domenica, maggio 10, 2009
Il racconto del Sud che resiste nel libro di Pasquale Iorio
Liberainformazione - Si è tenuta ieri nella sede di Fondimpresa la presentazione del libro il Sud che resiste di Pasquale Iorio. Gli interventi della prof.ssa Vittoria Gallina, di Antonio Messia di Fondimpresa, di Alfredo Loso dell’obr campania e di Salvatore Vecchio di Libera hanno animato il dibattito su un libro che si colloca in maniera diversa nel filone della saggistica su Sud e mafie. Le pubblicazioni che recentemente hanno raccontato il mezzogiorno, infatti, hanno fatto luce su realtà sottovalutate, dimenticate, fornendo al resto d’Italia un quadro degli intrighi mafiosi e dando la misura del giro d’affari che coinvolge anche il nord del Paese e l’Europa. Ma quello che questi libri spesso dimenticano di raccontare è che il Sud ha anche un’altra faccia, esiste un’umanità che rappresenta una speranza anche per tutti gli altri, una popolazione attiva e resistente. Pasquale Iorio ha il merito di aver incentrato interamente il suo racconto su queste persone e sulle loro esperienze di resistenza civile e cittadinanza attiva. A partire della storie di alcuni giornalisti coraggiosi come Rosaria Capacchione, Sergio Nazzaro, Gigi di Fiore, il Sud che resiste ci introduce in una realtà fatta di associazioni e movimenti giovanili, di cooperative sociali e di una Chiesa portatrice di un messaggio di pace, ma anche di impegno civile. Iorio diventa così testimone appassionato di vite vissute in nome di una fede sociale in una realtà in cui diventano normali cose che non lo sono e dove il sistema si adatta alle distorsioni. Con l’occhio attento di chi vive in certi territori riporta dei modelli per ricordare soprattutto ai giovani che è possibile vivere in modo diverso. Il libro sottolinea anche come la formazione sia lo strumento principale per la diffusione della cultura della legalità, raccontando dell’iniziativa scuole aperte. Ma in questo caso bisogna puntare non solo sull’educazione dei giovani, anche su quella degli adulti, portando la formazione sui luoghi di lavoro. Un tema che sta molto a cuore all’autore, essendo stato per molti anni nella CGIL Campania responsabile della formazione continua. Rendere consapevoli gli adulti e metterli di fronte alla proprie responsabilità individuali perché diventino un esempio. E Iorio ha voluto ribadire nel suo racconto che questi esempi esistono ed è giusto legittimare il loro lavoro silenzioso. Lo scopo è quello di fare memoria, far si che queste cose vengano raccontate, ripetute e ricordate. Perché come scrive don Luigi Ciotti nella postfazione “… La memoria non è solo omaggio alle vittime, attenzione agli insegnamenti del passato, ma una vera e propria strategia di lotta, un dovere sociale e istituzionale.”
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domenica, maggio 10, 2009
Intervista a Salvo Vitale, amico e compagno di Peppino Impastato, militante di democrazia proletaria, ucciso dalla mafia il 9 maggio 1978
Liberainformazione - Trentuno anni dopo, da Corleone a Cinisi, corre sull'asse della memoria e dell'impegno il ricordo di Peppino Impastato, militante di democrazia proletaria e animatore di Radio Aut, ucciso il 9 maggio del 1978 da Cosa nostra. Salvo Vitale, amico e compagno di Peppino, lo ricorda ai microfoni dei ragazzi di Corleone Dialogos e parla di informazione mafia e di un pezzo di storia che cambiò per sempre le loro vite. Sulla situazione del Paese oggi, fra mafie e informazione, commenta: rispetto agli anni '70 si parla di più di mafia. Ma non vuol dire che si possa fare. Questa legge sulle intercettazioni riporterebbe li, a quello che Peppino raccontava quando non si poteva.
Quali erano le motivazioni e le finalità che vi portarono a fondare Radio Aut?
