lunedì, giugno 06, 2011
Del nostro collaboratore Enrico Norelli, docente di "Storia del cristianesimo delle origini" presso l'Università di Ginevra

La liturgia ci ha abituati a collegare la commemorazione del dono dello Spirito alla comunità dei credenti in Gesù con una festa che ha luogo cinquanta giorni dopo Pasqua. È importante poter ricordarsi, in determinati momenti dell’anno, delle realtà della fede, perché questo ci aiuta a inserirle nella storia della nostra vita, individuale e collettiva. Questo legame, però, è dovuto alla lettura del dono dello Spirito alla chiesa che l’autore del libro degli Atti degli apostoli – lo stesso che ha composto il vangelo attribuito dalla tradizione a Luca – ha voluto proporre ai suoi lettori.

Che la chiesa abbia ricevuto attraverso Gesù il messaggio che annunzia è fondamentale, ma lo è altrettanto che essa lo annunzi, con la parola e l’azione, attraverso la forza dello Spirito. Perché? Nell’ebraico della Bibbia d’Israele, come nel greco usato da molti ebrei e cristiani dell’antichità e nel latino che divenne la lingua della chiesa cristiana d’Occidente, parole che indicano il “soffio”, l’“alito”, il “respiro” furono usate per parlare di Dio che agisce nella creazione, realizzandola e mantenendola.

I libri della Bibbia furono raccolti in Israele in modo che proprio all’inizio di essi si leggesse di un principio in cui Dio fece nascere cielo e terra da una situazione di caos dove le acque coprivano tutto e sopra di esse planava il “soffio di Dio”.

Gli antichi hanno capito presto che due cose erano indispensabili perché vi fosse vita: l’acqua e il respiro. Questo racconto biblico le fa intervenire entrambe, ma l’acqua, dapprima, come segno di disordine, di assenza di forma, non meno minaccia per la vita che condizione di essa. Occorre che il “respiro di Dio”, lo Spirito, non resti più “al di sopra” di essa, ma la compenetri, perché possa realizzarsi la creazione ordinata, quale Dio la desidera, cioè conforme alla sua “parola” o Logos. Ciò non significa che il nostro mondo diventi Dio, ma che è sospinto dal soffio di Dio.

I salmi esprimono volentieri questa consapevolezza. “Dalla parola del Signore sono stati resi solidi i cieli, e dal soffio della sua bocca, tutta la loro potenza” (Salmo 32,6); “ti riprenderai il loro soffio, (tutti gli esseri) verranno meno e torneranno alla loro polvere; invierai il tuo soffio, saranno creati e rinnoverai la faccia della terra” (Salmo 103,29-30).

Gesù, durante il suo ministero, agisce nella potenza dello Spirito di Dio: è lo Spirito che rende possibile la sua nascita (Mt 1,18; Luca 1,35), che discende su di lui al battesimo (Marco 1,10), che lo spinge nel deserto in vista della tentazione (Marco 1,12). Dio “ha unto Gesù con Spirito santo e potenza” (Atti 10,38). Dopo il ritorno di Gesù a Dio, lo stesso Spirito farà agire quanti credono in Gesù: “Non sarete voi a parlare, ma lo Spirito di mio Padre che parlerà in voi” (Marco 13,11). Il vangelo di Giovanni ha rappresentato questa presenza attiva ed efficace dello Spirito nella figura del Paraclito, un termine che in greco designa qualcuno che è invocato per assistere e difendere, ma anche per consolare (Giovanni 14,16.26; 15,26; 16,7).
Nessuno può darsi da sé lo Spirito di Dio, perché altrimenti avrebbe in qualche modo potere su Dio. In altre parole, nessuno può mettersi da solo in condizione di parlare e agire in un modo che Dio può assumere come parlare e agire proprio, in un modo che per così dire “impegna” Dio. Solo quest’ultimo può scegliere di fare a noi umani questo dono. Quando affermiamo che lo Spirito di Dio agisce nella chiesa, possiamo farlo perché Dio stesso ha voluto che così fosse. Questo ci mette in modo di compiere qualcosa di assolutamente straordinario: quel che noi facciamo, diventa opera di Dio. Ciò è possibile però solo perché viviamo nella fede in Gesù Cristo: è quanto esprime il vangelo di Giovanni in cui Gesù afferma che sarà lui stesso a inviare il Paraclito, dopo che se ne sarà andato. Gesù stesso è un Paraclito (Giovanni 14,16: il Padre “vi darà un altro Paraclito”; 1 Giovanni 2,1: “se qualcuno peccasse, abbiamo un Paraclito presso il Padre, Gesù Cristo giusto”). Il che non significa naturalmente che la chiesa o i suoi membri non sbagliano mai, o che tutto quel che fanno sia da considerare come azione di Dio, perché questo, ancora una volta, distruggerebbe la libertà sovrana di Dio. Ogni membro della chiesa, senza eccezione, può sbagliare e sbaglia. Ma ha anche la possibilità di far agire Dio attraverso il proprio agire, una possibilità che mai avrebbe potuto conquistare da sé.

