mercoledì, maggio 13, 2009

Giorgio La Pira e il messaggio di Fatima

del nostro collaboratore Carlo Mafera

“O Madre nostra, quando vogliamo contemplare la bellezza di Dio, ci soffermiamo a mirare con diletto la tua bellezza che dall’eterna luce è riverbero infinito” così inizia una preghiera composta da Giorgio La Pira durante il periodo dell’oppressione totalitaria. Ciò a dimostrare la fervente devozione alla Madonna del sindaco santo di Firenze e una predilezione filiale espressa in accenti mistici e poetici. Per comprendere meglio il rapporto tra Giorgio La Pira e il messaggio di Fatima bisogna conoscere la centralità del culto mariano nella sua vita interiore e in quella pubblica. Il cristianesimo mariale è stato il fondamento della sua azione politica ritenendo essenziale il ruolo della Madonna, Madre di Dio, nell’opera salvifica di Gesù nei confronti dell’umanità. In particolare l’apparizione di Fatima ha una valenza storico-sociale di importanza fondamentale. La realtà storica e cosmica non può più liberarsi da questo avvenimento che gli è divenuto essenziale. La terra ha fiorito Maria e in questa epoca questa fioritura si è manifestata soprattutto attraverso l’apparizione di Fatima che non potrà essere mai più spenta, cancellata o dimenticata per le sue profonde implicazioni salvifiche.

Nell’apparizione di Fatima la Madonna rivela tutta la Sua bellezza e nel cielo dell’umanità si stende questo arcobaleno di intatta purezza che irradia gli splendori della perfezione di Dio proprio attraverso di Lei. Albeggia finalmente nella storia dell’uomo una luce immacolata, una luce senza tanti colori perché inesprimibilmente pura. La visione della Madonna e in particolare di quella di Fatima, narrata da Giorgio La Pira era questa.
Da tali premesse si comprende come fosse iscritto profondamente nel suo cuore lo slancio di apostolato mariano che esercitò con grande determinazione. Egli prese, per così dire, il testimone da don Luigi Moresco , il quale nel 1942 era stato a Fatima ed aveva scritto un libro sulle rivelazioni. Nell’ambito di queste rivelazioni c’era il desiderio della Vergine della consacrazione, da parte del Sommo Pontefice, del genere umano in generale e della Russia in particolare, al Cuore Immacolato di Maria. Come tutti sanno, il messaggio terminava con un’affermazione piena di speranza “finalmente il mio Cuore Immacolato trionferà; la Russia si convertirà e vi sarà pace nel mondo”.
Don Moresco andò dal Santo Padre dicendogli che la Madonna desiderava che Lui proclamasse la consacrazione del genere umano e della Russia al Suo cuore immacolato. E di fatti, esaminando il racconto fatto da Giorgio La Pira , il 31 ottobre 1942 Pio XII faceva questa proclamazione proprio nel momento più tragico della seconda guerra mondiale. Dieci anni dopo, nel 1952, Pio XII rinnovava nella festa(7 luglio) dei santi Cirillo e Metodio, evangelizzatori dell’Est europeo, la consacrazione della Russia. La Pira, raccogliendo l’eredità di Don Moresco , sul messaggio di Fatima, desiderava essere ora lui il propulsore del messaggio proprio in un’epoca malata di catastrofismo e riconosceva negli inviti reiterati dei Russi, che volevano ricambiare la sua accoglienza fatta in precedenza a Firenze, come dei segni importanti e significativi. La Pira considerava il ripetersi delle apparizioni mariane, non come favole raccontate da bambini, come qualcuno voleva far credere ma invece come segni forti dell’intervento di Dio nella storia umana realizzato tramite Maria. Infatti, egli diceva che “Maria è partecipe della regalità di Cristo, è la regina delle nazioni e della pace” ed era certo che ci dovesse essere un rapporto stretto fra i misteriosi colloqui della Madonna, la conversione delle nazioni a Cristo e la pace nella delicatissima epoca nucleare.
Con tale consapevolezza, cominciava a fare dei pellegrinaggi mariani partendo però prima per la Francia (Lourdes, Reims, Chartres Saint-Denis,; Notre Dame) e poi il 13 luglio 1959 a Fatima, anniversario della terza apparizione, dopo aver incontrato l’allora Cardinal Montini a cui aveva confidato la sua intenzione di voler fare tale pellegrinaggio, ma la decisione di andare a Mosca, La Pira la prese dopo che, sia Montini che Giovanni XXIII avevano ricordato l’uno nell’incontro personale e l’altro in pubblica udienza, le figure dei Santi Cirillo e Metodio che secondo il Pontefice “dischiudono dinnanzi ai nostri occhi orizzonti che di fatto non sappiamo ancora ben contemplare, perché la “ferrea cortina” li copre”, continuava, così Giovanni XXIII “Amiamo pensare che mercé le nostre preghiere e i nostri sacrifici, la Provvidenza divina stia elaborando uno dei più grandi misteri della storia, che sarà il mistero della misericordia del Signore per tutti i popoli.
Per la Pira, le parole di Giovanni XXIII diventeranno delle pietre miliari da percorrere ed il 13 luglio si recò Fatima per comporre il primo pilone del ponte mariano che si doveva concludere a Mosca.
Incontrò il vescovo di Leiria, le monache del convento dove viveva e pregava Lucia l’ unica sopravvissuta dei tre pastorelli dell’apparizione, e infine il vescovo di Lisbona a cui chiese la benedizione e il permesso di portare il messaggio della Madonna, in Russia.
E così La Pira prese contatto con Bogolomov l’ambasciatore russo a Roma, e il 22 luglio gli telefonò per accettare l’invito che gli era stato fatto più volte. L’ambasciatore era persona di fiducia di Krusciov e Gromiko ed era una vecchia conoscenza di La Pira, perché nel 1956 era andato a Firenze, sembra a consegnare al Sindaco “Santo” una copia riservata del rapporto di Nikita Krusciov al XX Congresso del PCUS dove il capo del Soviet Supremo aveva denunciato i crimini staliniani e quindi potrebbe essere verosimile che La Pira fu il primo occidentale a conoscere tale orrenda realtà.
Il viaggio fu preparato velocemente e La Pira, dopo aver pregato in varie chiese fiorentine e romane (in particolare quello di S. Clemente dove sono ricordati i Santi Cirillo e Metodio) partì per Mosca dove arrivò venerdì 14 agosto 1959.
Naturalmente anche lì fece i suoi pellegrinaggi presso i luoghi sacri di Mosca, considerato poi che il 15 agosto era la festa dell’assunzione di Maria, evento altamente simbolico per il nostro sindaco santo di Firenze che scelse per l’appunto quella data per creare quel ponte Fatima-Mosca di cui si parlava.
La Pira stava realizzando e verificando con quel viaggio, le ipotesi teologiche di lavoro. Era in qualche modo il “facchino” di Dio e qualcuno doveva pur incaricarsi di portare avanti il messaggio di Fatima in quegli anni 50-60, anni delicatissimi di guerra fredda.
Nella sue lettere alle claustrali egli definisce le tappe della storia facendo teologia e teleologia della storia. Ecco le direzioni.
1) Verso l’unità della Chiesa (e l’indizione del Concilio ecumenico ne è la prova)
2) Verso la resurrezione delle nazioni cristiane, Russia compresa (la Russia si convertirà)
3) Verso l’attrazione misteriosa ma effettiva a Cristo attraverso Maria, di tutto lo spazio delle nazioni di Abramo, lo spazio di Israele ed Ismaele (perché l’apparizione di Maria proprio a Fatima, nome della figlia prediletta di Maometto?
4) Verso l’attrazione misteriosa ma effettiva (malgrado tutto) di tutte le nazioni di Asia ed Africa a Cristo
5) Verso un’epoca nuova (planetaria) nella quale si edifica faticosamente ma irresistibilmente la pace di tutti i popoli della terra (…. finalmente il mio Cuore immacolato trionferà la Russia si convertirà e vi sarà pace nel mondo)
La Pira sposa fedelmente il messaggio di Fatima, quando poi indica gli strumenti per realizzare queste ipotesi di lavoro e cioè l’orazione e la penitenza: i due strumenti soprannaturali indicati dalla Madonna ai pastorelli. “Strumenti di azione storica: vere forze nucleari inserite da Dio nel sistema della forze storiche delle nazioni. E così La Pira si chiede cosa dovesse fare praticamente.
1) ”ricorrere alle misteriose ed invincibili forze oranti e penitenti dei nostri tremila monasteri di clausura del mondo”
2) “portare” queste forze oranti e penitenti nel cuore stesso cristiano delle nazioni, Russia compresa, Islam compreso”.
In buona sostanza affermava La Pira nella lettera alle claustrali (la numero 28) bisognava “assediare Gerico, la città “dalle mura munite e chiuse”, circuirla di notte e di giorno con l’orazione, e ciò fino a quando le mura munite e chiuse fossero pacificamente cadute”.
Abbiamo prima ricordato i gesti mariani di Pio XII cioè la consacrazione della Russia nel 1942 e poi nel 1952 ma ancor più importante l’enciclica AD COELI REGINAM dove viene messa in evidenza la regalità di Maria sui popoli e sulle nazioni e quindi sull’intera storia del mondo istituendo la festa di Maria Regina il giorno 31 maggio.
Sono tutte tappe mariane del pontificato di Pio XII collegate al fondamentale assunto teologico del dogma dell’Assunzione che si radica nel messaggio di Fatima e che ha come obiettivo principale l’enorme dramma della storia della Russia contemporanea e il suo ritorno alla casa paterna. .
Era il pensiero centrale del Vicario di Cristo che non si staccò mai da quel nodo drammatica della storia del mondo.
Ma purtroppo Pio XII come Mosé non poté vedere la terra promessa e passò il testimone a Giovanni XXIII che ebbe la grande intuizione teologica che non ci sarebbe stata unità e pace tra le nazioni se non ci fosse stata unità e pace nella Chiesa e convocò il concilio ecumenico:
La Pira comprese sempre di più che il nodo storico era sempre la Russia con tutti i suoi errori ed orrori storici ma comprese pure l’alto valore profetico del messaggio di Fatima e gli sembrava infatti sentire i profeti stessi … “Israele tornerà al Signore; Gerusalemme tornerà al suo Dio e le sue mura il suo tempio le sue case, i suoi palazzi saranno ricostruiti”.
Infatti dal 1953 in poi successero molti avvenimenti che sembravano preludere a guerre e distruzioni e invece grazie al messaggio di Fatima “sono state quasi “costrette” ad avviarsi verso la pace e la distensione verso l’amore e la speranza.
La storia della Chiesa e delle nazioni andava profondamente mutando: una gestazione di pace e di speranza veniva creandosi. L’alba del 1959 fa spuntare come arcobaleno, sull’orizzonte della Chiesa e delle Nazioni; il Concilio ecumenico. E La Pira sente che il Signore si serve di lui per portare avanti il messaggio di Fatima; sente che andare a Cava da Iria per prendere fisicamente la profezia della Madonna, proprio là dove era stata rivelata per recarle di persona ai suoi più diretti destinatari : il popolo russo, la Chiesa russa e lo Stato russo. Era suo compito come una semplice “facchino” di Dio. Era lui la persona più indicata in quanto lui era sindaco di Firenze la città che 520 anni prima (nel 1439) aveva ospitato il concilio ecumenico dove c’era stato un “Atto di Pace”, tra la Chiesa d’occidente e la Chiesa d’oriente.

