mercoledì, maggio 03, 2017
515 anni complessivi di carcere. Questa è stata la richiesta della Procura di Roma per gli imputati eccellenti di Mafia Capitale. Una richiesta che sorprende solo se ci si dimentica che si tratta di un processo in cui l’associazione di stampo mafioso è stata contestata a 19 imputati su 46.

Liberainformazione - Sì, perché sebbene questa mafia non sembra corrispondere all’idea classica di mafia che si può avere – anche volendo considerare tutte le evoluzioni e le trasformazioni che la criminalità organizzata sa fare, e ha fatto, per adattarsi ai contesti in cui deve operare – sempre mafia è, o almeno questo è quanto sostiene la Procura fin dall’inizio. Fin da quando, nel dicembre del 2014, Giuseppe Pignatone parlò di una mafia “autoctona, perché è una organizzazione romana e senza collegamenti con le altre organizzazione meridionali classiche ma con le quali ha rapporti paritari, e originale, perché ha caratteri suoi propri, diversi da quelli dalle mafie tradizionali”.

515 anni di carcere in totale, si è detto. La richiesta più dura è quella che riguarda Massimo Carminati, per cui l’accusa ha chiesto 28 anni di carcere. L’ex Nar, in collegamento dal carcere di Parma, ha ascoltato la pubblica accusa senza fare una piega. Ma quando il sostituto procuratore Luca Tescaroli ha chiesto di dichiararlo “delinquente abituale” in virtù dei “sei procedimenti penali con sentenza passata in giudicato per gravi reati” e di condannarlo per questo a due anni di colonia agricola o di casa di lavoro, “er Cecato” ha alzato entrambi i pugni in aria, come per esultare.

Per Salvatore Buzzi, invece, sono stati chiesti 26 anni e 3 mesi di reclusione, 25 anni e dieci mesi sono stati chiesti per Riccardo Brugia, braccio destro di Carminati, e 21 anni per Matteo Calvio, detto “spezzapollici”.

21 anni di reclusione sono stati proposti anche per Franco Panzironi, ex ad di Ama, la municipalizzata capitolina che si occupa dei rifiuti.

Fra i politici alla sbarra, invece, quello che rischia la pena più severa è Luca Gramazio, prima capogruppo del Pdl in Campidoglio durante la consiliatura Alemanno e poi consigliere di Forza Italia in Regione. Per lui, che l’aggiunto Paolo Ielo ha definito “l’ariete” grazie al quale il sodalizio sembra riuscisse a farsi largo negli appalti pubblici, si paventa una condanna a 19 anni e 6 mesi di carcere.

A quasi due anni e mezzo da quel dicembre del 2014, quando gli arresti dei carabinieri del Ros svelavano il “mondo di mezzo” che abitava la Capitale, la Procura di Roma ricorda a chi voleva “Mafia Capitale” una bolla mediatica, un prodotto buono per giornalisti e investigatori, che le cose non stanno proprio così. E lo fa con le parole del sostituto Tescaroli che, prima di formulare le richieste, aveva detto: “Le plurime azioni criminose collettive, che collocano in un quadro associativo la vicenda nel cui ambito ricadono 19 imputati, e i motivi a delinquere che sono riconducibili esclusivamente all’arricchimento economico attraverso il metodo mafioso, devono ritenersi idonei a valutare i fatti commessi come di particolare gravità dagli imputati portatori di una spiccata capacità a delinquere”. E aggiunge: “Le modalità delle condotte, molte delle quali sono collegate al ricorso all’intimidazione ovvero al sistemico ricorso alla corruzione, e la durata nel tempo dell’agire illecito protrattosi per più anni, almeno dal 2011 al novembre 2014, devono ritenersi idonei a valutare i fatti in modo ancora più grave”.

Fa impressione pensare a tutti questi anni di carcere. Fa impressione pensare ai nomi coinvolti, che spesso sono quelli di amministratori locali, di imprenditori e di persone che hanno trasformato l’idea di riscatto per i soggetti più a rischio in una gallina dalle uova d’oro. E pensare agli appalti di Roma Capitale che diventano una “caciotta da spartire” rimanda al contempo all’idea di una politica e di una imprenditoria dal ventre molle, quasi grottesca, e all’idea dello sprezzo della cosa pubblica.

Ma per ora siamo alle richieste e non alle condanne. È ipotizzabile che la difesa farà di tutto per riportare i delitti a una “semplice” corruzione. A Roma, indolente per natura, non resta che aspettare l’estate e il verdetto dei giudici, sperando che stavolta, qualsiasi cosa accada, si svegli dal contrasto di torpore e caos istituzionale che troppo spesso la circonda.


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