Siamo intorno al '77 - cioè in un momento in cui le radio libere in Italia nascono come funghi, a seguito di una sentenza di un pretore di Milano che aveva liberalizzato l'etere. Tra le 7000 radio nate allora, ce n'erano circa 500-600 che erano radio un po' più politicizzate - le chiamavano a suo tempo "rai emittenti democratiche". Radio Aut appartiene a questo gruppo. Nacque perché a Palermo nel 77 c'era una di queste radio fatta un pò da questi fricchettoni, creativi, movimentisti etc…, abbastanza spoliticizzati, questa radio Apace, forse perché non si era saputa dare un minimo di organizzazione, aveva chiuso e si era fusa con Radio Sud, un'altra di queste emittenti palermitane politicizzate. C'era disponibile questo trasmettitore; quando Peppino lo seppe, disse "lo voglio", andammo ad acquistarlo a pochissimi soldi e così Peppino diede corpo alla sua idea di fare una radio, che era una cosa che lo accompagnava addirittura dai tempi in cui nel 1970 Danilo Dolci aveva creato a Partitico la Radio dei Poveri Cristi. Allora era assolutamente proibito trasmettere. Danilo era riuscito a procurarsi un trasmettitore, a fare una trasmissione una registrazione che ancora esiste dei poveri cristi, dei terremotati del Belice e del dramma che questi vivevano perché dopo un anno dal terremoto non era neanche stata alzata una pietra. Questo Sos durò 28 ore, poi alla fine i carabinieri fecero irruzione, fermarono questo esperimento denunciando il responsabile.
Il modello di creare una radio di resisteza c'era da un pò...
Si. L'intenzione era quella di fare informazione in maniera un po' più efficace di quanto non fosse l'informazione di Stato. Quindi spulciare un pò di giornali, cercare tutta una serie di notizie occultate o messe all'ultima pagina, ma che riguardavano fatti di movimento (per esempio scorrerie fasciste, assalti a ragazzi magari colpevoli di essere solo capelloni, oppure esempi di mala sanità, di disoccupazione, leggi liberticide.. ); occuparci di tutta quella serie di persone messe ai margini dal potere, compresi i lavoratori, i contadini di Punta Raisi che andavamo ad intervistare, i pescatori di Terrasini dove, dopo una breve indagine, non ci volle molto a capire che facevano tutti parte di un sistema paramafioso e ne erano tutti vittime. Quindi una radio come movimento, a suo tempo nella nostra testata c'era :“Giornale di controinformazione” - informazione al contrario dell'informazione dello Stato. Oggi i termini li potremmo invertire, dicendo che la controinformazione è proprio la disinformazione di Stato che abitualmente viene fatta dalle emittenti che sono quasi interamente controllate da sua Emittenza. La radio, secondo un documento che a suo tempo Peppino scrisse, doveva avere questa funzione, potremmo dire, pedagogica - cioè creare coscienza rivoluzionaria e liberare masse che sapessero riflettere, ribellarsi e soprattutto organizzarsi; nello stesso tempo informare soprattutto imparare a non agire soli, cioè ad avere uno strumento di politica.
Qual era il clima a Cinisi e in Italia alla fine degli anni 70?
C'era un clima estremamente combattivo che si era creato negli anni '60, soprattutto nel 68, allorché erano state espropriate ai contadini le loro terre per costruire la pista trasversale a Punta Raisi. Quelle battaglie videro un po' il battesimo politico di Peppino. Io appartenevo a quelli che avevano un terreno in queste zone. La battaglia dei contadini di allora era "dateci i soldi così possiamo andare a comprare un altro pezzo di terra per continuare a lavorare e a fare il nostro mestiere". Invece i soldi li ebbero dopo 4-5 anni. Una mattina vedemmo arrivare 800 carabinieri, cani poliziotto, elicotteri, in assetto di guerra, riuscimmo a resistere per tre giorni, ma alla fine abbiamo dovuto arrenderci; ricordo ancora molte di queste persone che piangevano perché dovevano buttare a terra la loro stanza da letto, la cucina dove vivano; invece si fece questa pista, un aeroporto nato sbagliato, sempre controllato dalla mafia e dove sono caduti due aerei, con circa 350 morti. Un aeroporto non si fa in queste condizioni. Questo è il primo momento di lotte politiche. A Cinisi il nostro gruppo lo chiamavano i mao mao, perchè eravamo un po' tutti d'ispirazione maoista.