Lui era la persona più indicata perché dal 1951 al 1954 aveva organizzato a Firenze i convegni internazionali per la pace la civiltà cristiana e nel 1955 (4 ottobre) aveva invitato tutti i sindaci di tutte le città capitali del mondo, compreso quello di Mosca, per rivendicare il diritto alla vita della città schiacciate dalle politiche nazionali.

“Ebbene” afferma La Pira nelle lettere alle claustrali “…tutta la nostra azione a Firenze ha avuto sempre questa fondamentale direzione : ha mirato sempre alla Russia Cristiana. Il “problema” importato a Firenze (nei convegni della pace insieme con quelli dei Sindaci e con altre iniziative) è stato unicamente (in certo senso) quello russo”.
Quindi continua La Pira “Ecco Madre Reverenda il significato e la finalità del mio viaggio: fare il ponte mariano di speranza di preghiera e di pace fra Fatima e Mosca”.
E’ chiaro che ci fu la preparazione di chi andava in un città santa, e La Pira moltiplicò la sua orazione andando a pregare per esempio a La Verna, a S. Maria Novella, presso la tomba del metropolita di Kiev morto lì nel 1439 durante il citato concilio ecumenico e soprattutto sulla tomba dei S. Cirillo e Metodio nella chiesa di S. Clemente a Roma (evangelizzatori dei popoli slavi).
E così all’arrivo a Mosca il 14 agosto 1959, prima di incontrare il Soviet Supremo, continuò la sua orazione il giorno 15, giorno dell’Assunzione scelto appositamente, presso la chiesa di S. Luigi dei Francesi e presso il monastero di Zagorsk davanti alla tomba di S. Sergio. Cosa sorprendente per La Pira: la Chiesa di S. Luigi era gremita di fedeli e la loro orazione era fervida. Egli rimase commosso e stupefatto per questa visione di fede e di preghiera proprio nella capitale dell’ateismo.

Poi il Sindaco di Firenze andò a Zagorsk a circa 40 km da Mosca e lì si presentò uno spettacolo di incomparabile bellezza: un monastero grande quasi come una città e lì venne accolto festosamente dal Rettore dell’Accademia Teologica che gli disse “il popolo russo ha cambiato l’economia, ha cambiato politica ma non ha cambiato fede”.

La Pira gli ricordò di non essere solo ma in compagnia di centinaia di monasteri femminili di clausura del mondo, e alla meraviglia dell’interlocutore, gli spiegò la logica di queste missioni invisibili per le quali egli mandava delle circolari a tutti i monasteri di clausura perché questi garantissero preghiere per le sue iniziative politico-religiose. Il Rettore gli chiese di mandare anche a loro queste circolari e La Pira promise di farlo. Ed ecco finalmente l’incontro con il Soviet Supremo. La Pira esordì dicendo “Signori io sono un credente cristiano e dunque parto da un’ipotesi di lavoro che, per me, non è soltanto di fede religiosa ma razionalmente scientifica. Credo nella presenza di Dio nella storia e dunque nell’incarnazione e nella resurrezione di Cristo dopo la morte in Croce; credo che la resurrezione di Cristo è un evento di salvezza che attrae a sé i secoli e le nazioni. Credo dunque nella forza storica della preghiera. Quindi secondo questa logica ho deciso di dare un contributo alla coesistenza pacifica est-ovest come dice il Sig. Krusciov, facendo un ponte di preghiera fra occidente e oriente per sostenere come posso, la grande edificazione di pace nella quale tutti siamo impegnati. C’è chi ha le bombe atomiche, io ho soltanto le bombe della preghiera, e siccome ogni ponte ha due piloni, sono andato prima nel santuario occidentale di Fatima, dove la Madonna ha promesso la pace collegandola alla tradizione cristiana della Russia e poi mi sono recato, l’altro ieri, giorno dell’Assunta nel vostro tradizionale santuario della Santissima Trinità a Zagorsk a pregare sulla tomba di S. Sergio e sotto le icone del vostro più grande agiografo Andrey Rubliov parente spirituale del Beato Angelico della mia Firenze. Dunque, Signori del Soviet Supremo, il nostro disegno architettonico, deve essere questo : dare ai popoli la pace, costruire case, fecondare i campi aprire officine, scuole e ospedali, far fiorire le arti e giardini ricostruire ovunque le chiese e le cattedrali. Perché la pace deve essere costruita a più piani, a ogni livello della realtà umana economico sociale, politico, culturale, religioso. Soltanto così il nostro ponte di pace tra oriente e occidente diventerà incrollabile. E così lavoreremo per il più grande ideale storico della nostra epopea un pacifico tempo di avvento umano e cristiano”.

Ricorda Giorgio La Pira in una delle sue lettere alle claustrali che i suoi interlocutori lo guardavano esterrefatti. Eppure non si poteva non dire che il suo ragionamento fosse di una logicità stringente. La Pira continua nella sua lettera alla reverenda madre di aver detto al Soviet: “Ricordatevi. I popoli battezzati sono come gli uccelli e come i pesci che tornano sempre, anche da molto lontano, ai loro nidi. Tornano alla casa paterna dove sono nati e dalla quale sono partiti; si ricordano e tornano (come dice la parabola e come dice un celebre salmo, il salmo 21).

Così i vostri popoli si ricorderanno (anzi sono già in via di ricordarsi) delle bellezze della pace, della gioia della casa natale e torneranno ad essa! E daranno gioia al Padre celeste: dalle rive dolorose dei fiumi di Babilonia (Sal. 136) si ricorderanno di Gerusalemme lontana e distrutta e piangeranno e prenderanno la strada del ritorno! Ecco il messaggio di Fatima: finalmente il mio cuore Immacolato trionferà la Russia si convertirà e vi sarà pace nel mondo. Ecco Madre Reverenda la sostanza dei miei colloqui”.

Questo raccontò La Pira alla sua interlocutrice dimostrando di essere stato un interprete fedele del Messaggio di Fatima, di averlo incarnato e di averlo portato avanti con passione e con fede. E quando dice più avanti “I risultati? Madre Reverenda, Dio solo li conosce: non c’è che ripetere la frase di S. Paolo: Ego plantavi, Apollo rigavit, Deus autem incrementum dedit”.
Bene , noi possiamo affermare uomini del 2007 che non dovette passare molto tempo perché dal 1959 al 1989, anno della caduta del comunismo e del Muro di Berlino, ci furono soltanto 30 anni di differenza. Ora nelle terre dell’est le cose sono profondamente cambiate e personalmente sono rimasto commosso dai racconti che ho potuto ascoltare il 17 novembre u.s. all’auditorium Augustinianum, fatti dall’Arcivescovo di Minsk Mons. Tadeusz Kondruziewicz. Egli ha potuto affermare con soddisfazione, che dopo tanti anni di persecuzioni, finalmente l’attività religiosa in Bielorussia e in Ucraina è molto intensa con continue nascite di vocazioni, di seminari e di tante realtà cattoliche. Così anche la relazione di padre Paulo Vyschkovksy è stata toccante e commovente per la crudezza dei racconti di martirio in terra ucraina di cui lui non è stato solo testimone oculare ma anche e purtroppo un testimone che ha subito sulla sua pelle, la sofferenza inflittagli dagli aguzzini. Fortunatamente la situazione è ora cambiata e la libertà religiosa è ormai una realtà consolidata. Ma, ricollegandomi a Giorgio La Pira e alla sua fede incrollabile nell’intervento di Dio nella Storia (in questo caso particolare attraverso la Madonna), mi ha particolarmente colpito l’intervento di Padre Alessandro Apollonio. Egli affermava tra le altre cose in quella bellissima serata del 17 novembre che non esiste una storia profana e una storia sacra ma in definitiva esiste solo una storia sacra perché ogni avvenimento anche il più banale può ricollegarsi al sacro perché utilizzato da Dio in tal senso.

Allora mi domando, rispondendomi quindi affermativamente, se tutte le cose fatte e dette da Giorgio La Pira nel luglio e nell’agosto del 1959 non abbiano contribuito a portare i frutti che vediamo oggi e che la Madonna si sia servita anche di lui per affermare più presto e meglio la sua profezia.
... (continua)
martedì, maggio 12, 2009

Cina, il muro di gomma

Un anno dopo il terremoto del Sichuan, un rapporto di Amnesty denuncia: i genitori dei bambini morti nelle scuole crollate finiscono in carcere

PeaceReporter - Invece di convincenti spiegazioni, o di una giustizia che punisca i colpevoli, i genitori delle migliaia di bambini morti un anno fa nel terremoto del Sichuan hanno trovato in molti casi un'altra risposta: il carcere. Lo denuncia un rapporto di Amnesty International, secondo cui la Cina ha cercato di calare un velo sulle proteste degli abitanti delle zone colpite dal sisma, che accusano le autorità di aver impiegato materiali scadenti nella costruzione delle scuole crollate.

Un anno dopo la tremenda scossa, non c'è un bilancio ufficiale delle vittime: si sa che i morti sono 70mila e i "dispersi" 18mila, ma le autorità di Pechino non hanno mai specificato quanti bambini siano rimasti sotto le macerie. La ragione è che il terremoto ha raso al suolo diversi istituti scolastici, spesso a pochi metri da edifici pubblici rimasti invece in piedi. Il fenomeno delle "scuole tofu", come sono state soprannominate, ha toccato un nervo scoperto in Cina, quello della corruzione nelle amministrazioni locali. E per questo, le autorità si difendono dietro il "segreto di Stato" per nascondere la verità. In questo rientra anche la lista completa dei deceduti: verrà pubblicata nel 2010, spiega Pechino, per "rispetto delle vittime".

Molti genitori rimasti senza figli preferirebbero chiarezza da subito, ma si stanno scontrando con un muro di gomma. Nell'anno passato dal sisma - denuncia il rapporto di Amnesty, confermando notizie già emerse - hanno ricevuto offerte per comprare il loro silenzio, le loro manifestazioni sono state disperse dalla polizia, e sono stati messi sotto osservazione speciale da parte delle autorità. Molti di loro hanno i telefoni controllati, e c'è chi ha passato fino a tre settimane in prigione.

Un rapporto di un gruppo di esperti americani, che hanno visitato lo scorso agosto i luoghi colpiti dal terremoto, ha evidenziato la mancanza di strutture portanti in molte delle scuole afflosciatesi su se stesse: semplici mura di mattoni o di cemento, senza quell'acciaio presente invece nei palazzi dell'amministrazione pubblica. Materiali di costruzione in teoria illegali, in base a una legge introdotta dopo il terremoto che colpì la regione di Pechino nel 1976.

Oltre ai parenti più stretti, sulle piccole vittime sta cercando di far luce anche Ai Weivei, un artista della capitale particolarmente critico con il governo. Appassionatosi alla causa, Ai ha compilato finora una lista di circa 5mila bambini morti nel sisma, e stima che il bilancio finale possa arrivare a 8mila. Ma anche lui deve fare i conti con gli ostacoli posti dalle autorità. Una ventina di suoi collaboratori volontari sono stati fermati dalle forze dell'ordine, e le sue varie telefonate a funzionari locali vanno incontro a tre risposte standard: "è un segreto di Stato", oppure "non siamo autorizzati a divulgare informazioni ai singoli individidui". E poi la più paradossale: "Stai offendendo i genitori delle vittime. Stanno soffrendo e non vogliono discutere di queste cose", spiega l'artista. Vorrebbero, invece. Ma non glielo permettono.
... (continua)
martedì, maggio 12, 2009

Sri Lanka: bombardamento su un ospedale da campo, 49 morti

Gordon Weiss: “Colpito da un proiettile di mortaio”. 7000 civili uccisi da febbraio.

