Quando, d'inverno, la temperatura scendeva a -40 °C, ben sotto lo zero, la gran parte degli scarafaggi parassiti dei pini di montagna moriva. E i pini, la stagione successiva, potevano respirare.

GreenReport - Ma ora che gli inverni stanno diventando più caldi, di scarafaggi ne muoiono molti meno. Gli insetti si riproducono, formando enormi e voraci popolazioni che, nelle stagioni calde, finiscono per uccidere i pini di montagna, lassù nel Parco di Yellowstone. Non c'è dubbio. I cambiamenti del clima stanno modificando gli equilibri ecologici. Anche nelle aree protette. Gli esperti ne sono certi: tra cinquant'anni i parchi degli Stati Uniti non saranno più quelli che abbiamo conosciuto, da quando sono stati istituiti nel XIX secolo. Come saranno, però, nessuno lo può dire.
Per due motivi. Il primo è che quelli ecologici sono sistemi complessi, la loro evoluzione non risponde a logiche lineari. È largamente imprevedibile. Inoltre molto dipenderà dal modo con cui gli uomini, esperti compresi, guarderanno al futuro dei parchi.
La questione è molto dibattuta negli Stati Uniti. A questo dibattito la rivista Nature ha dedicato ampio spazio la settimana scorsa. Ma il problema riguarda le aree protette in tutto il mondo. Sia perché i cambiamenti del clima investono, ove più ove meno, l'intero pianeta. Sia perché i cambiamenti ecologici in una regione si propagano, per vie ancora una volta non sempre prevedibili, nelle regioni vicine (e talvolta anche in quelle lontane).
Nel 1882 l'ecologo George Bird Grinnell parlava del Parco di Yellowstone come l'ultimo scoglio dove la natura selvaggia poteva rifugiarsi per resistere alla «marea degli immigrati» che aveva conquistato il West. L'idea originale del Parco era, appunto, quella di luogo dove "conservare" la natura selvaggia e gli ecologici chiamati a gestirlo si chiamavano, non a caso "conservazionisti".
Ma se il Parco, almeno negli Stati Uniti, è uno scoglio abbastanza alto e solido da poter resistere alla "marea degli uomini", nulla può contro lo tsunami dei cambiamenti climatici. L'aumento della temperatura media e, più in generale, gli effetti dei cambiamenti dell'ambiente globale e regionale non si fermano ai limiti del parco. E gli ecosistemi delle aree protette, come tutti gli ecosistemi, ne vengono profondamente modificati.
Ecco perché la novità dei cambiamenti climatici ha già indotto tutti gli ecologi a modificare l'idea del parco come '"isola congelata di natura selvatica" per assumerne una più dinamica. Il parco è un ecosistema che cambia.
Ma a questo punto si pone una domanda: cosa devono fare gli ecologi? Devono semplicemente prendere atto del cambiamento - succeda quel che deve - oppure lo devono contrastare o, almeno, indirizzare?
La domanda non ammette risposte semplici. Un parco, se isolato, è un ecosistema fragile. I cambiamenti climatici tendono non solo a modificare, ma a ridurne drasticamente la biodiversità. Stare sul fiume del cambiamento aspettando che la piena passi significa, dunque, prospettare un futuro di erosione della biodiversità.
Negli ultimi anni, dunque, è nata e si è rafforzata l'idea di creare una rete di aree protette: una serie di parchi collegati da "corridoi selvaggi" in modo tale che un parco non sia isolato e che le specie possono migrare da un'area protetta all'altra rispondendo ai cambiamenti ambientali.
Ma anche questo non basta. Secondo alcuni ecologi occorre intervenire in maniera più aggressiva. Opponendosi in maniera attiva ai primi effetti dei cambiamenti. A Yellowstone, per esempio, cercano di proteggere i pini di montagna dalla smodata crescita dei loro parassiti insufflandoli di insetticidi.