[...]. Però mentre il modello di riferimento del Partito Comunista era Mosca, per noi prima del PSIUP, poi ritenuti extraparlamentari di sinistra, era Pechino, cioè la Cina di Mao Tze Tung e la sua complessa esperienza di rivoluzione culturale[...]. Quindi - diciamo così - c'era questa carica di assoluta ribellione, per non dire polemica, nei confronti del partito Comunista [...] c'era questo gruppo che Peppino era riuscito a creare, che comprendeva una cinquantina di giovani. Poi c'era al solito l'apparato di potere della Democrazia Cristiana. A Cinisi successero addirittura della cose un po' strane, ad esempio, intanto nel 68 era spuntato un partito social-democratico, che non era mai esistito prima, grazie all'iniziativa di un politico locale il professor Pandolfo, che diventerà anche deputato nazionale e che allora divenne sindaco di Cinisi raccogliendo 7 consiglieri, cioè avere 7 consiglieri, mentre prima non esisteva, era una cosa strepitosa, però pare che dietro questo partito si fossero schierati tutti i mafiosi di Cinisi, che non votavano più Democrazia Cristiana. Invece un'altra novità si ebbe negli anni '70 quando Peppino denunciò le prime esperienze di compromesso storico tra il partito Comunista e la Democrazia Cristiana. C'era un vicesindaco comunista e un sindaco democristiano. Anche qua, questa cosa a Peppino e ai suoi amici parve un tradimento, perché nella nostra analisi Dc = mafia e PC che stava con la DC voleva dire che stava con la mafia.
Cosa ha significato per voi e per le vostre famiglie essere di Radio Aut?
Essere di Radio Aut significava essere rompi scatole, essere guardati con molto sospetto dalla gente. Lo posso raccontare con un episodio. Qualche giorno dopo che uccisero Peppino stavo leggendo un resoconto della Commissione parlamentare d'inchiesta sulla mafia su Salvo Lima, e dicevo che questo era stato citato nella relazione 2500 volte ed era uno dei principali indiziati della connessione mafia politica. Quanto ritornai a casa, mia madre mi aspettava davanti la porta e mi disse: quando ti ammazzeranno mi vesto di rosso. Avevamo la coscienza di essere delle avanguardie, di fare un gioco anche pericoloso, ma necessario per impostare un modello di società diversa.
Sei pentito di qualcosa in particolare che avete fatto in quegli anni?
Non tanto. Forse mi rimorde solo un po' di avere tirato la corda troppo con Peppino, di averlo - direi quasi - portato ad esporre quella che era la sua naturale aggressività. La radio infatti cominciò ad avere una forma un po' più organizzata e più concreta nell'ottobre del 77, quindi gli ultimi sette mesi cioè quelli in cui abbiamo lavorato braccio a braccio. Ripeto - ogni tanto ho questa sorta di interiore rimorso - di non essere stato forse, visto che avevo cinque anni in più di Peppino, più riflessivo di lui, ma di avere giocato sullo stesso piano.
Se dico Peppino Impastato cosa ti viene in mente?
Come faccio a dirtelo, è un po' una parte di me stesso! Per esempio, andavo alla radio con mia figlia Carol, che allora aveva tre anni. Carol appena vedeva Peppino lo prendeva per mano e gli diceva usciamo; lo portava a passeggiare e lo sbancava, perché si faceva comprare caramelle, gelati, giocattoli, etc… . Peppino aveva trecento lire in tasca, pochissimo. Arrivava alla radio e mi diceva mi dai una sigaretta, allora capivo cosa era accaduto e gli davo tutto il pacchetto. In quel gesto c'era parte della sensibilità di questa persona che non pensava a comprarsi il pacchetto di sigarette ma a fare felice mia figlia.
Perché Peppino Impastato fu ammazzato?
Ti posso dire, come diciamo in siciliano “U rispetto è misuratu, cu lu porta, l'avi purtatu”e mancare di rispetto era come un delitto di lesa maestà. In fondo abbiamo fatto questo, li abbiamo ridicolizzati di fronte a tutto il paese e quindi questi che si sentono persone di rispetto hanno reagito con il delitto.
Qual è la differenza fra fare informazione sulla mafia oggi e negli anni '70?
