venerdì, aprile 29, 2011
Proseguiamo con gli speciali dedicati alla Beatificazione di Giovanni Paolo II: Bartolo Salone prende spunto dall'attentato di Ali Agca e ci parla del perdono cristiano, grandemente testimoniato da Papa Wojtyla.

Era il 13 maggio 1981. Giovanni Paolo II, dopo un’udienza generale, passando a bordo della sua papa-mobile in mezzo alla folla che lo attendeva in piazza San Pietro, venne raggiunto da due colpi d’arma da fuoco. Fu il panico generale. Il Santo Padre, in fin di vita, venne immediatamente soccorso e trasportato in ospedale. Cinque ore e mezzo di intervento gli salvarono la vita, ma da quel momento papa Wojtyla non fu più lo stesso: la sua salute ne risentì bruscamente e cominciò un processo di decadimento fisico progressivo, fino alla scoperta del Parkinson che ne segnò gli ultimi anni di vita. Non fu una vecchiaia facile quella che il grande papa si trovò a sperimentare, ma sostenuto da una singolare fede in Dio dimostrò con coraggio al mondo intero come il cristiano affronta la sofferenza e la morte. Con la grazia di Dio, infatti, il dolore si tramuta in amore e la sofferenza, sopportata per amore del Signore, diventa a sua volta occasione di salvezza per noi e per chi ci sta accanto. Tra gli innumerevoli esempi di santità che papa Wojtyla ci ha lasciato, il suo rapporto con la malattia rimane davvero unico e costituisce ammonimento per quanti – e oggi sono sempre di più, anche tra i cristiani – vedono nelle sofferenze apportate dalla malattia la beffa di un’esistenza che non vale più la pena di essere vissuta, se non addirittura il segno del venir meno della grazia di Dio.

Ma ritorniamo a quel tragico e al contempo provvidenziale 13 maggio. Come si diceva, la vita del Pontefice infine fu salva, pur con gli innegabili pesanti postumi. L’attentatore, un killer professionista turco di nome Ali Agca, venne subito arrestato e poi condannato all’ergastolo dalla nostra magistratura per attentato a Capo di Stato estero. Niente pentimento, niente sensi di colpa: il solo rammarico di Ali Agca è stato di non aver portato a compimento il suo piano omicida. Dall’altro lato, profondo senso di gratitudine e di riconoscenza da parte di Giovanni Paolo II, il quale, convinto che la Madonna avesse con la sua mano deviato il proiettile, impedendogli di raggiungere organi vitali, volle che il proiettile fosse incastonato nella corona della statua della Vergine a Fatima. Il 13 maggio ricorreva infatti l’anniversario della prima apparizione della Madonna ai tre pastorelli, avvenuta a Fatima nel 1917, e per il Papa non si trattò di un semplice caso.

Le ricostruzioni e le congetture che da quel momento si fecero sull’attentato sono state molteplici: dalla pista “bulgara” a quella mafiosa e addirittura “vaticana” (non essendo mancato chi ha ipotizzato un possibile coinvolgimento del Vaticano nell’attentato). A trent’anni di distanza non ci è dato sapere quale sia la verità: lo stesso attentatore, d’altro canto, è stato sempre molto reticente nel confessare la verità, cambiando sovente versione sulla dinamica dei fatti. Gli appassionati di intrighi e di misteri probabilmente ne gioiranno, avendo, chissà per quanto tempo ancora, di che speculare. Novelli Dan Brown potranno cimentarsi a scrivere dei romanzi, continuando a lucrare su quella morbosa attrattiva per il male che alloggia da sempre nel cuore degli uomini. Scandali, giochi di potere, intrighi sono purtroppo la manna quotidiana di cui si nutre tanta gente in questa modernità (o post-modernità), che, pur essendo figlia dei lumi, troppo spesso indulge all’irrazionalità.

