Ma potrebbe trattarsi dell'ennesimo annuncio a vuoto da parte dei militari. La frase sembra a uscita a sorpresa, come una folata d'aria che entra in una stanza chiusa, dalla bocca di un funzionario del regime birmano: "Novembre, tra le elezioni e la liberazione di Aung San Suu Kyi, sarà un mese per noi molto impegnativo".
di Luca Galassi
PeaceReporter - La corsa alla conferma, alla validazione di quella che potrebbe essere una notizia tra le più inaudite (e gradite) è cominciata pochi secondi dopo la battitura dell'agenzia. Poche parole, nella dichiarazione del funzionario, che per alcuni preludono a un'apertura, per molti forse solo a uno spiraglio, dal quale potrebbe filtrare una luce nuova per il Paese asiatico, stretto nelle spire di un regime repressivo e oscurantista. Tuttavia, chi conosce bene la realtà della Birmania (che dal colpo di Stato del 1988 la giunta ha rinominato Myanmar), sa che potrebbe trattarsi dell'ennesimo annuncio a vuoto, il settimo, l'ottavo forse, per una scarcerazione che da anni è attesa dal Premio Nobel per la pace come dai suoi sostenitori. La giunta militare avrebbe fissato la data del rilascio il 13 novembre, una settimana dopo le prime elezioni libere nel Myanmar degli ultimi vent'anni. Elezioni alle quali il partito della San Suu Kyi non parteciperà perché non esiste più: è stato infatti sciolto dalla giunta militare il 6 maggio di quest'anno perché dichiarato illegale dopo il rifiuto di registrarsi a elezioni che saranno sicuramente un'altra farsa: cinque i partiti in lizza, due dei quali, i maggiori, filo-regime. Il primo a gettare acqua fredda sull'entusiasmo dei seguaci della San Suu Kyi è proprio il suo legale, Jared Ginser. Il suo scetticismo è una caratteristica comune ai membri dell'opposizione birmana: "Si tratta di un annuncio per placare le pressioni internazionali e in particolare le ultime prese di posizione dell'Onu - ha detto Ginser in un comunicato - in particolare del presidente Ban Ki-Moon. Voglio ricordare che le elezioni si terranno comunque senza il partito della San Suu Kyi, quindi anche una sua liberazione non significherebbe nient'altro se non l'inizio di un lunghissimo processo per arrivare a una pallida normalizzazione del Paese".
Cautela, ma soprattutto scetticismo, anche dal vice-direttore del più importante mezzo di informazione birmano in esilio, il Democratic Voice of Burma, di stanza a Oslo. Khin Maung Win, vice-direttore del giornale (e dell'omonimo canale televisivo), ha dichiarato a PeaceReporter che "bisogna conservare lo scetticismo consueto di fronte a queste informazioni, peraltro non confermate. Non conosciamo il nome del funzionario militare che ha fatto tale dichiarazione, e sarebbe davvero una grossa sorpresa vedere San Suu Kyi uscire dalla porta di casa sua in libertà. Non nutro molte speranze in merito. L'hanno detto più volte, che l'avrebbero liberata. Questo regime ci ha abituato a non essere ottimisti, in quanto non stanno governando il Paese in modo... come dire, logico".
Cosa si aspetta dalle elezioni?
Beh, posso rispondere senza alcun dubbio che il regime farà di tutto per assicurarsi la vittoria del suo partito, lo Union Solidarity and Development Party (Usdp). Ricordiamoci bene cosa è accaduto trent'anni fa: hanno indetto elezioni libere e le hanno perse. Hanno preso il potere con la forza, incarcerato gli oppositori e governato nell'impunità fino ad oggi. Perchè avrebbero indetto nuove elezioni, se non fossero totalmente certi di vincerle? Sono cinque i partiti che parteciperanno. Ma se pensiamo che lo Uspd ha circa la metà della popolazione tra i suoi membri (iscritti volontariamente ma più spesso costretti a iscriversi), è ovvio il risultato è scontato. E se non lo fosse, ci penserebbe la giunta a farlo diventare scontato.
