Il nostro redattore Bartolo Salone ci parla di uno dei libri più belli e controversi della Bibba
Chi l’avrebbe mai detto che l’antico popolo ebraico, pur tanto originale nella concezione religiosa (ispirata ad un rigido, inspiegabile monoteismo in un’epoca in cui gli altri popoli erano tutti dominati da culti politeistici), avrebbe presentato delle “pecche” nell’ambito della produzione poetica e letteraria? In realtà, la presenza nella Bibbia di “perle” di raffinata poesia come il “Cantico dei cantici” testimonia il contrario. Il Cantico, infatti, non è una raccolta di canti popolari, anche se il suo autore (indicato nell’opera stessa, al primo versetto del primo capitolo, nel famoso re Salomone, ma che in realtà noi non conosciamo) si rifà certamente alla tradizione dei canti popolari eseguiti anticamente in occasione delle feste nuziali. Il Cantico è piuttosto l’opera di un abile letterato del V-IV secolo a. C., che nulla ha da invidiare alla poetessa greca Saffo, a testimonianza del fatto che anche Israele ebbe, al pari dei popoli circostanti, una poesia d’amore di tutto rispetto.Forse nessun altro libro biblico ha dato adito a problemi di canonicità e a varietà di interpretazioni come il Cantico dei cantici, la cui peculiarità consiste non tanto nel fatto che si parli dell’amore tra un uomo e una donna quanto nel fatto che il tema dell’amore è sviluppato senza alcun riferimento esplicito a Dio. Proprio per questa ragione, intorno al 90 d. C., sorse in una città della costa meridionale della Palestina, Jamnia, in piena occupazione romana, un aspro dibattito tra le autorità religiose ebraiche circa l’opportunità di inserire il Cantico nella raccolta ufficiale e definitiva, nel canone appunto, dei libri sacri. Il problema era come poter considerare divinamente “ispirato” un libro in cui non si parla affatto di Dio (il nome di Dio non compare che una sola volta e in modo alquanto stereotipato al capitolo 8, v. 6), ma solamente dell’amore passionale tra due innamorati, peraltro con un linguaggio estremamente corposo, in alcuni passi ai limiti dell’erotico. Dopo un dibattito serrato, prevalse comunque la posizione del grande maestro rabbinico Rabbì Aqibah, al quale si deve il più bel commento che si sia mai scritto in proposito: “Nessuno in Israele ha mai dubitato che il Cantico dei cantici possa sporcare le mani – cioè sia ispirato. Tutto il mondo non vale quanto il giorno nel quale è stato dato al popolo di Israele il Cantico. Tutti gli scritti sono santi ma il Cantico dei cantici è il santo dei santi”.
Israele ha sempre visto nelle vicende amorose dei protagonisti del Cantico un riflesso dell’esperienza storica del popolo ebraico nel suo travagliato rapporto con Dio: un rapporto fatto di alti e di bassi, di fedeltà e di tradimenti, di allontanamento e di riavvicinamento, insomma un rapporto passionale, come quello tra due eterni innamorati. Ad un primo livello di interpretazione, quello letterale, se ne aggiunge dunque un altro più profondo, che rimanda alla fede del popolo ebraico nell’unico Dio. Questo secondo livello di interpretazione (implicitamente suggerito dal testo mediante l’utilizzo di immagini allusive, simboli, doppi sensi, che a fatica noi moderni riusciamo a cogliere, ma che dovevano sembrare al contrario molto eloquenti agli ebrei di duemila anni fa) non annulla tuttavia il primo, il che rende il Cantico dei cantici un’opera attualissima, visto che è la celebrazione di quella esperienza tipicamente umana che è l’Amore.
Dei due giovani protagonisti del Cantico non conosciamo neanche il nome: sappiamo solo che sono due ragazzi che si amano e che desiderano stare insieme tutta la vita. Passata la stagione invernale, ecco sbocciare nel cuore di questi giovani un desiderio profondo di conoscersi. Tale desiderio coincide proprio con il risveglio primaverile della natura, quasi a sottolineare la funzione rivitalizzante dell’amore, che tutto rinnova e che con la sua forza trattiene il creato dal rischio di risprofondare nel nulla. Amore e vita – pare suggerire l’autore sacro – costituiscono un tutt’uno ed è per questo che non si può parlare dell’amore senza parlare della vita: da qui l’impiego di termini il più possibile concreti, tratti dalla realtà naturale (frutti, fiori, alberi), dalla geografia dei luoghi, dal mondo del lavoro, dal gergo militare, dalla vita familiare, e così via.
L’autore sacro è molto attento nel non cadere nella tentazione, tipicamente platonica, dell’idealizzazione dell’amore. Anzi, sono messi nettamente in rilievo i valori della “corporeità”, che va di pari passo con l’attrazione erotica, come si può osservare dall’elogio che lo sposo fa della sposa nel seguente passo: “Come sono belli i tuoi piedi nei sandali, figlia di principe! Le curve dei tuoi fianchi sono come monili, opera di mani d’artista. Il tuo ombelico è una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato. Il tuo ventre è un mucchio di grano circondato da gigli. I tuoi seni come due cerbiatti, gemelli di gazzella” (7, 2-4). La sposa a sua volta esprime così il suo desiderio di congiungersi carnalmente con il suo diletto: “Oh, se tu fossi un mio fratello, allattato al seno di mia madre! Trovandoti fuori ti potrei baciare e nessuno potrebbe disprezzarmi. Ti condurrei, ti introdurrei nella casa di mia madre; m’insegneresti l’arte dell’amore”. Nella concezione biblica, l’uomo è unione indissolubile di corpo e anima; ecco perché l’amore non può non coinvolgere anche la sfera corporea!
Tuttavia, l’amore è molto di più che la semplice congiunzione carnale di due esseri in cerca di piacere. Contro quest’altra pericolosa tentazione di stampo edonistico, il Cantico non omette di considerare, con sano realismo, la complessità e anche le criticità del rapporto di coppia: il senso di solitudine che spinge l’essere umano ad aprirsi all’altro, a mettersi in ricerca; le ansie, i timori e i pericoli insiti in questa ricerca affannosa dell’amato; l’esperienza del distacco, la sofferenza della lontananza. L’amore non è solo rose e fiori. L’amore è anche sofferenza, ma una sofferenza “necessaria”, perché l’alternativa sarebbe la morte. E questo vale non solo per l’amore coniugale, ma per ogni tipo di amore, ivi compreso l’amore di Dio. E’ illusorio pensare di poter amare senza soffrire. Di questa illusione purtroppo si nutre la mentalità moderna e forse è per questa ragione che i rapporti umani oggidì sono così deteriorati, a partire proprio dai legami familiari. L’amore viene visto sovente come un limite alla propria autorealizzazione piuttosto che come un “mezzo” necessario per vivere in pienezza.
Eppure, “se uno desse tutte le ricchezze della sua casa in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio”, perché “forte come la morte è l’amore, tenace come gli inferi la passione” (8, 6-7). Parole, queste, che compendiano il significato di tutto il libro e che dovrebbero indurre noi tutti ad una più approfondita riflessione sul tema dell’amore.
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