mercoledì, giugno 24, 2009
Onna, settanta giorni dopo “l’orrendo scossone”. Giustino Parisse e una terra che cerca di ricostruire un «comune senso di appartenenza»

Tempi - Onna è il paese dove il tempo si è fermato alle 3.32 del 6 aprile. Che giorno è oggi? Che ore sono? Gli onnesi non sanno rispondere. Perché il terremoto non si è portato via solo lo spazio con le sue cose, ma anche il tempo con i suoi ritmi e le sue abitudine scontate. Giustino Parisse è diventato, «mio malgrado», la voce e il volto di questo paesino aquilano. «Sono nato qui, cinquant’anni fa. Avevo la casa che s’affacciava sulla stalla, sono andato per campi per trent’anni. Prima di fare il giornalista sono stato contadino». Poi la carriera e il ruolo di caposervizio al Centro, il quotidiano più diffuso nella zona. «Nella mia prima vita ho curato questa terra con le mie mani, nella seconda l’ho raccontata, in questa terza è stata lei a togliermi i due figli e mio padre. Mia madre, a pochi metri da loro, s’è salvata rimanendo immobile durante il crollo. Nemmeno una frattura». Oggi Parisse continua «a narrare di queste mie zone martoriate, cerco di raccogliere le voci della gente dei paesi, quelli dimenticati che non sono finiti sotto i riflettori come Onna. L’altro giorno ho conosciuto una vecchietta, che abita a pochi chilometri da qui; mi ha raccontato che negli anni Cinquanta, quando venne il terremoto e le fragili case dei coltivatori si sgretolarono, loro uscirono nei campi e le ricostruirono con la paglia. Perché si può sempre ricominciare, anche con qualche filo di paglia e un po’ di fango come cemento». Circa ottanta giorni dopo “l’orrendo scossone”, come lo ha chiamato Parisse in uno dei suoi articoli, Onna non è cambiata molto. Le abitazioni sono inagibili, il centro del paese è irraggiungibile. Più che case si vedono buchi di cielo, più che le mura si contano gli squarci delle crepe. Onna è ancora un mucchio di macerie, forse, rispetto ai primi momenti, solo un po’ più ordinate.
Adesso, però, il paese non è più qui. È duecento metri più in là, fra le tende blu del ministero dell’Interno. Sotto la più spaziosa, don Cesare celebra la Messa per qualche parrocchiano che, al termine della funzione, s’attarda fuori sotto le campane. Qui, gli onnesi hanno posto dei sassi bianchi a forma di cuore. Sopra ogni sasso è scritto un nome: Antonio, Adriana, Daniele, Assunta… Sono i loro morti e questo è il loro modo per ricordare le quaranta vittime di un paesino di duecentocinquanta anime. Circa uno su cinque non ha visto l’alba del 7 aprile. La povertà estetica dell’improvvisato monumento ai caduti è inversamente proporzionale alla ricchezza del sentimento di chi lo ha costruito, perché Onna non ha più nemmeno un luogo dove piangere i suoi morti. Il cimitero di Paganica, dove da sempre erano sepolti gli abitanti, è inagibile. «Li hanno messi a L’Aquila – racconta Aldo, che lì si reca a pregare per la madre –, ma la tumulazione è avvenuta in fretta, le tombe mandano un forte fetore, si fa fatica ad avvicinarsi. Non ho una lapide per piangerla e nemmeno più una casa che me la ricordi. Avessi ancora la cucina, il tinello, l’orto, potrei quasi immaginarmela». Ma senza le cose, senza un appiglio dentro lo scorrere del mondo, spiega Aldo, anche la fantasia s’arrende impotente. «La vita è precarietà», piange Aldo. «Non c’è più il tempo, non c’è più lo spazio conosciuto, quello con cui si era soliti misurare, passeggiando per le vie del paese, la vita». Cosa è rimasto? «Cumuli di macerie, cui è impossibile abituarsi», sospira Aldo.
Don Cesare è, al solito, indaffarato. Pure Gesù Cristo è terremotato a Onna, e pure lui ha la sua tenda. «Sì, è rimasto poco. È venuto giù tutto, ma non la fede di questa gente. E la speranza di ricominciare». Le campane e le immagini della Madonna sono state recuperate e ora vigilano sul minuscolo campetto da calcio dove qualche bambino arzigogola con un pallone. Tra camion e gru che smuovono terra e detriti, camminano i vigili del fuoco, gli uomini della protezione civile e i resti della vita che fu: galline, cavalli, qualche rondine che arriva a poggiarsi anche là dove sarebbe proibito. Tra le stradine qualcuno ha piazzato dei cartelli: via della Prepositura, piazza Umberto I, quasi per far tornare un po’ della normalità sfiorita. Non è facile, dicono. Sotto le tende, durante il giorno brucia un caldo che tocca i quarantadue gradi. «E la notte si gela». Si racconta di sonni irrequieti, di difficoltosi riposi tra brandine cigolanti e carabattole un po’ impolverate. Per non parlare delle difficoltà degli anziani a prendere sonno e dei più piccoli a tranquillizzarsi, mentre ai loro piedi sgusciano scarafaggi, scorpioni, topi.
La Croce rossa ha elargito cinque milioni di euro con i quali la Provincia di Trento costruirà una novantina di case in legno. Cinquanta metri quadrati per due persone, una settantina per famiglie di cinque componenti. «Si sta cercando di ricostruire con le stesse vie, gli stessi vicini di casa che si aveva prima», spiegano. Gli onnesi vogliono di nuovo la mattina riaffacciarsi dalla finestra e rivedere il muso assonnato del dirimpettaio, fosse anche il grugno scontroso di quello che s’era mandato al diavolo fino alla notte prima. La notte prima del 6 aprile. «Perché noi non abbiamo più nulla, nulla. Se non la nostra appartenenza».

