lunedì, giugno 01, 2009
L’americana General Motors, la prima casa automobilistica al mondo, ha ufficializzato la bancarotta, dichiarando che entro la fine del 2010, verranno chiusi 13 impianti.

Radio Vaticana - Dalla Casa Bianca arriva già l’annuncio di un piano per il salvataggio dell’azienda che fornirà aiuti per 30.1 miliardi di dollari e consentirà al governo americano di diventare il primo azionista, con il 60% delle quote. Il settore automobilistico è dunque nuovamente protagonista sulla scena economica dominata dalla crisi globale tanto negli Usa quanto in Europa. A Mario Deaglio, docente di economia internazionale dell’Università di Torino, Stefano Leszczynski ha chiesto perché la produzione automobilistica sia tanto importante per l’economia contemporanea.

R. - E’ importante per due motivi. Il primo è che il bisogno di spostarsi è un bisogno profondamente radicato, uno dei bisogni al quale la società industriale ha risposto di più, puntando sullo spostamento privato. Il secondo è che l’industria dell’auto è importante perché è il punto di arrivo di numerose filiere industriali, il punto attraverso cui passano le produzioni di tantissimi altri settori che poi troviamo nell’auto; pensiamo alle gomme, alle parti elettriche, ai cambi ai freni, etc. Si stima che per ogni lavoratore stabilmente impiegato dalle case automobilistiche ce ne siano almeno quattro a monte che forniscono i componenti che vanno dentro l’auto e probabilmente uno o due e a valle, cioè gli assicuratori, i benzinai, etc.

D. - Professore, per quanto riguarda l’industria dell’auto sembra che i governi non siano mai stati così disponibili a scendere in campo con la finanza pubblica. Si stanno un po’ abbandonando, però, quelli che erano i criteri del non interventismo pubblico nelle aziende. Questo vale sia per gli Stati Uniti che per l’Europa. E’ effettivamente così?

R. - E’ effettivamente così. Questi criteri sono completamente saltati con la crisi finanziaria. Per seguire questi criteri ci sarebbero milioni e milioni di disoccupati e nessun Paese si può permettere qualcosa del genere, neppure i potentissimi Stati Uniti. Questi disoccupati farebbero poi da motore di una crisi ancora più vasta perché deprimerebbero i consumi di tutto il Paese. Se noi lo guardiamo dall’ottica del mercato invochiamo quelle situazioni di emergenza in cui i mercati devono tacere, diciamo per salute pubblica, e i governi intervengono. Se invece non siamo favorevoli al mercato possiamo dire: si vede il fallimento di un sistema basato solo sul mercato. Bisogna che ci sia in ogni momento una qualche presenza pubblica come rete di sicurezza.

D. - Questa rete di sicurezza è destinata a essere temporanea, cioè tolta nel momento in cui la crisi passa. La parte pubblica verrà nuovamente privatizzata o alla fine diventerà una consuetudine avere una fetta pubblica nei grandi settori dell’economia?

R. - Questa è una domanda a cui è difficilissimo rispondere. Penso che in un modo o nell’altro una presenza pubblica rimarrà. Non è possibile su settori così important avere una totale mano libera privata, intanto perché queste imprese diventano enormi e vengono a condizionare e a scontrarsi con il settore del pubblico. Quindi, tanto vale che il rapporto pubblico-privato che le caratterizza abbia dei caratteri di trasparenza e di ufficialità.


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