PeaceReporter - Il portavoce dell'Onu in Sri Lanka, Gordon Weiss, ha confermato a PeaceReporter la notizia del bombardamento sull'ospedale da campo di Mullivaikal, l'unico attivo nella ‘Safe Zone': il piccolo tratto di costa, nel nord-est dell'isola, dove 50 mila civili tamil sono intrappolati nei feroci combattimenti tra esercito governativo e ribelli delle Tigri tamil (Ltte).
"L'ospedale di Mullivaikal è stato effettivamente colpito da un proiettile di mortaio, ma non siamo in grado di confermare che questo sia stato sparato dalle forze governative. Fonti mediche governative, che si trovano nell'ospedale colpito, parlano di 49 pazienti civili uccisi e di decine di feriti, molti dei quali in fin di vita. Il bilancio di questo ennesimo bagno di sangue è quindi destinato ad aumentare".
L'ospedale allestito nell'ex scuola elementare di Mullivaikal, unica struttura sanitaria attiva nella zona di conflitto, era già stato colpito lo scorso 29 aprile da una cannonata sparata da una nave da guerra della marina militare governativa: allora i pazienti rimasti uccisi uccisi furono nove.
La struttura è sprovvista di attrezzature mediche e medicinali sufficienti a curare le centinaia di civili tamil che ogni giorno vengono ricoverati in seguito alle ferite, le mutilazioni e le ustioni causate dai bombardamenti governativi. Solo negli ultimi tre giorni a Mullivaikal sono stati ricoverati oltre mille feriti in seguito ai bombardamenti governativi che tra sabato e lunedì hanno ucciso oltre quattrocento civili tamil: una strage confermata dall'Onu e non smentita dai responsabili Croce Rossa Internazionale. Secondo le Nazioni Unite, sono quasi settemila i civili tamil uccisi dall'inizio dell'offensiva governativa contro le ultime roccaforti dell'Ltte, scattata all'inizio di febbraio.

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martedì, maggio 12, 2009

Francescani: Non litteraliter o ad litteram ma spiritualiter et pure

"Frate Francesco e il Vangelo tra lettera e spirito" è stato il tema della prolusione inaugurale del master in "Medioevo francescano. Storia, teologia, filosofia", affidata ad André Vauchez, professore emerito di Storia medievale all'Università di Parigi X

Sanfrancescopatronoditalia - Inaugurato venerdì scorso a Roma il Master in "Medioevo francescano. Storia, teologia, filosofia", organizzato dalla Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum in collaborazione con la Facoltà di Lettere e Filosofia della Libera Università Maria Ss. Assunta. "Frate Francesco e il Vangelo tra lettera e spirito" è stato il tema della prolusione inaugurale di André Vauchez, professore emerito di Storia medievale all'Università di Parigi X-Nanterre, già Direttore della École Française de Rome e membro straniero della Accademia Nazionale dei Lincei. Per Francesco, ha spiegato Vauchez, "la ricerca dell'autenticità religiosa si identifica con l'osservazione fedele e completa di un testo ispirato di origine divina". "Si tratta qui di una digressione da cui trapela del fondamentalismo, se si definisce quest'ultimo come la volontà di ritorno ai testi fondamentali di una religione, di applicarli integralmente e di cercarvi una risposta ai principali problemi dell'esistenza individuale e collettiva", ha osservato.

Attenendosi ad una lettura immediata dei fatti, sostiene il professore, "l'esperienza originaria di Francesco si presenta come un miscuglio di entusiasmo religioso e di 'letteralismo' evangelico, che presenta certamente delle similitudini in rapporto a quello che oggi verrebbe definito un movimento fondamentalista". Il francescanesimo, tuttavia, come si sa, "non ha seguito questa via"; "resta da sapere perché e come abbia saputo evitare la deriva alla quale pareva destinato visti i suoi orientamenti originali".
Secondo il professor Vauchez, il movimento francescano "si pone alla confluenza di due correnti che hanno profondamente segnato l'Occidente nel corso del XII secolo per quanto riguarda il dominio religioso e culturale: da una parte il desiderio generale di risalire a delle fonti autentiche o più autentiche, e dall'altro lato una volontà di rinnovo tramite un'interpretazione letterale dei testi sacri".

Il francescanesimo non rappresenta un fondamentalismo "nella misura in cui esso valorizza meno la lettera del testo sacro che l'attitudine di colui a cui si riferisce".
Per l'uomo medievale, ha ricordato, il rapporto tra parola scritta e spirito è paragonabile a quello che gli intellettuali stabiliscono tra forma e materia: "la parola scritta serve ad incarnare lo spirito e prende tutto il suo valore dal modo in cui la contiene e l'esprime integralmente". Da ciò deriva "l'accento posto da Francesco in maniera tenace ed appassionata sull'osservanza più concreta possibile del Vangelo e della regola dei Frati Minori, che ai suoi occhi formavano un tutt'uno con lui".

Il rispetto letterale del testo, tuttavia, non era per il Santo fine a se stesso, al punto che "egli non impiega mai, in questo contesto, le parole litteraliter o ad litteram, ma l'espressione spiritualiter et pure". Si potrebbe essere tentati di affermare che Francesco era "partigiano di un'osservanza 'spiritualmente letterale' della regola, nella misura in cui essa costituiva non un assoluto, ma un mezzo relativo ad un fine, al servizio del progresso spirituale dell'individuo e della comunità alla quale apparteneva".

Ai suoi occhi, infatti, l'essenziale "non era tanto il rispetto capillare delle sue prescrizioni, quanto l'esigenza di una coerenza personale integrale, il non restare fermi alle parole, per quanto fossero sublimi, ma lasciarsi coinvolgere da queste ed impegnarsi sulla strada che esse aprivano". "La forma vitae Minorum - ha concluso Vauchez - non è nient'altro che una fedeltà spirituale alla lettera del testo evangelico, considerata come la chiave di volta del comportamento cristiano e il metro con il quale tutte le osservanze e le pratiche religiose dei Frati devono essere misurate". Fondata nel 1969, la Scuola Superiore di Studi Medievali e Francescani della Pontificia Università Antonianum mira a offrire strumenti per uno studio approfondito delle fonti che favorisca una conoscenza obiettiva della storia medievale e francescana. Oltre al Master, ha istituito un Diploma di specializzazione in Studi Medievali.

... (continua)
martedì, maggio 12, 2009

Tasmania: aggrappati come koala per proteggere la foresta

Torna il conflitto nelle foreste della Tasmania. Gli ambientalisti se ne stanno aggrappati come koala in cima agli eucalipti secolari, per impedire che vengano abbattuti.

Salva Le Foreste - La risposta delle autorità non si è fatta aspettare: 60 agenti di polizia hanno rimosso nei giorni scorsi i manifestanti, subito seguiti dai tagliaboschi pronti ad abbattere i centenari eucalipti della Upper Florentine Valley, e 20 ecologisti sono stati incriminati per accesso in area interdetta. Ma altri 300 attivisti si sono arrampicati sugli alberi, alcuni passando la notte in postazioni di fortuna a decine di metri dal suolo, malgrado le temperature al di sotto dello zero. Benché le proteste abbiano diviso in due la regione, le autorità ne hanno fatto una questione di principio, e inviato i climbers della polizia, con l'ordine di rimuovere gli attivisti e di portare a termine il taglio degli eucalipti. Il legno dei giganti della foresta è destinato a produrre 2.000 tonnellate di trucioli destinati alle cartiere asiatiche, come dimostra il rapporto di Wilderness Society e Still Wild Still Threatened: Oldgrowth for export.

"Di fronte al dibattito in corso sul cambiamento climatico, è assurdo che il primo ministro David Bartlett permetta che le foreste originarie del paese siano distrutte per profitti di breve termine" ha commentato Ed Hill, portavoce dello Still Wild Still Threatened.

"Fino al 2031 nel paese non ci saranno piantagioni a sufficienza per rifornire di materie prime l'industria della carta" ribatte Terry Edwards, direttore della potente Forest Industries Association of Tasmania. Ma secondo gli ambientalisti il 2031 sarà troppo tardi: per quella data le foreste originarie saranno state completamente saccheggiate per produrre materiali di basso valore e avanzano il sospetto che l'industria stia cercando di abbattere quante più foreste possibili, prima che sia ri conosciuto ufficialmente il loro valore di stoccaggio di carbonio. Nella sola stagione 2007-08, sono stati abbattuti 2.110 ettari di foresta, con una crescita del 30% rispetto agli anni precedenti.
... (continua)
martedì, maggio 12, 2009

P. Jaeger: I cattolici attendono la restituzione del Cenacolo

Il francescano israeliano sottolinea che la Custodia di Terra Santa e la Chiesa continuano ad esigere il ritorno di questo Luogo Santo. Nel 2000 molti media avevano suscitato aspettative che Israele avrebbe restituito il Cenacolo al papa Giovanni Paolo II, ma finora tutto ciò non si è avverato. Una questione che attende una soluzione.

Città del Vaticano (AsiaNews) – La Custodia di Terra Santa e la Chiesa nel mondo continuano ad esigere la restituzione del Cenacolo, che secondo alcuni media il governo israeliano aveva promesso di ridare alla Chiesa già ai tempi di Giovanni Paolo II. L’edificio del Cenacolo è il luogo dove oggi Benedetto XVI ha recitato il Regina Caeli, nel suo pellegrinaggio ai Luoghi Santi.
P. Pierbattista Pizzaballa, Custode di Terra Santa, salutando il pontefice, lo ha definito “il più piccolo e… forse anche il meno curato” dei Luoghi Santi, che evidenzia “tutte le contraddizioni della Terra Santa…, il Luogo della Santità di Dio, del suo amore incondizionato, e della piccolezza dell’uomo”. Nonostante ciò, egli ha proseguito, “il Cenacolo è anche la struggente e forte nostalgia della nostra casa e insieme la nostalgia di un Luogo santo che ci appartiene come cristiani e come Chiesa”.

Sulla situazione odierna del s. Cenacolo, AsiaNews ha posto alcune domande al giurista francescano p. David-Maria A. Jaeger, esperto di rapporti Chiesa-Stato in Terra Santa.

P. Jaeger, a chi “ appartiene” il Cenacolo?

Il pellegrinaggio del Santo Padre al s. Cenacolo sul s. Monte Sion, Santuario dell'Ultima Cena, fa presente in modo inevitabile l'anomalia dell'attuale situazione di questo Luogo Santo. Esso si può definire “Luogo di Nascita della Chiesa” perché lì è avvenuta l’istituzione della Santa Messa e la discesa dello Spirito Santo. Il Cenacolo è divenuto proprietà della francescana Custodia di Terra Santa - e sua casa-madre - nel 14mo secolo, dono dei Re di Napoli, con la speciale approvazione e benedizione del Papa. Due secoli dopo, gli allora governanti ottomani di Gerusalemme hanno cacciato via i francescani con la violenza, ed ora il Luogo Santo è in potere del Governo di Israele.