Molti ecologici storcono la bocca di fronte a questa battaglia frontale dagli esiti imprevedibili e concettualmente troppo invasiva. Preferirebbero un atteggiamento di protezione più morbido. Preferirebbero rafforzare la "resilienza", ovvero la resistenza al cambiamento, dei parchi naturali. Come fare, in concreto? Il dibattito, negli Stati Uniti, è aperto. Sarebbe bene aprirlo al grande pubblico anche qui, in Europa, e nel resto del mondo.
di Pietro Greco

GreenReport - Ma ora che gli inverni stanno diventando più caldi, di scarafaggi ne muoiono molti meno. Gli insetti si riproducono, formando enormi e voraci popolazioni che, nelle stagioni calde, finiscono per uccidere i pini di montagna, lassù nel Parco di Yellowstone. Non c'è dubbio. I cambiamenti del clima stanno modificando gli equilibri ecologici. Anche nelle aree protette. Gli esperti ne sono certi: tra cinquant'anni i parchi degli Stati Uniti non saranno più quelli che abbiamo conosciuto, da quando sono stati istituiti nel XIX secolo. Come saranno, però, nessuno lo può dire.
Per due motivi. Il primo è che quelli ecologici sono sistemi complessi, la loro evoluzione non risponde a logiche lineari. È largamente imprevedibile. Inoltre molto dipenderà dal modo con cui gli uomini, esperti compresi, guarderanno al futuro dei parchi.
La questione è molto dibattuta negli Stati Uniti. A questo dibattito la rivista Nature ha dedicato ampio spazio la settimana scorsa. Ma il problema riguarda le aree protette in tutto il mondo. Sia perché i cambiamenti del clima investono, ove più ove meno, l'intero pianeta. Sia perché i cambiamenti ecologici in una regione si propagano, per vie ancora una volta non sempre prevedibili, nelle regioni vicine (e talvolta anche in quelle lontane).
Nel 1882 l'ecologo George Bird Grinnell parlava del Parco di Yellowstone come l'ultimo scoglio dove la natura selvaggia poteva rifugiarsi per resistere alla «marea degli immigrati» che aveva conquistato il West. L'idea originale del Parco era, appunto, quella di luogo dove "conservare" la natura selvaggia e gli ecologici chiamati a gestirlo si chiamavano, non a caso "conservazionisti".
Ma se il Parco, almeno negli Stati Uniti, è uno scoglio abbastanza alto e solido da poter resistere alla "marea degli uomini", nulla può contro lo tsunami dei cambiamenti climatici. L'aumento della temperatura media e, più in generale, gli effetti dei cambiamenti dell'ambiente globale e regionale non si fermano ai limiti del parco. E gli ecosistemi delle aree protette, come tutti gli ecosistemi, ne vengono profondamente modificati.
Ecco perché la novità dei cambiamenti climatici ha già indotto tutti gli ecologi a modificare l'idea del parco come '"isola congelata di natura selvatica" per assumerne una più dinamica. Il parco è un ecosistema che cambia.
Ma a questo punto si pone una domanda: cosa devono fare gli ecologi? Devono semplicemente prendere atto del cambiamento - succeda quel che deve - oppure lo devono contrastare o, almeno, indirizzare?
La domanda non ammette risposte semplici. Un parco, se isolato, è un ecosistema fragile. I cambiamenti climatici tendono non solo a modificare, ma a ridurne drasticamente la biodiversità. Stare sul fiume del cambiamento aspettando che la piena passi significa, dunque, prospettare un futuro di erosione della biodiversità.
Negli ultimi anni, dunque, è nata e si è rafforzata l'idea di creare una rete di aree protette: una serie di parchi collegati da "corridoi selvaggi" in modo tale che un parco non sia isolato e che le specie possono migrare da un'area protetta all'altra rispondendo ai cambiamenti ambientali.
Ma anche questo non basta. Secondo alcuni ecologi occorre intervenire in maniera più aggressiva. Opponendosi in maniera attiva ai primi effetti dei cambiamenti. A Yellowstone, per esempio, cercano di proteggere i pini di montagna dalla smodata crescita dei loro parassiti insufflandoli di insetticidi.
Molti ecologici storcono la bocca di fronte a questa battaglia frontale dagli esiti imprevedibili e concettualmente troppo invasiva. Preferirebbero un atteggiamento di protezione più morbido. Preferirebbero rafforzare la "resilienza", ovvero la resistenza al cambiamento, dei parchi naturali. Come fare, in concreto? Il dibattito, negli Stati Uniti, è aperto. Sarebbe bene aprirlo al grande pubblico anche qui, in Europa, e nel resto del mondo.
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