Il verdetto delle urne è ormai chiaro: Obama alla Casa Bianca, Camera dei rappresentanti ai repubblicani. Una coabitazione da elevare a reale collaborazione.
Città Nuova - La vittoria di Obama sul filo di lana, il maggior numero di voti ottenuti da Mitt Romney e la nuova coabitazione con i repubblicani che hanno stravinto alla Camera dei rappresentanti dicono che Barack 2.0 non sarà un presidente di tutti gli statunitensi se non saprà trasformare la coabitazione forzata in condivisione.
Numerosi osservatori hanno sottolineato come l’elettorato Usa come mai si sia diviso in due per queste elezioni, in modo radicale e qualcuno dice definitivo. Sì, è stato un voto “di pancia” prima che di ragione, perché le differenze programmatiche tra i due candidati non possono essere definite radicali, come invece, ad esempio, si sarebbe potuto dire nel 2000 per le elezioni al cardiopalmo tra George W. Bush e Al Gore.
In politica estera, e in fondo anche in politica economica, le divergenze non sono state poi così stratosferiche, anche se la campagna da tre miliardi di dollari è stata giocata più sugli slogan contrapposti che sulla sostanza. Una “campagna twitter”, impostata sulla continua pubblicazione di slogan corti e immaginifici. Obama è il presidente della complessità: non ci sono ricette magiche per uscire dalla crisi economica e dalla crescita drammatica del debito pubblico statunitense, come non ce ne sono per uscire dall’Afghanistan o per contrastare efficacemente sui mercati gli emergenti Brics, colosso cinese in testa. Il primo mandato ha sancito la fine della teoria degli Stati Uniti come “gendarme del mondo”.
Ora il secondo Barack può semmai aspirare a diventare il “vigile del mondo”: il mondo è definitivamente multipolare. Gli statunitensi sanno combattersi fino al parossismo per eleggere un presidente, ma poi sanno anche rispettare le regole e, magari col naso turato, sostenere gli sforzi del vincitore. Obama ha la possibilità di fare di necessità virtù: può essere realmente il presidente di tutti, ma deve fare della coabitazione forzata coi repubblicani, e con chi più in generale la pensa diversamente, una chance: passare alla condivisione (o almeno alla collaborazione fattiva). Serve umiltà, serve spirito di servizio, capendo che i diktat, anche in campo etico, non sono più all’ordine del giorno.
Coraggio Obama, sappia far gesti di coraggioso dialogo, senza rinunciare al desiderio di giustizia che sembra animarlo sin dall’iniziale "Yes we can". Il mondo ha la febbre: gli Stati Uniti hanno la medicina necessaria a farla abbassare, quella della collaborazione e della condivisione. All’interno del Paese come all’esterno.
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Numerosi osservatori hanno sottolineato come l’elettorato Usa come mai si sia diviso in due per queste elezioni, in modo radicale e qualcuno dice definitivo. Sì, è stato un voto “di pancia” prima che di ragione, perché le differenze programmatiche tra i due candidati non possono essere definite radicali, come invece, ad esempio, si sarebbe potuto dire nel 2000 per le elezioni al cardiopalmo tra George W. Bush e Al Gore.In politica estera, e in fondo anche in politica economica, le divergenze non sono state poi così stratosferiche, anche se la campagna da tre miliardi di dollari è stata giocata più sugli slogan contrapposti che sulla sostanza. Una “campagna twitter”, impostata sulla continua pubblicazione di slogan corti e immaginifici. Obama è il presidente della complessità: non ci sono ricette magiche per uscire dalla crisi economica e dalla crescita drammatica del debito pubblico statunitense, come non ce ne sono per uscire dall’Afghanistan o per contrastare efficacemente sui mercati gli emergenti Brics, colosso cinese in testa. Il primo mandato ha sancito la fine della teoria degli Stati Uniti come “gendarme del mondo”.
Ora il secondo Barack può semmai aspirare a diventare il “vigile del mondo”: il mondo è definitivamente multipolare. Gli statunitensi sanno combattersi fino al parossismo per eleggere un presidente, ma poi sanno anche rispettare le regole e, magari col naso turato, sostenere gli sforzi del vincitore. Obama ha la possibilità di fare di necessità virtù: può essere realmente il presidente di tutti, ma deve fare della coabitazione forzata coi repubblicani, e con chi più in generale la pensa diversamente, una chance: passare alla condivisione (o almeno alla collaborazione fattiva). Serve umiltà, serve spirito di servizio, capendo che i diktat, anche in campo etico, non sono più all’ordine del giorno.
Coraggio Obama, sappia far gesti di coraggioso dialogo, senza rinunciare al desiderio di giustizia che sembra animarlo sin dall’iniziale "Yes we can". Il mondo ha la febbre: gli Stati Uniti hanno la medicina necessaria a farla abbassare, quella della collaborazione e della condivisione. All’interno del Paese come all’esterno.
Michele Zanzucchi
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