La Custodia francescana però, non ha mai rinunciato al suo diritto di proprietà rispetto al Luogo Santo, e per tutti questi secoli ha esigito ed esige tuttora la sua restituzione. Lo ha fatto e lo fa a nome di tutta la Chiesa Cattolica ovunque nel mondo, che, per mandato pontificio, la Custodia rappresenta in questo ed altri Luoghi Santi. Come segno perenne della non-acquiescenza nei risultati ingiusti dell'estromissione violenta, il titolo principale ed originale del Custode di Terra Santa rimane sempre quello di "Guardiano del s. Monte Sion", come si vede anche dal suo sigillo.

Quali sono le prospettive concrete per la restituzione del Cenacolo?

E' ben noto - come i media riferirono all'epoca - che c'era molta speranza che il Governo avrebbe effettuato la restituzione nel 2000, in occasione del Pellegrinaggio del Servo di Dio papa Giovanni Paolo II. Naturalmente - come pure riferito dai media - simili speranze sono state riaccese all'annuncio del pellegrinaggio dell’attuale pontefice, papa Benedetto XVI.

Anche questa volta, almeno fino a questo momento, le attese dell'orbe cattolico pare siano state deluse. Ma la Chiesa ha atteso per secoli ed è improbabile che rinunci ora a tale attesa.

In effetti, la progressiva amichevole normalizzazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa sta rafforzando tali attese, sostenute dalle ferventi preghiere dei cattolici di tutto il mondo, ai quali il pellegrinaggio del Santo Padre ricorda questa questione ancora da risolvere.

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martedì, maggio 12, 2009

Domani il Papa a Betlemme

Continua il viaggio del Santo Padre in Terra Santa

Radio Vaticana - Oggi pomeriggio il Papa presiederà la Messa nella Valle di Giosafat: domani il trasferimento nei Territori Autonomi Palestinesi. Benedetto XVI giungerà in mattinata a Betlemme dove incontrerà il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas. Subito dopo celebrerà la Messa nella Piazza della Mangiatoia. Nel pomeriggio il Pontefice visiterà la Grotta della Natività e, a seguire, il Caritas Baby Hospital di Betlemme e il campo profughi di Aida. In serata il rientro a Gerusalemme. Sul significato di questa visita ascoltiamo padre Jerzy Kraj, guardiano di Betlemme, al microfono di Roberto Piermarini (ascolta):

R. – Per noi e per la popolazione di Betlemme è un segno della storia di 20 secoli della cristianità, come presenza di una comunità viva. Abbiamo una Basilica che ricorda l’inizio della vita terrena di Gesù, ma accanto a questa Basilica, da sempre, c’è una comunità viva. E allora noi siamo qui per testimoniare l’amore di Dio per tutti gli uomini, compresi quelli che vengono come pellegrini in Terra Santa.

D. – Padre Jerzy, che cosa chiede il pellegrino che viene a Betlemme?


R. – Il pellegrino che viene tocca soprattutto i luoghi santi, come sorgenti della fede. Qui si tocca l’inizio della vita di Dio in mezzo a noi. Allora, il pellegrino arriva qui, per toccare con mano quella viva presenza di Dio. Io credo che adorando nella grotta della Natività, il luogo storico che ricorda l’inizio della presenza di Gesù in mezzo a noi, si celebra l’amore di Dio, che si è rivelato in mezzo a noi.


D. – All’interno della Basilica, qual è il rapporto con le altre confessioni cristiane?


R. – Abbiamo tre comunità qui: i francescani come rappresentanti della Chiesa cattolica, i greco-ortodossi e gli armeni. I rapporti sono relativamente buoni. Ci sono alle volte delle tensioni, ma nell’insieme bisogna riconoscere che c’è una buona collaborazione, perchè nel cuore di tutti c’è forse un amore troppo geloso di questo luogo e in questo amore geloso a volte c’è una specie di rivalità, ma rivalità, credo, guidata soprattutto dall’autenticità del luogo santo.


D. – E' rimasto ancora qualcosa dell’assedio che c’è stato qui in questa Basilica per molti giorni? E’ rimasto qualche segno o è tutto cancellato ormai?

R. – Ci sono segni sul muro esterno della Basilica di qualche pallottola volante, che ha lasciato schegge sulla pietra antica. Il resto è stato soprattutto cancellato dalla memoria positiva, memoria di una testimonianza di custodire il luogo e offrirlo a tutti i pellegrini e anche ai cristiani locali.


D. – Gesù Cristo si è incarnato a Betlemme per portare al mondo la pace, ma è veramente difficile la pace in questa terra così travagliata?


R. – La pace è soprattutto un impegno morale. E’ difficile perchè l’uomo ancora non ha colto la pace di Dio, di Gesù, che porta ad un rinnovamento del cuore. Finché noi cercheremo di costruire la pace sugli accordi politici, non arriverà mai un’autentica pace, collaborazione, riconciliazione dei popoli qui in Terra Santa, tra i palestinesi e gli israeliani. Occorre un rinnovamento interiore. I cristiani sono segno di questo ponte, di questa visione positiva, di fermento dall’interno per costruire una pace non basata sulle dichiarazioni, ma soprattutto sull’amore che Cristo ci ha portato.


D. – E lei personalmente che cosa si aspetta da questa visita del Papa?


R. – Un segno positivo per noi custodi dei luoghi santi. I francescani quest’anno ricordano i 700 anni dei documenti delle autorità musulmane per poter custodire questo luogo. Ci ricordiamo le storie non facili, gli anni difficili. Ricordo con tanta gioia la visita del Santo Padre Giovanni Paolo II nel 2000. La stessa attesa, la stessa gioia in questa visita di Benedetto XVI, come segno del terzo Papa dopo Paolo VI e Giovanni Paolo II, che viene qui a confermare la comunità cristiana e a seminare segni di pace e anche di riconciliazione tra la popolazione locale.

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martedì, maggio 12, 2009

L'Onu al governo italiano: riammetta i migranti respinti in Libia

“Riammettere quelle persone rinviate dall'Italia ed identificate dall'Unhcr come individui che cercano protezione internazionale”

Radio Vaticana - Non si spengono le polemiche sul respingimento degli immigrati nelle acque internazionali da parte delle autorità italiane. Preoccupazione è stata espressa dall'Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (Unhcr), che ha annunciato di aver scritto al governo di Roma per riammettere coloro che sono stati riportati in Libia. Intanto dall’Egitto nuovi chiarimenti arrivano dal premier Berlusconi. Il servizio di Benedetta Capelli (ascolta):

“Riammettere quelle persone rinviate dall'Italia ed identificate dall'Unhcr come individui che cercano protezione internazionale”. E’ quanto scrive l’agenzia dell’Onu in una lettera indirizzata al governo Berlusconi, nella quale si esprime “preoccupazione” per la politica ora applicata dall'Italia, che “mina l'accesso all'asilo nell'Unione Europea e comporta il rischio di violare il principio fondamentale di non respingimento”. Tale principio “non conosce limitazione geografica” e gli Stati – sottolinea l’agenzia delle Nazioni Unite - sono obbligati a rispettarlo. La Libia non ha però firmato la Convenzione del 1951 sui rifugiati e “non vi sono garanzie che le persone bisognose di protezione internazionale” possano trovarla in quel Paese. Solo stamani il premier Berlusconi, da Sharm el Sheik - dove è in corso un vertice con il presidente egiziano Mubarak - è nuovamente intervenuto sull’argomento sostenendo che la linea politica del ministro dell’Interno Maroni è frutto di accordi con la Libia, gestiti direttamente da lui stesso. Il presidente del Consiglio ha poi aggiunto che sui barconi vi sono persone “reclutate dalle organizzazioni criminali” e non richiedenti asilo, che hanno “pagato un biglietto” e pertanto “non sono spinte da una loro particolare situazione all'interno di questi Paesi”. Le dichiarazioni del premier seguono il monito di ieri del Consiglio d’Europa, che ha invitato l’Italia a sospendere i respingimenti mentre la Commissione Europea ha parlato in proposito di “fatti usuali”, dando un sostanziale via libera alla politica del governo.

Sempre in Italia è previsto per domani il voto di fiducia sui tre maxiemendamenti al Disegno di legge sulla sicurezza, chiesta alla Camera dal governo. L’opposizione ha criticato la scelta dell’esecutivo dettata – dice – solo da “logiche propagandistiche”. Al centro del Ddl: la reintroduzione del reato di clandestinità che sarà punito con una sanzione per chi entra in Italia o vi soggiorna in modo non regolare. Per la tassa di soggiorno si dovranno pagare 200 euro. Saranno legalizzate le associazioni, note come “ronde”, costituite da privati cittadini per vigilare sulla sicurezza dei cittadini. Le straniere irregolari senza passaporto non potranno riconoscere i propri figli.

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martedì, maggio 12, 2009

Rio de Janeiro: tutti a pesca d'immondizia

Federazione dei pescatori dello stato di Rio ha lanciato l’iniziativa “Bahía limpia”

Agenzia Misna - Da almeno una decina di anni, dalle acque della splendida baia di Guanabara di Rio de Janeiro, ai piedi del Pao de Azucar, sono più i rifiuti che i pesci a cadere nelle reti dei pescatori. Oltre a buona parte degli scarichi delle abitazioni di 10 milioni di carioca che finiscono nel mare anche attraverso i fiumi, è frequente notare lungo il litorale rifiuti abbandonati di ogni sorta, da televisori a pneumatici a tonnellate di carta e plastica. Per correre ai ripari e migliorare le condizioni di vita di 20.000 persone che dipendono dalla pesca artigianale la Federazione dei pescatori dello stato di Rio ha lanciato l’iniziativa “Bahía limpia”, col sostegno dell’azienda petrolifera statale ‘Petrobras’: tre volte a settimana, i pescatori prendono il largo con l’obiettivo di raccogliere l’immondizia che può essere riciclata e tornano ai porti con una media di 15 tonnellate di residui a ogni uscita. L’operazione coinvolge 140 pescherecci che si distribuiscono il lavoro a rotazione, ogni tre mesi, regolarmente pagati dall’amministrazione. Parte dei rifiuti raccolti vanno ad alimentare un’industria ‘verde’ installata sulle rive della baia per produrre energia.

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martedì, maggio 12, 2009

Fiori bianchi per Delara Darabi

Fiori bianchi ai cancelli delle rappresentanze diplomatiche iraniane a Roma e Milano: così Amnesty International commemora Delara Darabi, impiccata venerdì 1 maggio

Amnesty International - Mercoledì 6 maggio, si sono svolte a Roma e a Milano, rispettivamente di fronte all'Ambasciata e al Consolato della Repubblica Islamica dell'Iran, le manifestazioni organizzate da Amnesty International per protestare contro l'esecuzione di Delara Darabi, impiccata la mattina del 1° maggio nella prigione di Rasht. L'iniziativa si è svolta in contemporanea in diverse città europee.

Delara Darabi era stata condannata a morte per l'omicidio di un parente, avvenuto nel 2003, quando aveva 17 anni. Si era inizialmente addossata la responsabilità, con l'intento di salvare dall'impiccagione il suo fidanzato maggiorenne, per poi ritrattare la confessione. Nel 2006 Amnesty International aveva lanciato una campagna per salvare la sua vita.

Secondo l'organizzazione per i diritti umani, il processo terminato con la condanna a morte era stato iniquo, non avendo i giudici preso in considerazione prove che avrebbero potuto scagionarla dall'accusa di omicidio. L'impiccagione è avvenuta senza che l'avvocato di Delara Darabi ne fosse stato messo a conoscenza, nonostante la legge preveda che i legali dei condannati a morte debbano essere informati 48 ore prima dell'esecuzione. Secondo l'organizzazione per i diritti umani, si è trattato di una mossa cinica delle autorità iraniane per aggirare le pressioni nazionali e internazionali che avrebbero potuto salvare la vita di Delara Darabi. Il 19 aprile il Capo dell'autorità giudiziaria aveva concesso due mesi di sospensione.