Il paese è la mia donna
Parisse ha sempre amato Onna di un amore incondizionato e geloso. Era lo “storico” del paese, ne conosceva gli angoli e le vicende remote. «È un posto povero, un paese di tre vie che si incrociano: via Alfieri, via dei Martiri, via Oppieti. Io, però, ne sono innamorato come si può essere innamorati non di una bella donna, ma della tua donna. Ho ristrutturato con le mie mani per venticinque anni quella casa che ha assassinato i miei figli in venticinque secondi. Avevo una biblioteca immensa, carica di documenti e carte sugli ultimi cinquant’anni della storia di Onna. Io sono la mia terra, gli angoli delle case, gli scorci, le tradizioni, la processione con il santo, il suono delle campane. Non posso andare via di qui, così come non posso scappare da me stesso». Questo terremoto, dice Parisse, ha mangiato gli antichi centri storici dei paesi «ed è come se avesse mangiato il cuore di ognuno di noi. Si può scavare in mezzo ai detriti, si può cercare tra le macerie, ma chi ci restituirà il nostro cuore?».
Dopo la fase dell’emergenza siamo entrati in quella della ricostruzione, e c’è ancora qualcuno che s’attarda in polemiche. Parisse dissente: «Dopo la scossa avevo con me solo quello che avevo addosso, un pigiama tutto strappato. A un certo punto è arrivato un mio collega. Mi ha dato cento euro. Lì ho capito, mi sono visto coi suoi occhi: mio Dio, non ho più nulla. Quel che mi è rimasto è la gratitudine per chi mi ha aiutato, per gli uomini della Protezione civile, per i vigili del fuoco, per la mia gente». Non bisogna nemmeno scandalizzarsi delle proteste, delle piccole miserie umane, «perché magari, anche un po’ di sano egoismo può aiutare a ricostruire».

Ci si trova al Pinnerone
È dura stare sotto le tende, ma è ancora più dura starci lontano. Molti onnesi che erano stati ospitati negli alberghi sul litorale hanno preferito trovare spazio in tendopoli oppure da qualche parente, purché vivesse nei pressi. «Il giornale – spiega Parisse – mi ha messo a disposizione una casa. Ho resistito cinque giorni poi sono scappato qui». Il perché non è facilmente spiegabile, se non con l’assioma «che vuoi stare vicino ai tuoi». Dopo le campane e le immagini della Madonna, gli onnesi hanno chiesto ai vigili del fuoco di recuperare il “pinnerone”. «Il Pinnerone è un sasso cilindrico alto mezzo metro – spiegano ridendo – che una volta serviva per il torchio. Poi fu messo nella piazza del paese e divenne il punto di ritrovo per eccellenza». Oggi il pinnerone è davanti alla tenda che fa da mensa. Dicono che la notte ci sia sempre lì qualcuno a chiacchierare.

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