Rispetto agli anni 70, diciamo che c'è un po' di libertà in più, nel senso che possiamo permetterci - usando notizie giornalistiche - di parlarne un po' di più. Parlarne di più non è che significa necessariamente che si può fare. Una volta mesi dopo che uscì il mio libro su Peppino, mi incontrò il figlio di Cesare Manzella, il noto capomafia di Cinisi che comunque era molrto dal 63, e mi disse “Ma a lei cu ciu rissi, chi me patri trafficava in droga?”. Allora io gli ho detto, non me lo ha detto nessuno, ho riportato solo delle sentenze e degli articoli di giornali. Mi rispose, “Ma sapi com'è, na sentenza la legge il giudice e se la scordano tutti, un articolo di giornale compare un giorno e non ci pensa più nessuno, se lei lo scrive in un libro questa cosa resta e diventa conoscenza di tutti”. Non dimenticare che l'Italia è al trentacinquesimo posto per la libertà di stampa nel mondo più o meno dopo la Nigeria. L' informazione è assolutamente controllata e passano solo una serie di cose. Attualmente con la legge che vogliono fare per bloccare le intercettazioni telefoniche passeranno ancora meno cose per cui siamo sempre là, ad uno dei motivi che portarono Peppino di cercare di fare conoscere una serie di cose che abitualmente non si conoscono. Non mi illudo che la quantità delle informazioni sostituisca la qualità, ma è un'informazione censurata in partenza.
Quale è la differenza tra la mafia di allora e quella di oggi?
Non è che ci sia grande differenza, tutte le carognate che la mafia faceva negli anni 70 le continua a fare. Ci sono delle fasi in cui un gruppo vuol diventare egemone su un'altro allora scoppiano le guerre di mafia. Ci sono altre fasi in cui la strategia diventa “calati iuncu chi passa la china”, che è la strategia di Bernardo Provenzano di associarsi con le istituzioni. Sono delle fasi che ci sono sempre state. Oggi forse siamo andati qualche passo avanti mentre prima i mafiosi gestivano la politica in maniera sotterranea oggi molti sono entrati direttamente in politica. Il più noto è Totò Cuffaro che ha festeggiato la condanna con i cannoli ed è stato rieletto senatore.
* Corleone Dialogos
Ascolta l'audio integrale dell'intervista su Yesradio
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domenica, maggio 10, 2009
Una cultura che non coinvolge solamente i familiari ma tutto il sistema
Radio Vaticana - “Un donatore moltiplica la vita”: è il messaggio che ha contraddistinto la XII edizione delle Giornate nazionali per la donazione e trapianto di organi e tessuti. L’iniziativa si conclude oggi dopo una settimana ricca di eventi in tutta Italia, che hanno visto le associazioni di settore impegnate in una campagna di sensibilizzazione. Per una riflessione sulla cultura della donazione in Italia, Eliana Astorri ha intervistato il prof. Salvatore Agnes, direttore dell’unità operativa di chirurgia sostitutiva e responsabile del Centro trapianti di fegato del Policlinico Gemelli (ascolta):
R. – La cultura della donazione in Italia, per fortuna, è già molto affermata. Il numero di trapianti degli ultimi anni è cresciuto sino a portare l’Italia ai vertici, tra le nazioni europee, per il numero di donazioni e di trapianti. Sono lontani gli anni nei quali c’erano i viaggi della speranza dei pazienti che dovevano andare all’estero per una vera carenza di possibilità di trapianto, dovuta fondamentalmente al fatto che c’erano pochi organi che si donavano. Oggi, effettivamente, la situazione è diversa. Si può, naturalmente, fare di più, ed è per questo che questa sensibilizzazione è sempre un fatto positivo.