Quella di Delara Darabi è stata almeno la 140ma esecuzione in Iran dall'inizio dell'anno, la seconda nei confronti di una donna e la seconda nei confronti di un minorenne al momento del reato. Dal 1980, l'Iran ha messo a morte almeno 42 minorenni al momento del reato, in totale disprezzo degli obblighi internazionali che stabiliscono il divieto assoluto di applicare la pena capitale per reati commessi da minori di 18 anni.
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martedì, maggio 12, 2009

Sri Lanka, colpito un ospedale: 45 morti

Fonti mediche locali e le Tigri Tamil accusano il governo, che nega ogni addebito. Più di 300 vittime nel fine settimana.

PeaceReporter - L'aviazione del governo dello Sri Lanka avrebbe bombardato oggi l'ospedale della cittadina di Mullivaikal, uccidendo almeno 45 persone. Lo riferiscono fonti mediche locali e fonti delle Tigri Tamil, i miliziani separatisti che si oppongono al governo di Colombo. Le autorità dello Sri Lanka hanno negato l'episodio, sostenendo che sono le Tigri che continuano a colpire deliberatamente i civili. L'ospedale era pieno dei feriti del fine settimana, quando aspri combattimenti hanno causato la morte di almeno 300 persone e il ferimento di altre mille secondo la drammatica denuncia delle Nazioni Unite.
Sempre per l'Onu, sono almeno 50mila i civili intrappolati nella zona dei combattimenti. Il conflitto tra le Tigri Tamil e il governo di Colombo, dal 1983 a oggi, ha causato la morte di almeno 70mila persone.
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martedì, maggio 12, 2009

Perù: cannoniere contro gli indios...

... per proteggere i petrolieri‏!

SalvaLeForeste - La scorsa settimana, impiegando una cannoniera della marina militare peruviana, la security della compagnia petrolifera Perenco ha forzato violentemente il blocco indigeno del fiume Napo. Gli indigeni protestavano contro la violazione dei loro territori ancestrali. L'organizzazione indigena periviana AIDESEP si domanda come sia possibile che una impresa privata possa utilizzare una cannoniera della marina per invadere le terre indigene. La Perenco ha ottenuto la licenza per lo sfruttamento petrolifero nel lotto 67, un'area remota accessibile solo attraverso il fiume Napo. In questa area abitano ancora due delle ultime tribù di indios ancora non entrati in contatto con la cività occidentale e che rischiano di essere decimati dalle malattie contratte in caso di contatto, come già avvenuto in passato. Meno di due settimane fa il direttore della Perencon, Francois Perrodo, ha incontrato il presidente peruviano Alan Garcia, promettendo un investimento di due miliardi di dollaro nel Lotto 67. Due giorni dopo una legge del governo dichiarava i lavori della compagnia petrolifera "priorità nazionale". Quindi la parola è passata alle cannoniere.
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lunedì, maggio 11, 2009

Nargis, un anno dopo

Viaggio in Birmania tra i sopravvissuti al ciclone che uccise almeno 150 mila persone

PeaceReporter - Un anno è passato da quando Ma Gan, incinta di nove mesi, scappava panciuta dalla furia del ciclone, abbandonando la casa crollata, trovando riparo nella cisterna vuota del vicino. Due giorni dopo, tra i resti di una baracca, è nata Nargis: una bambina venuta alla luce in un mondo appena devastato, privo di acqua pulita, dove il riso marciva nei campi sommersi e le persone avevano perso tutto. Fu così che Ma Gan e la piccola Nargis trascorsero i giorni successivi alla devastazione del ciclone Nargis, in compagnia di familiari e conoscenti, sotto il riparo di una struttura semidistrutta. Sarebbero passati diversi giorni prima che una qualsiasi richiesta d'aiuto riuscisse a trapelare al mondo esterno. Nel frattempo la gente si nutriva con una specie di pappa di riso molliccio, un riso rimasto a mollo per giorni nei campi inondati di acqua salata, gremiti di corpi in decomposizione. "Dopo quattro o cinque giorni delle buone anime sono arrivate con la macchina e hanno lasciato sul bordo della strada cibo e vestiti", spiega il proprietario di quel fazzoletto di terra dove Ma Gan ed altre 30 persone trovarono riparo. Alcune organizzazioni umanitarie locali, insieme agli abitanti più benestanti, furono i primi a distribuire provviste, che però non durarono a lungo. "Gran parte dei soccorsi hanno smesso di arrivare dopo dieci giorni", continua il contadino, "dopodiché, per quattro settimane, ci siamo cibati solo di latte di cocco".

La risposta da parte della comunità internazionale è stata sbalorditiva. Quasi ogni paese del mondo ha donato somme altissime di denaro, alcune spedendo fisicamente i rifornimenti in navi cisterne e aerei carichi di viveri.
Le operazioni di distribuzione però furono ritardate di almeno tre settimane a causa delle rigide restrizioni da parte del governo che aveva bloccato i visti d'entrata per gli operatori umanitari stranieri. Fu solo dopo complesse pratiche burocratiche e pressioni da parte delle grandi Ong internazionali che i checkpoint, che non permettevano il passaggio degli stranieri, furono rimossi, permettendo la penetrazione dei primi aiuti.
Ma Gan e i suoi vicini, accampati di fianco alla strada che collega la ex capitale Yangon con Bogale, erano facilmente accessibili e furono tra i primi ad ottenere il riso, l'acqua, l'aglio, i vestiti e i medicinali donati dalle Ong.

Non tutti furono così fortunati, specie coloro che risiedono all'interno del complesso intreccio di canali e affluenti che formano il delta del fiume Irrawaddy. Questi villaggi, accessibili solo in barca, furono quelli più colpiti dall'inondazione provocata da Nargis e furono gli ultimi a ricevere aiuto.
"Dopo la tempesta, per venti giorni, siamo sopravvissuti solo grazie alle noci di cocco e al riso zuppo che siamo riusciti a salvare", racconta Beh Saw Oo, residente di Chong Sein Gi, un piccolo villaggio di bambù a sud di Bogale dove trecento dei suoi settecento abitanti furono spazzati via dal ciclone.
Il capo del villaggio, Ko Khin Maung Aye , quella notte ha perso la madre, il padre, la moglie, il figlio, una figlia, il fratello e l'intera famiglia del fratello. Fu in grado di salvare solo l'altra figlia, l'unica che riuscì a stringersi al corpo per non farsela portare via dal vento e dall'acqua. Lei oggi vive altrove, con i suoceri. Essendo comunque un proprietario terriero non ebbe accesso agli aiuti gratuiti. Ko Khin Maung Aye ricevette da parte del governo un prestito di semi di riso che dovette ripagare entro la fine dell'anno. "Se possiedi del terreno ti prestano i semi, altrimenti ti prestano dei soldi", spiega. "Io comunque ora sono solo, non ho bisogno di soldi per ricostruire la mia casa". Ha lo sguardo perso nel vuoto. "Ora sono rimasto solo con me stesso da accudire".

Vicino a Pyapong, un paesino dove Nargis si é impossessato di circa cinquemila vite, stanno lentamente ricostruendo il monastero che, nei giorni dopo il ciclone, ha dato riparo a oltre trecento persone. Tavole di legno marcio, statue sbriciolate e mucchi di mattoni frantumati rimangono a testimoniare la tragedia di un anno fa.
"Quella mattina la gente continuava ad arrivare. Venivano, venivano, finché il monastero fu completamente pieno", dice U War Ya Ma, abate del Thiak Kyaung Monastery. "Ma noi avevamo solo poco riso da dar loro". Il riso finì infatti dopo appena tre giorni.
Quattro donne, che avendo perso l'abitazione si trasferirono nel monastero, a distanza di un anno hanno ricostruito una struttura con le vaghe sembianze di una casa. "Abbiamo costruito questa casa con i pezzi di legno e di lamiera che abbiamo trovato per terra". Sugli aiuti dicono: "Tre settimane dopo qualcuno è venuto a portare delle provviste, ma non sapendo a chi distribuirle le ha lasciate davanti al cancello del monastero, se avevamo bisogno di qualcosa andavamo lì a prenderla", dice Paw Myint Kyi, la più anziana delle quattro.

Anche se gran parte degli abitanti dei villaggi ammette di aver ottenuto aiuti, ognuno in quantità diversa, alcuni si lamentano di aver ricevuto, in un anno, due sole buste di riso.
"Anche se Nargis ha distrutto qualsiasi cosa su cui si potesse posare occhio - dicono - la maggior parte di noi è riuscito a raccogliere i detriti e con quelli, in pochi mesi, ci siamo ricostruiti un rifugio".
Attraverso l'intera regione si possono ancora vedere i moncherini degli alberi caduti e i resti scheletrici delle case, ma s'intravedono anche muri ridipinti da poco che brillano di vernice fresca, tetti di lamiera nuovissima che luccicano al sole e tendoni di infiniti colori che espongono le sigle delle tante agenzie dell'Onu e Ong venute fin qui a distribuire il loro aiuto: Unicef, Undp, Wfp, World Vision, Msf, Croce Rossa Internazionale e molte altre.
I sorrisi e i saluti della gente testimonia l'amore per la vita e la forza di chi da sempre è abituato a vivere con poco. Ma questo non significa che la vita sia tornata a essere com'era.
Tutti ancora lottano, chi contro la malinconia verso i familiari morti, chi contro i risultati della perdita dell'unica attività di sostentamento.
"Prima avevamo una piccola sala da tè, ma la tempesta se l'è portata via", spiega Paw Myint Kyi. "Ora dobbiamo lottare per sopravvivere, giorno dopo giorno. La vita non è tornata affatto a essere come prima".
Solo i più benestanti sono riusciti a ridirigere lo sguardo verso il futuro, solo loro hanno avuto i mezzi per ricostruire una vita dignitosa.

Ogni incontro è permeato dal dolore dovuto dalla perdita di qualcuno di vicino.
Cinque bambini che per sopravvivere hanno sfidato le correnti fortissime dei canali, nuotando fino alla terra ferma, hanno perso entrambi i genitori. Il corpo del padre riemerse qualche giorno dopo e riuscirono a seppellirlo, quello della madre non fu mai ritrovato. "Abbiamo paura che arrivi un altro uragano - dicono - ma l'idea non ci fa venire gli incubi. Sogniamo invece i nostri genitori e quelli sono sempre sogni bellissimi".

Jennifer Cavagnol
e Gianrigo Marletta


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lunedì, maggio 11, 2009

Immigrazione e società multietnica

Le dichiarazioni di Don Luigi Ciotti

Liberainformazione - Si respingono barconi colmi di persone disperate, e si grida alla vittoria. Senza nemmeno identificarle, senza riconoscere loro la dignità sancita dal diritto internazionale, dalle convenzioni stabilite per allontanarci dalle epoche buie del razzismo, della superiorità etnica. Respingendole al mittente, cioè a paesi messi in ginocchio dalla guerra, lacerati dalle discriminazioni politiche, decimati dalla fame e dalle malattie.
E' questo davvero ciò che vuole l'Italia, paese che ha nel suo passato lunghe e dolorose migrazioni? La società multietnica è una realtà di tutti i paesi sviluppati, ma solo da noi il fenomeno migratorio è oggetto di semplificazioni, misure demagogiche quanto impraticabili, cinici giochi di potere. Solo da noi una vicenda umana che riguarda il destino di migliaia di persone ma anche il nostro - perché solo insieme alle persone straniere possiamo pensare di avere un futuro, una nuova ricchezza culturale e un nuovo sviluppo economico - pare scivolare in una china d'inciviltà e di disumanità.