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha trascorso agli arresti domiciliari 15 degli ultimi 21 anni. Attualmente sta scontando una pena di 18 mesi per aver incontrato un cittadino americano che era entrato illegalmente nella sua residenza.
di Luca GalassiPeaceReporter - La corsa alla conferma, alla validazione di quella che potrebbe essere una notizia tra le più inaudite (e gradite) è cominciata pochi secondi dopo la battitura dell'agenzia. Poche parole, nella dichiarazione del funzionario, che per alcuni preludono a un'apertura, per molti forse solo a uno spiraglio, dal quale potrebbe filtrare una luce nuova per il Paese asiatico, stretto nelle spire di un regime repressivo e oscurantista. Tuttavia, chi conosce bene la realtà della Birmania (che dal colpo di Stato del 1988 la giunta ha rinominato Myanmar), sa che potrebbe trattarsi dell'ennesimo annuncio a vuoto, il settimo, l'ottavo forse, per una scarcerazione che da anni è attesa dal Premio Nobel per la pace come dai suoi sostenitori. La giunta militare avrebbe fissato la data del rilascio il 13 novembre, una settimana dopo le prime elezioni libere nel Myanmar degli ultimi vent'anni. Elezioni alle quali il partito della San Suu Kyi non parteciperà perché non esiste più: è stato infatti sciolto dalla giunta militare il 6 maggio di quest'anno perché dichiarato illegale dopo il rifiuto di registrarsi a elezioni che saranno sicuramente un'altra farsa: cinque i partiti in lizza, due dei quali, i maggiori, filo-regime. Il primo a gettare acqua fredda sull'entusiasmo dei seguaci della San Suu Kyi è proprio il suo legale, Jared Ginser. Il suo scetticismo è una caratteristica comune ai membri dell'opposizione birmana: "Si tratta di un annuncio per placare le pressioni internazionali e in particolare le ultime prese di posizione dell'Onu - ha detto Ginser in un comunicato - in particolare del presidente Ban Ki-Moon. Voglio ricordare che le elezioni si terranno comunque senza il partito della San Suu Kyi, quindi anche una sua liberazione non significherebbe nient'altro se non l'inizio di un lunghissimo processo per arrivare a una pallida normalizzazione del Paese".
Cautela, ma soprattutto scetticismo, anche dal vice-direttore del più importante mezzo di informazione birmano in esilio, il Democratic Voice of Burma, di stanza a Oslo. Khin Maung Win, vice-direttore del giornale (e dell'omonimo canale televisivo), ha dichiarato a PeaceReporter che "bisogna conservare lo scetticismo consueto di fronte a queste informazioni, peraltro non confermate. Non conosciamo il nome del funzionario militare che ha fatto tale dichiarazione, e sarebbe davvero una grossa sorpresa vedere San Suu Kyi uscire dalla porta di casa sua in libertà. Non nutro molte speranze in merito. L'hanno detto più volte, che l'avrebbero liberata. Questo regime ci ha abituato a non essere ottimisti, in quanto non stanno governando il Paese in modo... come dire, logico".
Cosa si aspetta dalle elezioni?
Beh, posso rispondere senza alcun dubbio che il regime farà di tutto per assicurarsi la vittoria del suo partito, lo Union Solidarity and Development Party (Usdp). Ricordiamoci bene cosa è accaduto trent'anni fa: hanno indetto elezioni libere e le hanno perse. Hanno preso il potere con la forza, incarcerato gli oppositori e governato nell'impunità fino ad oggi. Perchè avrebbero indetto nuove elezioni, se non fossero totalmente certi di vincerle? Sono cinque i partiti che parteciperanno. Ma se pensiamo che lo Uspd ha circa la metà della popolazione tra i suoi membri (iscritti volontariamente ma più spesso costretti a iscriversi), è ovvio il risultato è scontato. E se non lo fosse, ci penserebbe la giunta a farlo diventare scontato.
Aung San Suu Kyi, premio Nobel per la pace nel 1991, ha trascorso agli arresti domiciliari 15 degli ultimi 21 anni. Attualmente sta scontando una pena di 18 mesi per aver incontrato un cittadino americano che era entrato illegalmente nella sua residenza.
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