D. – Le donazioni sono in aumento, ma perché c’è ancora una certa resistenza ad esprimere questa volontà?
R. – Vi è un luogo comune che il problema delle donazioni sia il mancato consenso alla donazione stessa. Questo sicuramente è un problema, ed è un problema che naturalmente può essere più o meno diffuso nel territorio nazionale, ma che comunque ha una certa fisiologicità. Per quanto possano essere diffusi i sentimenti positivi in questo senso, una percentuale – per motivi vari – di contrarietà alla donazione ci può sempre essere. Naturalmente, anche su questo si può agire. Il problema però non è che il processo di donazione sia problematico solamente per questa percentuale di non consenso, che poi è l’evento finale di un processo molto più complesso... In realtà, la donazione è un processo prima di tutto medico, perché è identificazione dei possibili donatori nei grandi ospedali – soprattutto nelle grandi rianimazioni -, cioè di pazienti che decedono – nonostante, ovviamente, le cure – per una patologia primitiva del cervello. Questi sono i donatori potenziali, e questo processo che comincia appunto nei grandi ospedali, nelle grandi rianimazioni, è un processo complesso, perché bisogna accertare la morte di questi soggetti, bisogna instaurare quindi delle procedure abbastanza complesse ed anche, in qualche modo, onerose, bisogna mantenere vitali gli organi di questi individui – che sono morti – e poi, alla fine del processo, c’è anche la richiesta di consenso. Tutto il processo è complesso ed oneroso per una struttura sanitaria. Per tale ragione, anche la cultura della donazione si deve affermare di più sul territorio. Una cultura che non coinvolge solamente i familiari, che devono richiedere il consenso, ma è tutto il sistema – i medici, gli operatori sanitari – che devono essere sensibilizzati ad attivare sempre, quando possibile, tutte queste procedure per aumentare le possibilità di donazione. (Montaggio a cura di Maria Brigini)
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domenica, maggio 10, 2009
Tra le vittime 106 bambini. Oltre mille feriti. Il governo nega di aver bombardato la zona
PeaceReporter - I bombardamenti condotti nelle ultime 24 ore dall'aviazione e dall'artiglieria governative sulla 'Safe Zone' a nord di Mullaitivu avrebbero causato una strage di civili tamil senza precedenti. Lo riferisce il dottor Shanmugarajah, ex responsabile medico governativo del distretto di Mullaitivu, rimasto ad assistere i 50 mila sfollati tamil intrappolati dall'avanzata dell'esercito nel territorio in mano ai ribelli dell'Ltte.
Da ieri sera, 378 cadaveri e 1.122 feriti sarebbero arrivati nell'ospedale da campo di Mullivaykkaal, l'unico attivo nella 'Safe Zone'. Il dato si riferisce alle 15 di oggi, ma sembra che ci siano altre centinaia di vittime. Le vittime sono in maggioranza anziani, donne e soprattutto bambini: tra i cadaveri, 106 sono di bambini; tra i feriti ce ne sono 251.
Se questi numeri venissero confermati, si tratterebbe di una delle peggiori stragi di civili mai compiute da un esercito governativo.
Il governo di Colombo ha negato che nelle ultime 24 ore vi siano stati bombardamenti aerei e d'artiglieria sul territorio ribelle: una striscia di costa lunga 4 chilometri e profonda poco più di un chilometro.
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domenica, maggio 10, 2009
Nella messa celebrata ad Amman, Benedetto XVI sottolinea "il carisma profetico" delle donne. Alla cerimonia gruppi venuti anche da Libano e Palestina. E profughi iracheni, compresi 40 bambini: alcuni hanno ricevuto dal Papa la loro prima comunione.
Amman (AsiaNews) – Gesù vi dia “il suo coraggio”: è l’augurio e al tempo stesso il mandato che Benedetto XVI ha affidato oggi ai 20mila cattolici che hanno riempito l’International Stadium di Amman, per una messa che ha dato occasione al Papa di sottolineare "il carisma profetico" delle donne, specialmente in questa regione. E’ l’unica messa pubblica che il Papa celebra nella visita a questo Paese. La Giordania – che oggi ha concesso un giorno di festa ai cristiani - è in certo modo un’isola felice per i cristiani, che sono poco più di 100mila, il 2% della popolazione, ma sono liberi di professare la loro fede, costruire chiese e scuole e, ora, anche una università. Tutt’intorno, la situazione è ben diversa: si va dall’occhiuto controllo siriano alle violenze irachene. E ci sono 70mila cristiani tra i quasi 700mila profughi rifugiatisi qui dall’Iraq. Ce ne sono anche alla messa papale, chiamano il Papa a gran voce. E sono iracheni 40 dei 200 bambini che oggi fanno la prima comunione, alcuni la ricevono da Benedetto XVI.