Gli episodi di razzismo, le tensioni xenofobe, avallati da dichiarazioni irresponsabili che periodicamente alzano il tiro, erigono muri materiali e culturali, lo confermano. Né vale il tanto sbandierato principio della sicurezza, perché, dati alla mano, è dimostrato che là dove la questione migratoria è stata affrontata con un "mix" di lungimiranza e umanità, creando le condizioni per una integrazione vera, una piena titolarità di diritti e doveri, i reati sono diminuiti. L'accoglienza e il diritto, il riconoscimento e l'attribuzione di responsabilità sono da sempre gli antidoti più efficaci contro un'illegalità e una criminalità, piccola ma anche grande, che si avvantaggia dei margini, delle zone grigie e del sommerso.

Come realtà che operano nel sociale, nel quotidiano faccia a faccia con le persone più deboli e prive di diritti, e come coordinamento che opera nel contrasto alla criminalità organizzata e alle tante forme d'illegalità, di violenza e di corruzione, ci auguriamo che alla vigilia del voto di fiducia sul cd "pacchetto sicurezza" - in base al quale sarebbe introdotto quel reato di "clandestinità" che obbliga di fatto i pubblici ufficiali a denunciare l'immigrato non ancora regolare, quando vi si imbattano nell'esercizio delle loro funzioni - ci sia un forte e corale "no" da parte di quella parte d'Italia memore del proprio passato e desiderosa di costruire un futuro.

"No" contro una norma discriminatoria che viola il principio dell'universalità dei diritti umani, sociali e civili, e rischia di far scivolare ancor più il nostro Paese verso un passato dal quale speravamo di esserci allontanati una volta per tutte.

* presidente di Libera

Gruppo Abele

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lunedì, maggio 11, 2009

Aung San Suu Kyi è malata

La dittatura cerca “pretesti” per prolungare la detenzione

Fonti birmane denunciano “accuse montate ad arte” per impedire il rilascio della leader dell’opposizione. La condanna ai domiciliari scade il 27 maggio; le condizioni di salute della “Signora” sono “serie”. Oggi a mezzogiorno il secondo medico curante ha potuto visitarla. Dall’ottobre scorso il regime militare ha arrestato 350 attivisti.

Yangon, Myanmar (AsiaNews) – “L’arresto del medico personale di Aung San Suu Kyi e il fermo del cittadino americano che l’ha visitata, la cui vicenda rimane per molti versi oscura, sono legati alla imminente scadenza dei termini di custodia a carico della leader dell’opposizione birmana”. È quanto afferma ad AsiaNews una fonte locale, che riferisce di “accuse montate ad arte” dalla dittatura militare per “mantenere agli arresti domiciliari la Cara signora”, le cui condizioni di salute “restano molto serie”.

“Il prossimo 27 maggio – racconta la fonte – scadono i termini di custodia cautelare. Il governo cerca ogni pretesto o espediente per giustificare una proroga del provvedimento”, incurante delle sue condizioni di salute che “non sono buone: è molto debole e fatica a mangiare”. La Nobel per la pace è disidratata, la pressione è molto bassa e necessita di flebo per nutrirsi. La giunta militare ha inoltre arrestato Tim Myo Win, il primo medico della “Cara signora” e uno dei pochissimi autorizzato a incontrarla.

Il fermo del medico sembra legato alla cattura di un cittadino americano, il 53enne John Willian Yeatta, per due giorni nascosto nella villa della leader dell’opposizione. L’uomo è stato bloccato mentre cercava di allontanarsi, sempre a nuoto, nelle acque del lago Inya, sulla cui riva si affaccia la villa dove è rinchiusa Aung San Suu Kyi. “La vicenda – sottolinea la fonte di AsiaNews – presenta molti lati oscuri. A breve il governo dovrebbe fare una dichiarazione ufficiale”. Dall’ambasciata degli Stati Uniti è stata avanzata più volte la richiesta di incontrare l’uomo, sempre respinta dai vertici militari.

Aung San Suu Kyi è il simbolo di una lunga lista di detenuti politici in Myanmar, formata da monaci buddisti, membri del partito di opposizione Nld ed esponenti di Generazione88. Oggi Assistance Association for Political Prisoners (Burma), Ong con base in Thailandia, denuncia l’arresto di “più di 350 attivisti dall’ottobre scorso”, molti dei quali sono stati trasferiti “in prigioni situate in aree remote del Paese”, perché non possano ricevere “visite dai familiari e assistenza medica”. Essi subiscono “torture sistematiche, privazione di cure mediche e condanne decennali”. Nelle carceri birmane vi sono 127 prigionieri politici in precarie condizioni di salute, 19 dei quali necessitano di “cure immediate”. Le medicine vengono consegnate versando “tangenti alle guardie carcerarie”, in un sistema di corruzione “diffuso ed endemico”. (continua a leggere)

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lunedì, maggio 11, 2009

Israele: il Papa al Memoriale dell'Olocausto

Milioni di ebrei hanno perso la vita ma non i nomi. Le loro sofferenze non siano mai negate, sminuite o dimenticate

Radio Vaticana - “Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi”: è quanto ha detto il Papa nel discorso tenuto nella Sala della Rimembranza dello Yad Vashem, il Memoriale dell’Olocausto. “Possano i nomi di queste vittime non perire mai! – ha aggiunto il pontefice - Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa!”. Quindi ha aggiunto: “Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente”. Poi ha concluso con queste parole: “Cari Amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare”. Ecco il testo integrale del discorso del Papa:

“Io concederò nella mia casa e dentro le mie mura un monumento e un nome… darò loro un nome eterno che non sarà mai cancellato” (Is 56,5). Questo passo tratto dal Libro del profeta Isaia offre le due semplici parole che esprimono in modo solenne il significato profondo di questo luogo venerato: yad – “memoriale”; shem – “nome”. Sono giunto qui per soffermarmi in silenzio davanti a questo monumento, eretto per onorare la memoria dei milioni di ebrei uccisi nell’orrenda tragedia della Shoah. Essi persero la propria vita, ma non perderanno mai i loro nomi: questi sono stabilmente incisi nei cuori dei loro cari, dei loro compagni di prigionia, e di quanti sono decisi a non permettere mai più che un simile orrore possa disonorare ancora l’umanità. I loro nomi, in particolare e soprattutto, sono incisi in modo indelebile nella memoria di Dio Onnipotente. Uno può derubare il vicino dei suoi possedimenti, delle occasioni favorevoli o della libertà. Si può intessere una insidiosa rete di bugie per convincere altri che certi gruppi non meritano rispetto. E tuttavia, per quanto ci si sforzi, non si può mai portar via il nome di un altro essere umano. La Sacra Scrittura ci insegna l’importanza dei nomi quando viene affidata a qualcuno una missione unica o un dono speciale. Dio ha chiamato Abram “Abraham” perché doveva diventare il “padre di molti popoli” (Gn 17,5). Giacobbe fu chiamato “Israele” perché aveva “combattuto con Dio e con gli uomini ed aveva vinto” (cfr Gn 32,29). I nomi custoditi in questo venerato monumento avranno per sempre un sacro posto fra gli innumerevoli discendenti di Abraham. Come avvenne per Abraham, anche la loro fede fu provata. Come per Giacobbe, anch’essi furono immersi nella lotta fra il bene e il male, mentre lottavano per discernere i disegni dell’Onnipotente. Possano i nomi di queste vittime non perire mai! Possano le loro sofferenze non essere mai negate, sminuite o dimenticate! E possa ogni persona di buona volontà vigilare per sradicare dal cuore dell’uomo qualsiasi cosa capace di portare a tragedie simili a questa! La Chiesa Cattolica, impegnata negli insegnamenti di Gesù e protesa ad imitarne l’amore per ogni persona, prova profonda compassione per le vittime qui ricordate. Alla stessa maniera, essa si schiera accanto a quanti oggi sono soggetti a persecuzioni per causa della razza, del colore, della condizione di vita o della religione – le loro sofferenze sono le sue e sua è la loro speranza di giustizia. Come Vescovo di Roma e Successore dell’Apostolo Pietro, ribadisco – come i miei predecessori – l’impegno della Chiesa a pregare e ad operare senza stancarsi per assicurare che l’odio non regni mai più nel cuore degli uomini. Il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe è il Dio della pace (cfr Sal 85,9). Le Scritture insegnano che è nostro dovere ricordare al mondo che questo Dio vive, anche se talvolta troviamo difficile comprendere le sue misteriose ed imperscrutabili vie. Egli ha rivelato se stesso e continua ad operare nella storia umana. Lui solo governa il mondo con giustizia e giudica con equità ogni popolo (cfr Sal 9,9). Fissando lo sguardo sui volti riflessi nello specchio d’acqua che si stende silenzioso all’interno di questo memoriale, non si può fare a meno di ricordare come ciascuno di loro rechi un nome. Posso soltanto immaginare la gioiosa aspettativa dei loro genitori, mentre attendevano con ansia la nascita dei loro bambini. Quale nome daremo a questo figlio? Che ne sarà di lui o di lei? Chi avrebbe potuto immaginare che sarebbero stati condannati ad un così lacrimevole destino! Mentre siamo qui in silenzio, il loro grido echeggia ancora nei nostri cuori. È un grido che si leva contro ogni atto di ingiustizia e di violenza. È una perenne condanna contro lo spargimento di sangue innocente. È il grido di Abele che sale dalla terra verso l’Onnipotente. Nel professare la nostra incrollabile fiducia in Dio, diamo voce a quel grido con le parole del Libro delle Lamentazioni, così cariche di significato sia per gli ebrei che per i cristiani: “Le grazie del Signore non sono finite, non sono esaurite le sue misericordie; Si rinnovano ogni mattina, grande è la sua fedeltà; «Mia parte è il Signore – io esclamo –, per questo in lui spero». Buono è il Signore con chi spera in lui, con colui che lo cerca. È bene aspettare in silenzio la salvezza del Signore” (3,22-26). Cari Amici, sono profondamente grato a Dio e a voi per l’opportunità che mi è stata data di sostare qui in silenzio: un silenzio per ricordare, un silenzio per sperare.
... (continua)
lunedì, maggio 11, 2009

Pakistan: un milione di civili in fuga dagli scontri esercito-talebani

In totale, i media locali parlano di un milione di profughi che, con ogni mezzo di trasporto, ma anche a piedi, lasciano le proprie case in cerca di salvezza

Radio Vaticana - E’ emergenza umanitaria in Pakistan. Sono almeno 360.000 i civili in fuga dalla valle dello Swat e dalle altre zone nord occidentali del Paese, per scappare agli scontri tra Esercito e Talebani legati ad Al Qaeda. A renderlo noto questa mattina l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, precisando che il dato si riferisce al periodo dal 2 maggio ad oggi. Questi sfollati vanno ad aggiungersi alle oltre 550 mila persone fuggite dalla zona a partire dall'agosto scorso. In totale, i media locali parlano di un milione di profughi che, con ogni mezzo di trasporto, ma anche a piedi, lasciano le proprie case in cerca di salvezza. A complicare la situazione, l’ennesimo attentato suicida che stamattina nei pressi di Peshawar ha provocato almeno 10 vittime ad un posto di blocco. Sull’emergenza nella valle dello Swat, Giada Aquilino ha intervistato il professore pakistano Mobeen Shahid, assistente ordinario di Storia della filosofia contemporanea alla Pontificia Università Lateranense e console onorario per la Cultura presso l’ambasciata pakistana in Italia:

R. – La situazione umanitaria è molto difficile, attualmente, guardando anche a come i Talebani si stanno comportando con la gente comune che viveva in pace e serenità, e visto anche che la convivenza dei non musulmani era ottimale; noi abbiamo tante scuole, anche cattoliche, della diocesi di Islamabad-Rawalpindi.


