In esclusiva per La Perfetta Letizia, da Gerusalemme, Raffaela Corrias
Nelle trame di queste spirali si intrecciano, però, anche realtà impegnate nella costruzione di relazioni tra le parti che il conflitto arabo-israeliano contrappone da decenni. Esse testimoniano che l’uomo, anche se coinvolto e stravolto dalla violenza, dalla guerra, dalle incomprensioni, è capace di sperare e di esprimere la sua speranza in azioni. IEA - Interfaith Encounter Association - e Hand in Hand, due associazioni no profit con sede a Gerusalemme, ne sono, con le loro proposte, esempi significativi: attraverso le vie delle relazioni interreligiose e dell’ambito educativo affermano che è possibile vivere in un modo nuovo in questa terra.
IEA è impegnata nella promozione ed edificazione di un processo di pace in Terra Santa e in Medio Oriente che vede come motore il dialogo interreligioso e come protagonista la gente comune. Il dialogo che propone non si caratterizza per l’erudizione teologica, ma sgorga dal vissuto dei partecipanti.
Le prime attività interreligiose in Israele risalgono agli anni ’50 del secolo scorso. Un piccolo gruppo di persone lungimiranti, tra cui personalità come quella di Martin Buber, intrapresero questo cammino ritenendolo indispensabile per la costruzione di una società fondata sui valori della coesistenza e del riconoscimento reciproco.
IEA ha raccolto questa sfida attivando, a partire da dicembre 2001, 33 gruppi di dialogo sul territorio israeliano per un totale di 850 incontri. Attualmente 20 sono i gruppi che si riuniscono in modo continuativo dal nord della Galilea fino a Eilat. In una terra dove si viene innanzitutto identificati con il proprio credo religioso e dove i rapporti si strutturano di conseguenza, ebrei, cristiani, musulmani, drusi e bahai si incontrano mensilmente con l’obiettivo di valorizzare la diversità come ricchezza da comprendere e rispettare.
Accomodarsi in un salotto o in un caffè per parlare del senso della misericordia nelle diverse religioni non solo permette di approfondire la conoscenza della propria tradizione e di quella altrui, ma crea lo spazio per mettersi in relazione. La relazione è capace, con il tempo, di trascendere gli stereotipi e i pregiudizi, diventando un terreno fecondo per il cambio di attitudini e per l’apertura ad un atteggiamento di rispettiva fiducia. Ci si ritrova, uno di fronte all’altro, nella propria umanità.
Ritiri di due giorni che favoriscono momenti di vita comune e viaggi alla scoperta di luoghi significativi per le proprie fedi completano un cammino fatto di pazienza e dedizione. La prospettiva di IEA coniuga, così, il piano della riflessione introspettiva e quello della quotidianità che, disgiunti, rischierebbero una certa sterilità.
E i risultati arrivano. Durante la pausa caffè dell’ultimo ritiro tenutosi nella città vecchia di Gerusalemme, una signora ebrea si è resa conto, con estrema sorpresa, del fatto che una sua coetanea dei Territori non avesse visto il mare neppure una volta. La donna araba raccontava di non aver mai ottenuto il permesso dall’autorità israeliana che le desse la possibilità di raggiungere la spiaggia a soli quaranta minuti di macchina da casa sua. Piccole consapevolezze foriere di grandi domande.
Hand in Hand nasce nel 1997 come risposta al modello di società israeliana fondato sulla separazione tra la popolazione ebrea e quella araba. L’intuizione fu di un insegnate arabo e di un educatore ebreo che videro nel sistema scolastico la possibilità di suggerire degli aspetti di novità. In una realtà dove le due popolazioni studiano in istituti diversi attenendosi a due distinti curricula scolastici, l’incontro fra questi due uomini ha dato vita a quattro scuole (Gerusalemme, Misgav, Kfar Kara e Beersheva) in cui ebrei e arabi frequentano le stesse classi imparando la lingua e la cultura dell’altro popolo. Ogni scuola ha due direttori, un ebreo e un arabo; allo stesso modo, per ogni classe, sono previsti due insegnanti: è il modo di Hand in Hand di educare 900 allievi, appartenenti a 20 diverse comunità, a punti di vista diversi.
Durante le ore di storia gli studenti affrontano gli avvenimenti approcciandoli secondo le due narrative - ciò che per l’ebreo è la guerra d’indipendenza, per l’arabo è la naqba, la catastrofe - e cercano, se non sempre di comprendere, almeno di conoscere. Esercitandosi a cambiare la propria prospettiva i ragazzi interiorizzano un prezioso strumento di lettura della realtà e sviluppano il loro senso critico, due aspetti importanti dei possibili leader di domani.
Anche durante i momenti di maggiore tensione, di violenza, di attacchi terroristici, gli studenti sono messi nelle condizioni di confrontarsi sugli eventi. Si tratta di una sfida faticosa, ma capace di dare i suoi frutti e di coinvolgere, oltre agli studenti e allo staff, anche le famiglie e le comunità.
Così come per Interfaith Encounter, anche per Hand in Hand la volontà è quella di contribuire in modo rilevante alla generazione di rapporti tra mondi che rischiano di essere ogni giorno più distanti. La mancanza di comunicazione causa l’ignoranza. L’ignoranza perpetua chiusura e diffidenza che, a loro volta, vanno ad alimentare le dinamiche conflittuali in atto.
IEA e Hand in Hand sono segni per i nostri tempi e contributi per la formazione delle coscienze. Parlano di una Terra Santa possibile, una Terra Santa in cui ognuno di noi è chiamato a credere. Una questione che non dovrebbe essere solo di interesse per chi qui nasce, vive e cresce. La storia passata ed attuale di questi luoghi, quello che ogni giorno accade all’interno di questi confini, ha una ripercussione sull’intera regione mediorientale e sul mondo tutto. Una pace giusta nella Santa Terra è un patrimonio per ciascuno di noi: non dimentichiamocene.
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