Per quel che ci riguarda, il vero mistero su cui vale la pena interrogarci è quel che accadde circa due anni dopo (era il Natale del 1983), allorquando il Santo Padre decise di recarsi in prigione dal suo attentatore per offrirgli il suo perdono. Un atto dovuto per un Papa? Se fosse stato così scontato il perdono da parte del Papa, perché Giovanni Paolo II attese due anni prima di decidersi a far visita ad Ali Agca? Prudenza, diplomazia vaticana o fu forse questo il tempo che occorse a papa Wojtyla per maturare un sincero sentimento di perdono? Su enigmi di questo tipo nessuno probabilmente scriverà mai libri, eppure la capacità di perdonare rimane uno dei misteri più grandi del cuore umano. La prima reazione, a fronte di un torto subito, è infatti il risentimento; se poi qualcuno ha attentato alla nostra stessa vita, l’odio frammisto a paura pare la risposta più “naturale” e per certi aspetti più “razionale”. Perdonare è rischioso, perché chi ci ha fatto del male potrebbe farcene ancora se lo riammettiamo nella nostra vita. La vendetta, la ritorsione sembrano trovare giustificazione nell’istinto di sopravvivenza, che passa attraverso la neutralizzazione del nemico. Eppure tutto il Vangelo è attraversato dall’invito a perdonare i nemici e a pregare per quanti ci fanno del male. Anzi, il perdono è presentato da Gesù come un vero e proprio comandamento: “Vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi” (Gv 13, 34). La novità non consiste nell’amore, come potrebbe a prima vista pensarsi, ma nella misura dell’amore: il cristiano è chiamato ad amare come Cristo e il suo è un amore misericordioso, un amore che nel rimettere i debiti altrui dona la vita. Le ultime parole di Gesù sulla croce non sono state di vendetta, ma di perdono: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34).

Questo è davvero un comandamento nuovo, che da solo supera tutta la legge antica e che fa del cristianesimo una religione unica. Un comandamento che nella sua grandezza viene compreso sempre meno dall’uomo moderno, che di frequente, di fronte a fatti di sangue, torna ad invocare pene esemplari, ispirate all’arcaica legge del taglione piuttosto che ad un progredito Stato di diritto. Una dimostrazione di come l’opinione pubblica, complici i mezzi di comunicazione di massa, possa passare a seconda delle circostanze dal garantismo più esasperato al giustizialismo più estremo si è avuta in occasione del delitto di Avetrana, dove del presunto assassino si è più volte parlato come di un “mostro”.

In verità, dobbiamo ammettere che una cultura che non conosce la misericordia inevitabilmente produce mostri. Il Cristianesimo ha ancora molto da insegnare a questa umanità d’oggi, che nella sua “razionalità” solitaria, senza Dio, torna ad essere preda di paure irrazionali, di pulsioni di morte. Paure che nascono dall’aver confuso due piani che il Cristianesimo ha sempre tenuto separati, ossia la differenza tra peccato e peccatore. Nella visione cristiana, infatti, come il peccato è da condannare sempre e comunque, così il peccatore è sempre da amare, in quanto figlio di Dio. Nel negare la realtà del peccato, invece, l’odierna cultura laica, non più capace di distinguere tra la persona e la sua condotta, giusta o sbagliata che sia, finisce col perdere quell’equilibrio tipico della religione cristiana, oscillando continuamente tra due opposti estremi: il giustificazionismo più assoluto o, al contrario, la condanna senza appello e degli uomini e delle loro azioni. Invece il Cristianesimo, che ben conosce la differenza tra il peccato e il peccatore, non ha difficoltà ad annoverare tra le opere di misericordia (quelle sulla cui base ognuno di noi sarà giudicato alla fine dei tempi) la visita ai carcerati.

Giovanni Paolo II, nell’andare a trovare il suo attentatore in carcere per offrirgli il suo perdono, ci ha lasciato una testimonianza genuina di carità cristiana, quella carità che salva l’uomo, pur opponendosi al peccato.

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