D. – Che potere hanno, i Talebani, soprattutto nella zona dello Swat?


R. – Il potere è tutto quello che gli è concesso da questi pochi capitribù, perché ci sono anche le zone tribali, dove sono stati formati tanti Talebani per mandarli anche in Afghanistan; loro sono più invogliati a intrattenere rapporti coi Talebani, perché c’è tutto un commercio di altre cose illegali che si fa a livello internazionale, partendo dalla terra dell’Afghanistan.


D. – Quindi, commercio di droga?


R. – Sì.


D. – Per la valle dello Swat il presidente Zardari ha parlato di battaglia decisiva per la sopravvivenza del Pakistan; qual è la linea del Governo contri i Talebani?


R. – Il governo appoggia lì opinione internazionale dell’Europa e degli Stati Uniti, anche per cacciare via i talebani dalle proprie terre, e non è un compito facile.


D. – Ci sono comunità cristiane nella zona dello Swat?


R. – La diocesi di Rawalpindi-Islamabad copre tutta la provincia del nord; abbiamo varie parrocchie, ed infatti anche nello Swat c’è la nostra scuola cattolica, e vorrei citare l’esempio di una lettera di una suora, che scrisse quando la prima volta, l’anno scorso, quella zona dello Swat è stata attaccata dai Talebani; praticamente, i cattolici – specialmente le suore che gestiscono la scuola – sono una presenza molto importante per poter anche comunicare un messaggio di pace, di convivenza serena tra le persone presenti lì, ma i Talebani hanno attaccato la scuola, hanno distrutto le mura, i bambini erano impauriti e le suore non hanno lasciato il convento finché i bambini non sono arrivati alla loro destinazione, cioè finché non sono stati consegnati ai propri genitori, che erano sia musulmani che cristiani.


D. – Professore, in questi giorni si hanno notizie di assistenza da parte delle organizzazioni e da parte delle comunità cristiane alle popolazioni in fuga?


R. – Si, l’Onu sta avendo un grande ruolo, ma si dovrebbe apprezzare anche la Caritas, che è presente in queste zone.

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lunedì, maggio 11, 2009

Voci contro la barbarie

L'ultimo libro di Antonio Cassese, giurista e primo presidente del tribunale dell'Aja

PeaceReporter - Diritti umani, diritti naturali. Sinonimi istintivi. Ma ''le norme etiche esprimono un rifiuto dell'ordine biologico. Tacciano la selezione naturale di crudeltà, l'ineguaglianza naturale di ingiustizia. Esigono il rispetto dell'individuo, mentre nella storia naturale l'individuo non conta: la sopravvivenza della specie è l'unico disegno. Il concetto di diritti umani non si ispira alla legge naturale, al contrario: è ribellione contro quella legge''.

antonio casseseQuanto è comodo ancora, e quanto spesso, blindare le proprie rivendicazioni in una non meglio precisata natura umana, eterna, e indiscussa e universale, e dunque pronto scudo di ogni imperialismo - ''chi dice umanità, cerca di ingannarti'', avvertiva Carl Schmitt. E invece comincia così, contromano, non dal tempio di un filosofo ma dalla lama rasoterra di un biologo, l'antologia in cui Antonio Cassese racconta ''la battaglia per i diritti umani attraverso i suoi protagonisti''. Dalla consapevolezza che i diritti sono ''una conquista permanente''. Né trovati, né ricevuti: in una storia che è insieme nuove forme di potere, e parallele, nuove forme di oppressione, in cui ''non esiste una libertà perduta per sempre né per sempre conquistata'', i diritti sono ''una creazione quotidiana'': il regno non del glossatore, ma del dissidente. Perché la libertà è un gioco che si custodisce praticandolo - e ''se siete ancora vivi e graduati, non avete mai obiettato a nulla''.
E questa ribellione che nel Novecento si consolida rivoluzione - non ancora nel senso politico di sovversione dell'ordine costituito, ma comunque già nel senso copernicano di ribaltamento del punto di osservazione: dallo stato alla persona, dai governanti ai governati - è per Norberto Bobbio come la rivoluzione francese per Kant, il signum prognosticum del progresso morale dell'umanità. Quello stesso Bobbio che precisa appunto come il fondamento dei diritti umani non sia che solo storico e relativo, ancorato non a valori ultimi e assoluti, ma al consenso costruito nel 1948 sulla Dichiarazione Universale: in cui "avevamo dimenticato talune cose" - per esempio, consultare i musulmani, annota Cassese attraverso Eleanor Roosvelt, che della Dichiarazione fu tra i redattori. Perché il suo obiettivo è un universalismo "non dogmatico e a priori, ma sincretico e a posteriori, sempre imperfetto", un universalismo asciugato dal fondamentalismo, per tradurla con Franco Cassano: una cittadinanza cosmopolitica minima, contrappunto etico a una globalizzazione per ora solo di precarietà e rischi - non livellare via le diversità, ma vivere un giorno "tutti differenti senza paura". Perché davanti alla giustizia internazionale, è vero - come non pensare a una giustizia dei vincitori? L'immunità alla Nato per i crimini nei Balcani, l'esecuzione di Saddam Hussein, i nobili esercizi di giurisprudenza in lontane dittature africane in simultanea all'indifferenza per Gaza - ma Cassese è uno che si insedia alla guida del tribunale per il Libano, e il suo primo atto, la scarcerazione di quattro detenuti dopo anni ancora senza incriminazione, viene condiviso proprio da chi più ha temuto e criticato il processo Hariri come ennesima continuazione della guerra con altri mezzi. "Esteticamente, perdere è sempre più sicuro", suggeriva Chatwin: Cassese non occulta le complessità, e insufficienze e contraddizioni: semplicemente, è uno che nella battaglia ha scelto di essere protagonista da dentro.

Perché Cassese è certo un kantiano, ma sarebbe riduttivo infeltrirlo un illuminista: non la fede nella ragione, ma l'orma di Mounier e Maritain, piuttosto, e il valore elementare e supremo della persona. E della persona, anche tutta la fragilità: senza lasciarsi mai deviare dall'eccezione, abbagliare dall'orrore, e indagando saldo invece sull'ordinarietà della vita, la complicità tacita e quasi inconsapevole, quell'abitudine quello sbiadirsi, quell'attenuazione dei sensi dell'uomo azzerato a ingranaggio - accanto e più degli Himmler, i Groning che ad Auschwitz hanno lavorato come anonimi contabili, così, come a uno sportello della posta: queste guerre in cui ''uno pulisce, uno cucina, l'altro uccide''. Ed è in questa sensibilità questa cura, questo grandangolo sul singolo che Cassese si differenzia dai tanti giuristi con l'elmetto: per ''il rispetto che è comunque tenuto anche all'uomo malvagio'', per tornare ancora a Kant, quel non illudersi mai personalmente immune dall'abisso - se ''i macellai di questo secolo sono tra noi, e del tutto simili a noi'', insegnava Hannah Arendt. Qualcuno all'Aja titola le sue memorie La caccia, come se l'icona della giustizia fosse non più la bilancia, ma il fucile - come se risolto un Milosevic, risolti i Balcani: Cassese è l'esatto contrario, non un crociato, piuttosto un calviniano Palomar dei diritti umani - ''un uomo si mette in marcia per raggiungere, passo a passo, la salvezza: ma non è ancora arrivato''. Uno pronto a scandagliare anche se stesso, a chiamare con il loro nome il genocidio in Ruanda come la tortura di Bolzaneto: perché se vogliamo agire efficaci per i diritti umani, abbiamo prima cercato di evitare ''il moralismo ipocrita, visto che la nostra condotta non è priva di macchie?'', si assicurava Cyrus Vance nei suoi consigli a Kennedy. Naturalmente, non è solo questione di Freud e introspezione: ''mi auguro che i miei colleghi comincino a studiare la storia, le religioni e la società islamica: è pericoloso, se gli psicoanalisti diventano orientalisti'', denuncia uno psichiatra palestinese a proposito del terrorismo suicida, e delle analisi che trincerano l'occupazione israeliana dietro il corano.

Ma se è certo una rivoluzione della libertà - che si svincola dai confini nazionali, e si fa ora libertà nello stato ma anche dallo stato, se necessario - quella dei diritti umani è per Cassese anche e soprattutto una rivoluzione della responsabilità. Una rivoluzione ''degli uomini che non si voltano'', per riprendere Eugenio Montale. Ma non solo gli eroi: perché ''per tutelare i diritti umani non servono solo le Nazioni Unite, ma prima ancora gli uomini uniti'' - e niente riassume meglio Cassese, in fondo, della fotografia che apre il suo sito: nessuna toga di giudice, nessun podio di oratore, solo un sorriso largo in bicicletta da una strada dell'Aja. Perché il male moderno è la pennellata icastica con cui Mangakis, negli anni della dittatura greca, descrive il suo carceriere, che intravede dallo spioncino della cella: ''un occhio solo, senza volto'': un male caratterizzato dall'organizzazione e divisione del lavoro, e dal progressivo diluirsi allora, dal dissolversi della responsabilità, in una atomizzazione dell'atto umano in cui il singolo non percepisce più le conseguenze complessive dell'azione a cui contribuisce. Bellissime le pagine su un esperimento statunitense sull'autorità, con i partecipanti che accettano di infliggere scosse elettriche a un uomo non perché abbiano qualcosa contro la vittima, ma semplicemente per senso, riflesso di obbedienza: ed è il momento allora di opporsi a questa moralità perversa che riempie e fuorvia le parole lealtà, dovere disciplina, a qualsiasi livello - siamo tutti sovrani, richiamava Lorenzo Milani: ''l'obbedienza non è una virtù, ma la più subdola delle tentazioni''.
Quello che accade, osservava Gramsci, non accade solo perché alcuni vogliono che accada, ma soprattutto perché altri, la maggioranza, lasciano che accada: ''nel posto da cui arrivo la società era formata da tre semplici categorie'', sintetizza con gelida lucidità Elie Wiesel, ''gli assassini, le vittime, e quelli che stavano a guardare''.
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lunedì, maggio 11, 2009

Polemiche in Italia sulla "politica del respingimento"

"Ci auguriamo che l'Italia e il ministro Maroni non portino avanti la politica dei respingimenti degli immigrati". Così il commissario ai diritti umani del Consiglio d'Europa, Thomas Hammarberg, dopo l’ultimo rimpatrio in Libia, ieri, di 240 migranti.

RadioVaticana - Il segretario generale della Cei, mons. Mariano Crociata, parlando d’integrazione ha ribadito che in Italia già esiste la dimensione multietnica e che si tratta di un valore: occorre inserirlo nel rispetto della legalità. Per il presidente della Camera Fini “respingere l'immigrato clandestino non viola il diritto internazionale, ma è necessario - precisa - sviluppare un'azione globale per lo sviluppo e il miglioramento delle condizioni di vita di tanti Paesi” in difficoltà.

