia quando è chiamato a valutare un programma per decidere del suo voto. Su alcune questioni è in gioco l'essenza stessa dell'ordine morale che tocca la totalità della persona. Pensare che la qualità della vita migliori solamente perché si qualificano alcuni servizi di comodità è illusorio e deludente se poi la concezione stessa della vita è lasciata all'arbitrio individuale. In una fase in cui sembra che la politica viva spesso solo di numeri e di programmazioni economiche, non è male che qualcuno richiami a volare più alto e riproponga una dimensione progettuale che sappia preparare il futuro. Questo tipo di far politica è vincente ed è capace di dissipare i sospetti e il velo di indifferenza, che caratterizza in particolare le giovani generazioni per l'impegno politico.

Alla luce di queste parole, il titolo di questa articolo “Fede e politica: un'utopia o un impegno possibile?” è volutamente provocatorio: esso vuole essere un invito a riflettere sul ruolo della politica quale via necessaria per la costruzione della “Civiltà dell’Amore”. Siamo consapevoli che anche per noi cattolici è importante, anzi oserei dire decisivo e urgente, parlare della politica nel suo vero significato, soprattutto in questo contesto storico di forte disaffezione e sfiducia verso la stessa politica, al fine di far emergere cosa significa pensare e agire politicamente.

Per rilanciare il prezioso ruolo che ha la politica, e in particolare quella svolta dai cristiani, illuminanti sono le parole di Benedetto XVI tratte dall’Enciclica “Caritas in Veritate” al n. 79: “Lo sviluppo ha bisogno di cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo, di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono, di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto ciò è indispensabile per trasformare i «cuori di pietra» in «cuori di carne» (Ez 36,26), così da rendere «divina» e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra”.

Un’ulteriore testimonianza concreta e luminosa di questa impegno ci è stata donata da Alcide De Gasperi, considerato il maggior statista del secolo scorso in Italia, uomo di grande fede, senso morale e rettitudine che, in riferimento al suo impegno politico, diceva: “Sto in ginocchio davanti a Dio per stare in piedi davanti agli uomini”. Egli viveva così l’impegno politico, in quanto era pienamente consapevole del vero valore della politica e della necessità di un coinvolgimento dei cattolici in essa. Ecco alcuni pensieri del magistero della Chiesa e di autorevoli esponenti del laicato cattolico che chiaramente ci dicono cos’è la politica:
La politica è una delle forme più alte della carità, cioè dell’amore verso il prossimo” (Paolo VI).
La politica, in quanto forma più compiuta di cultura, non può che trattenere come preoccupazione fondamentale l’uomo” (Mons. Luigi Giussani).
La politica è l’attività religiosa più alta dopo quella dell’unione intima con Dio: perché la politica è la guida dei popoli; è una responsabilità immensa; è un severissimo e durissimo servizio che una persona si assume” (Giorgio La Pira).

Del sindaco santo di Firenze mi sembra significativo estrapolare un piccolo pezzo autobiografico dove si può evincere il suo legame fortemente mistico con la Sacra Scrittura, da cui egli attingeva tutta la forza del suo agire politico (un retroterra incomprensibile ai politici di oggi). I biografi narrano di un’illuminazione ricevuta nell’Epifania del 1951, mentre assisteva alla messa nella Chiesa Nova a Roma. Ne parla La Pira stesso in una lettera alle claustrali dieci anni dopo: come il Signore abbia voluto affidare a lui, ormai impegnato nella vita pubblica, già con un’esperienza alle spalle nell’Assemblea Costituente, nel Parlamento e poi nel Governo, una particolare missione per l’unità e la pace dei popoli. È la sua visione teologica. Meditiamo sulle sue parole: “Questo corpo glorioso di Cristo Risorto agisce invincibilmente (malgrado tutto) come lievito trasformatore e come modello elevante attrattivo, sul corpo della città terrestre: sul corpo totale delle famiglie, delle città, delle nazioni, delle civiltà, dei popoli, di tutto il pianeta! La città celeste - questa Gerusalemme celeste “dalle muraglie d’oro” - illuminata dalla luce del Corpo glorioso di Cristo e dove regnano la bellezza, la unità e la pace, è il modello attrattivo verso cui è irresistibilmente attratta e verso cui irresistibilmente ascende (in mezzo a tante fatiche) la città terrestre. Peguy lo disse: «La città terrena è il cantiere ove la città di Dio si elabora e si prepara»”.

E questo progetto di rigenerazione della storia a immagine della città celeste è, come ci ricorda san Paolo, un mistero di unità, di comunione, di superamento di ogni divisione e discriminazione, perché su tutti gli uomini risplende l’immagine stessa del Creatore che li fa tutti fratelli.

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