Sono venuto, dice il Papa ai presenti, per “incoraggiarvi a perseverare nella fede, speranza e carità, in fedeltà alle antiche tradizioni e alla singolare storia di testimonianza cristiana che vi ricollega all'età degli Apostoli. La comunità cattolica di qui - aggiunge - è profondamente toccata dalle difficoltà e incertezze che riguardano tutti gli abitanti del Medio Oriente; non dimenticate mai la grande dignità che deriva dalla vostra eredità cristiana”. Già sull’aereo che lo portava qui, parlando con i giornalisti, Benedetto XVI aveva detto che la sua visita voleva servire a d aiutare i cristiani della regione “a trovare il coraggio, l’umiltà e la pazienza di restare in questi Paesi e offrire il loro contributo per il futuro”.
“Che il coraggio di Cristo nostro pastore - aggiunge oggi - vi ispiri e vi sostenga quotidianamente nei vostri sforzi di dare testimonianza della fede cristiana e di mantenere la presenza della Chiesa nel cambiamento del tessuto sociale di queste antiche terre. La fedeltà alle vostre radici cristiane, la fedeltà alla missione della Chiesa in Terra Santa, vi chiedono un particolare tipo di coraggio: il coraggio della convinzione nata da una fede personale, non semplicemente da una convenzione sociale o da una tradizione familiare; il coraggio di impegnarvi nel dialogo e di lavorare fianco a fianco con gli altri cristiani nel servizio del Vangelo e nella solidarietà con il povero, lo sfollato e le vittime di profonde tragedie umane; il coraggio di costruire nuovi ponti per rendere possibile un fecondo incontro di persone di diverse religioni e culture e così arricchire il tessuto della società. Ciò significa anche dare testimonianza all'amore che ci ispira a ‘sacrificare’ la nostra vita nel servizio agli altri e così a contrastare modi di pensare che giustificano il ‘stroncare’ vite innocenti”. “Chiediamo alla Madre della Chiesa - ribadisce al Regina Caeli - di volgere lo sguardo misericordioso su tutti i cristiani di queste terre; con l’aiuto delle sue preghiere possano essere veramente una cosa sola nella fede che professano e nella testimonianza che offrono”.
Alla preghiera dei fedeli si chiede “la tanto sospirata pace” in Medio Oriente, in Palestina, in Iraq e in Libano. In un lato dello stadio c’è anche un gruppo di cattolici libanesi, che invitano il Papa ad andarli a trovare. Ci sono anche bandiere palestinesi, qua e là.
Canti e letture anche in arabo e aramaico, intorno al grande altare decorato con le immagini di Gesà, Maria e Giovanni Battista, patrono di questo Paese. La folla è molto attenta e molto partecipe, all’interno dello stadio, lo stesso ove nove anni fa celebrò messa Giovanni Paolo II. Il patriarca latino di Gerusalemme, Fouuad Twal, nel suo saluto loda la “stabilità” offerta dal governo di questo Paese e aggiunge che anche se incontra grandi difficoltà, la Chiesa di queste terre vede crescere le vocazioni.
Per le Chiese di Terra Santa, quello attuale è l’Anno della famiglia. Lo ricorda Benedetto XVI che parla di “forti famiglie cristiane di queste terre” ed esalta il ruolo delle donne nel piano di Dio. “Quanto - dice - la Chiesa in queste terre deve alla testimonianza di fede e di amore di innumerevoli madri cristiane, Suore, maestre ed infermiere, di tutte quelle donne che in diverse maniere hanno dedicato la loro vita a costruire la pace e a promuovere 1'amore! Fin dalle prime pagine della Bibbia, vediamo come uomo e donna creati ad immagine di Dio, sono chiamati a completarsi l'un l'altro come amministratori dei doni di Dio e suoi collaboratori nel comunicare il dono della vita, sia fisica che spirituale, al nostro mondo. Sfortunatamente, questa dignità e missione donate da Dio alle donne non sono state sempre sufficientemente comprese e stimate. La Chiesa, e la società nel suo insieme, sono arrivate a rendersi conto quanto urgentemente abbiamo bisogno di ciò che il mio predecessore Papa Giovanni Paolo II chiamava ‘il carisma profetico’ delle donne come portatrici di amore, maestre di misericordia e costruttrici di pace, comunicatrici di calore ed umanità ad un mondo che troppo spesso giudica il valore della persona con freddi criteri di sfruttamento e profitto. Con la sua pubblica testimonianza di rispetto per le donne e con la sua difesa dell'innata dignità di ogni persona umana, la Chiesa in Terra Santa può dare un importante contributo allo sviluppo di una cultura di vera umanità e alla costruzione della civiltà dell'amore”.