I primi testi cristiani hanno espresso in vari modi questa convinzione, e due sono particolarmente chiari perché mettono in relazione il dono dello Spirito con la “partenza” di Gesù. Nel vangelo di Giovanni, Gesù, manifestandosi ai discepoli la sera della stessa domenica in cui era stata trovata la tomba vuota, soffia su di loro e dice: “Ricevete lo Spirito Santo; a chi perdonerete i peccati saranno perdonati e a chi non li perdonerete resteranno non perdonati” (Giovanni 20,22-23). Ritroviamo lo Spirito come soffio, e l’espressione chiara del fatto che, attraverso Gesù, Dio ha donato alla sua chiesa di agire a suo nome, perché solo Dio può perdonare i peccati.

Ma il racconto che ha determinato l’immaginario cristiano del dono dello Spirito alla chiesa è appunto quello degli Atti degli apostoli, che hanno legato quel dono alla festa di Pentecoste. Si trattava di una festa ebraica che si situava cinquanta giorni, cioè sette settimane (il nome ebraico della festa, Shavuot, significa appunto “settimane”), dopo la Pasqua; in origine festa agricola della mietitura, al tempo dei primi credenti in Gesù essa ricordava il dono della Legge sul monte Sinai. I rabbini, infatti, l’avevano inserita in una serie di feste destinate a ricordare, nell’anno, i tempi della storia d’Israele: come Pasqua celebrava l’uscita dall’Egitto, così la Pentecoste celebrava la Legge, data sul Sinai qualche tempo dopo. Con quel dono, Dio aveva dato al popolo d’Israele il modo di essere testimone dell’amore del suo Dio, attraverso la propria maniera di vivere.

Tra i primi scrittori cristiani, l’autore degli Atti è particolarmente sensibile all’esigenza della comunità di Gesù d’inserirsi nella durata del tempo. Tiene a sottolineare come la resurrezione apra un tempo, che potrà essere lungo, in cui i credenti porteranno il vangelo nel mondo e trasformeranno quest’ultimo. Ha messo il dono dello Spirito in rapporto con questo passar del tempo e ha voluto segnalare questo fatto distanziandolo dalla resurrezione di Gesù: già in Atti 1,4-5, Gesù ordina ai discepoli di restare a Gerusalemme, aspettando per un certo numero di giorni il “battesimo” nello Spirito. Il modo poi in cui gli Atti descrivono, al c. 2, la venuta dello Spirito sui discepoli ricorda volutamente i fenomeni che accompagnarono il dono della legge al Sinai (per esempio Esodo 20,18-20).

Così, poiché la Resurrezione di Gesù era sin dagli inizi legata alla Pasqua e realizzava una nuova liberazione operata da Dio dopo la liberazione d’Israele dall’Egitto, questo autore ha proposto ai propri lettori un nuovo significato della Pentecoste come festa del dono dello Spirito. La Pentecoste ebraica celebra la capacità concessa ad Israele di rendere visibile, in ogni suo atto, mediante l’osservanza della Legge, l’azione del Dio che l’ha liberato; e la Pentecoste cristiana celebra la capacità concessa al gruppo dei discepoli di Gesù di rendere visibile, in ogni suo atto, l’azione del Dio che l’ha liberato. Non dovremmo dimenticare che ebrei e cristiani convergono, ognuno per la sua strada, verso quella meta comune che ci rappresentiamo come la “venuta” di Dio per il giudizio, cioè per mettere fine al male e per far trasparire il suo amore in ogni angolo dell’universo.

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