Massimiliano Menichetti ha intervistato Berardino Guarino responsabile progetti del Centro Astalli.

R. – Questi respingimenti, come ha anche affermato autorevolmente l’Onu, sono assolutamente illegali. Secondo le norme internazionali, queste persone andrebbero accolte. Se c’è una nave italiana che fa un soccorso, la nave italiana le deve portare nel porto più vicino dove sia possibile fare la domanda d’asilo. Riportare queste persone in Libia vuol dire praticamente rimetterle in una situazione di grandi privazioni, spesso anche di violenze personali.

D. – Il segretario generale della Cei, mons. Crociata, ha ribadito che la costruzione di una società interculturale dev’essere inserita in un rigoroso rispetto della legalità…

R. – Questo discorso dell’integrazione andrebbe ragionato di più. Queste politiche andrebbero costruite insieme. Per esempio, c’è il discorso della cittadinanza per quelli che sono nati in Italia, c’è il discorso delle politiche di integrazione e dei ricongiungimenti familiari, c’è il discorso anche di valorizzare maggiormente, in qualche modo, tutta la parte di professionalità che queste persone portano con sé, che invece spesso devono ricominciare dalla terza media … Insomma, ci sono tutti quegli elementi, alla base di una qualunque politica di integrazione che è stata fatta negli altri Paesi europei, su cui purtroppo in Italia siamo ancora molto indietro.

D. – Dunque, l’intercultura è un valore?

R. – Ma certamente! Avere circa cinque milioni di immigrati – ci avviamo verso cifre sempre più alte – e avere un ritmo di crescita di 600 mila persone l’anno è un dato di fatto che non può essere discusso. C’è un milione di irregolari … quindi, se queste persone sono in Italia, l’unica politica vera di sicurezza è integrarle. Far finta che non ci siano o chiuderle nei ghetti è l’unico vero modo per costringerli, spesso, a delinquere. Perché il tasso di reati di coloro che sono regolari in Italia è assolutamente nella norma, addirittura inferiore a quello degli italiani!

D. – Negli ultimi giorni, sono stati respinti 500 "clandestini". La parola "clandestini" fa paura…

R. – Tra quelle persone – come è stato autorevolmente ricordato in questi giorni – ci sono migranti che scappano da situazioni economiche molto difficili: chi scappa dalla fame ha anche diritto a vivere, quindi in qualche modo la comunità internazionale il problema se lo deve porre. Ma soprattutto, ci sono persone che scappano da guerre e da violenze e spesso anche personali. Di fronte a queste, non c’è che un unico obbligo, che è quello di accoglierli. Tra l’altro, parliamo di numeri ridotti, 30 – 40 mila persone l’anno, che certamente non possono far paura ad un Paese occidentale evoluto qual è l’Italia. Ricordiamoci che in questi giorni, dal Pakistan si sta muovendo un milione di persone che andrà nei Paesi poveri vicini. E comunque questi Paesi le accoglieranno. Quindi, spesso il carico delle persone che sono in difficoltà se lo prendono più i Paesi poveri che i Paesi industriali, evoluti, occidentali.
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lunedì, maggio 11, 2009

Mai più crimini come la Shoah

Benedetto XVI in Israele: vengo per pregare per la pace in Terra Santa e in tutto il mondo

RadioVaticana - Una preghiera accorata per la pace in Terra Santa e nel mondo, la durissima condanna della Shoah e una vera e propria supplica per il raggiungimento di una soluzione giusta al conflitto israelo-palestinese: così Benedetto XVI si è presentato in Israele durante la cerimonia di benvenuto all’aeroporto internazionale di Ben Gurion a Tel Aviv. Il Papa è stato accolto dal presidente israeliano Shimon Peres e dal premier Benjamin Netanyahu.

“Vengo per pregare nei luoghi santi, a pregare in modo speciale per la pace – pace qui nella Terra Santa e pace in tutto il mondo”. Nel suo primo discorso in Israele, Benedetto XVI ha voluto ribadire lo scopo del suo pellegrinaggio e non ha mancato di lanciare un accorato appello per rilanciare il negoziato di pace tra israeliani e palestinesi: “In unione con tutti gli uomini di buona volontà, supplico – ha detto il Papa – quanti sono investiti di responsabilità, ad esplorare ogni possibile via per la ricerca di una soluzione giusta alle enormi difficoltà, così che ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti”.

In questo momento in cui il processo di pace nella regione si sta sgretolando tra rivendicazioni ed estremismi, Benedetto XVI ha detto di sperare e pregare affinché “si possa presto creare un clima di maggiore fiducia, che renda capaci le parti di compiere progressi reali lungo la strada verso la pace e la stabilità”.

Parlando al presidente Peres il Papa non ha mancato di annunciare che in questa visita onorerà la memoria dei sei milioni di Ebrei vittime della Shoah e pregherà “affinché l’umanità non abbia mai più ad essere testimone di un crimine di simile enormità”. Inoltre ha condannato con forza il risorgere dell’antisemitismo che va combattuto dovunque si trovi, promuovendo il rispetto e la stima verso gli appartenenti ad ogni popolo, razza, lingua e nazione in tutto il mondo. Riferendosi alla città di Gerusalemme, il Papa ha espresso la speranza che in questa Città Santa “tutti i pellegrini ai luoghi santi delle tre grandi religioni monoteiste, abbiamo la possibilità di accedervi liberamente e senza restrizioni per prendere parte a cerimonie religiose”. Accesso che spesso le autorità israeliane limitano per motivi di sicurezza.

Infine un pensiero alla piccola Chiesa locale che è una minoranza e che è chiamata attraverso la testimonianza a Colui che predicò il perdono e la riconciliazione, a difendere la sacralità della vita ed a recare un “particolare contributo perché terminino le ostilità che per tanto tempo hanno afflitto questa terra": “Prego che la vostra continua presenza in Israele e nei Territori Palestinesi – ha concluso Benedetto XVI - porti molto frutto nel promuovere la pace ed il rispetto reciproco fra tutte le genti che vivono nelle terre della Bibbia”.

Ad accogliere il Papa in Israele, oltre al presidente Peres e al premier Netanyahu, anche tutti i presuli di Terra Santa. Il presidente Peres nel suo discorso ha parlato di “importante missione di pace” del Papa, ha incoraggiato il dialogo ebraico-cristiano, ha sottolineato la convivenza in Israele di diversi popoli che pregano lo stesso Dio ed ha annunciato che dopo la pace con Egitto e Giordania, Israele è impegnata in negoziati di pace con i palestinesi. I giornali scrivono che Benedetto XVI viene in Israele per una visita storica come uomo di pace. Il “Jerusalem Post” parla di visita “epocale” e da più parti si sottolinea che il caso Williamson è superato. Singolare un titolo sul quotiano “Haaretz” che parla di “Mission possible”, missione possibile, la missione di pace che fa da sfondo a questo pellegrinaggio papale.
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domenica, maggio 10, 2009

Identità sacerdotale e celibato: tra oriente e occidente

di Carlo Mafera

Philip Goyret professore straordinario di ecclesiologia alla Pontificia Università della Santa Croce e vice decano della stessa, ha tenuto una lezione – conferenza venerdì 8 maggio sul tema: identità sacerdotale e celibato fra oriente e occidente nell’ambito degli incontri del terzo corso di aggiornamento per giornalisti. Egli ha esordito dicendo che in oriente c’è il presbiterato uxorato mentre in occidente, nella chiesa latina, non esiste questa possibilità.Evidentemente “c’è qualcosa che non funziona” ha detto sorridendo il prof. Goyret, cioè a dire bisogna andare in profondità e comprendere le origini storiche e teologiche del celibato. Infatti fino al Concilio di Trento non vi era l’obbligo ad essere celibi anche se c’era una relazione di convenienza tra il celibato e il sacerdozio e i presbiteri venivano “reclutati” tra le persone mature e di provata fede anche tra gli sposati. Si ricorda che non esistevano i seminari che vennero istituiti proprio con il Concilio di Trento per rendere più preparati coloro che si apprestavano a svolgere un ruolo così delicato per la salvezza delle anime. Nello stesso tempo lo stesso Concilio nel canone 9 stabilì definitivamente l’obbligo del celibato per i sacerdoti. “Se qualcuno dirà che i chierici costituiti negli ordini sacri possono contrarre matrimonio e che una volta contratto, esso è valido (…) sia anatema”. Tale proibizione venne ribadita nel Concilio Vaticano II nel decreto “Presbiterorum ordinis” n.16.” Il celibato, comunque,- recita il decreto - ha molteplici rapporti di convenienza con il sacerdozio. Per questi motivi fondati sul mistero di Cristo e della sua missione, il celibato, che prima veniva raccomandato ai sacerdoti, in seguito è stato imposto per legge nella chiesa latina a tutti coloro che si avviano a ricevere l’ordine sacro. Questo sacrosanto sinodo torna ad approvare e confermare tale legislazione per quanto riguarda coloro che sono destinati al presbiterato.” Nel codice di diritto canonico (al numero 277) viene ribadito che “i chierici sono tenuti all’obbligo di osservare la continenza perfetta e perpetua per il regno dei cieli perciò sono vincolati al celibato che è un dono particolare di Dio mediante il quale i ministri sacri possono aderire più facilmente a Cristo con cuore indiviso e sono messi in grado di dedicarsi più liberamente al servizio di Dio e degli uomini.” Ciò che il rev. Prof. Philip Goyret ha messo in evidenza è che l’origine di questo celibato sta nell’identità sacerdotale che si richiama direttamente a Cristo e in particolare al Cristo sacerdote e vittima. Concetti questi che coincidono in quanto, nel sacramento dell’Ordine c’è insito il sacrificio di Cristo che si autodona in modo totale, esclusivo e per sempre. La stessa dignità ha il sacramento del matrimonio cristiano dove esistono le stesse caratteristiche di auto donazione esclusiva e totale dei coniugi l’uno per l’altro. Tanto questo è vero che la Chiesa ha riscoperto la santità anche tra gli sposati che realizzano questi valori (purtroppo da molti disattesi). “Il celibato sacerdotale – ha detto il prof. Goyret -si richiama invece al rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Vi è presente quindi quell’elemento escatologico che il presbitero deve testimoniare con la sua vita di come saranno le cose dopo perché nell’al di là non ci saranno più uomini e donne che si sposano”. Il professore di ecclesiologia ha messo in evidenza che le origini teologiche del celibato risalgono direttamente ai brani della Sacra Scrittura e in particolare al Santo Vangelo (Mt 19-12) “Vi sono infatti eunuchi che sono nati così dal ventre della madre ; ve ne sono alcuni che sono stati resi eunuchi dagli uomini, e vi sono altri che si sono fatti eunuchi per il regno dei cieli. Chi può capire capisca.” Nelle ultime sue battute il prof. Goyret, ha sottolineato l’importanza e la sacralità del celibato anche per la Chiesa d’oriente dove il Vescovo deve essere necessariamente celibe e dove, una volta ordinato il sacerdote non può più sposarsi. D’altra parte pur potendosi sposare prima di essere ordinati “il celibato dei presbiteri –recita così il Catechismo della Chiesa Cattolica – è in grande onore nelle Chiese Orientali, e numerosi sono i presbiteri che l’hanno scelto liberamente per il Regno di Dio.

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