Del “carisma profetico delle donne” Benedetto XVI parla anche al Regina Caeli. “L’esempio supremo delle virtù femminili - dice - è la Beata Vergine Maria: la Madre della Misericordia e Regina della pace. Mentre ora ci riolgiamo a lei, invochiamo la sua materna intercessione per tutte le famiglie di queste terre, affinché possano veramente essere scuole di preghiera e scuole di amore”.
La gente applaude, poi comincia a sfollare. Malvolentieri: domani Benedetto XVI partirà, diretto a Gerusalemme.
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domenica, maggio 10, 2009
del nostro collaboratore Carlo Mafera
Maria Luisa Di Pietro, professore associato di Bioetica presso l'Università Cattolica S. Cuore di Roma, presidente nazionale dell’Associazione Scienza&Vita, ha tenuto una lezione presso l’Università della Santa Croce venerdì 17 aprile nell’ambito del corso di aggiornamento di giornalismo su temi di attualità cattoliche. Due sono stati sostanzialmente gli argomenti affrontati dalla dottoressa Di Pietro: il concetto di dignità della persona umana e successivamente l’accanimento terapeutico. La studiosa ha messo in evidenza l’importanza della esatta definizione dei concetti. Infatti “non si può dare significati differenti allo stesso oggetto perché significherebbe condizionare la mente delle persone”. Ha così fatto l’esempio dell’episodio di Alice nel paese delle meraviglie dove viene espresso il concetto della dittatura delle parole. “Quando io mi servo di una parola – rispose Humpty Dumpty in Alice, oltre lo specchio, quella parola significa quello che piace a me né più né meno”. “Il problema è – insisté Alice – se si può dare alle parole significati così differenti. Il problema è – disse Humpty Dumpty – chi è il padrone? A proposito della giusta definizione di dignità della persona la professoressa Di Pietro ha sottolineato non l’accezione di un valore attribuito dall’esterno dove la società stabilisce le condizioni a partire dalle quali la vita umana sia “degna”con tutto quello che ne deriva. Piuttosto ha ribadito che la dignità della persona è un valore intrinseco all’uomo, “è la preziosità che un essere umano ha semplicemente perché è uomo e non per virtù o ceto sociale.” “La dignità – ha continuato la Di Pietro – in tal senso, inerisce all’uomo per natura. La dignità non è quindi un diritto ma il fondamento dei diritti inalienabili dell’essere umano.” Per quanto riguarda il concetto di accanimento terapeutico, la presidente nazionale dell’Associazione scienza & vita, ha sostanzialmente affermato che “tra i criteri che vengono utilizzati per valutare se una terapia è o meno proporzionata, vi sono: il tipo di terapia; la proporzione tra mezzo e fine perseguito; il grado di difficoltà e il rischio; la possibilità di applicazione; le condizioni generali del malato (fisiche, psichiche, morali). Qualora un intervento si configurasse come un accanimento terapeutico è doveroso sospenderlo, mentre si continueranno le cure normali, la palliazione del dolore, l’alimentazione e l’idratazione. Da ciò si evince che non è possibile stabilire una regola valida per tutti i casi clinici, senza conoscere le condizioni del paziente e il suo decorso clinico. Che si tratti o meno di accanimento terapeutico va valutato caso per caso, anche nell’ipotesi in cui i pazienti in esame fossero affetti dalla stessa patologia. Vi è, allora, il timore che un’indicazione generica e non contestualizzata apra la strada a forme non di evitamento dell’accanimento terapeutico bensì di sostegno ad azioni eutanasiche di tipo omissivo”.
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