Un cast d’eccezione che vanta i nomi più celebri dell’Olimpo hollywodiano, per un film accattivante e demodè: sono queste le carte vincenti di Grand Budapest Hotel
di Francesca Filippi
Pellicola irriverente, dalla trama sconclusionata e sovraffollata da personaggi sui generis, Grand Budapest Hotel firmato Wes Anderson, ha tutte le carte in regola per aggiungersi all’ambitissima lista dei film cult. L’ultima fatica dell’eclettico regista americano rivela un’attenzione scrupolosa nell’estetica di ogni singolo fotogramma, che sembra ispirarsi per la resa cromatica e chiaroscurale delle immagini, alla dimensione pittorica, così come lo studio maniacale e miniaturistico del dettaglio. Tutte le scene sono curate minuziosamente, in maniera quasi ossessiva. Anderson non sembra lasciare niente al caso, plasmando un vero e proprio “quadro in movimento” dal gusto spiccatamente retrò che risulti piacevole a vedersi dall’inizio alla fine.
Con lo stesso rigore perfezionistico, il regista costruisce architettonicamente le inquadrature, cercando di rendere la percezione spaziale a 360°. Più volte, all’interno del film, lo sperimentalismo cinematografico di Anderson ripropone in maniera quasi nostalgica le tecniche delle commedie mute utilizzate negli anni ’20, fra cui le scene accelerate e l’uso ricorrente delle didascalie. Questi appaiono come gli stilemi contraddistintivi di un regista assolutamente sovversivo e controcorrente, che si definisce spesso nelle interviste “very old fashioned”, ossia all’antica. Il malessere di vivere nella contemporaneità si ripercuote nei film di Anderson, riproducendo sulla pellicola riflessioni sul presente sviluppate attraverso il filtro del passato.
Anche Grand Budapest hotel si inserisce nell’elenco di questa categoria di film, meditativi e tutti da ridere al tempo stesso. L’impalcatura freudiana della pellicola (un racconto introspettivo dell’ultimo proprietario del Grand Hotel a un cliente della struttura) lascia spazio alla vivacità delle avventure che si sono affastellate in quest’immaginario angolo di mondo. Si innesca così un gigantesco ed esuberante flashback che ha come fulcro il leggendario Grand Hotel, situato sulla cima di un monte. E' una sorta di torre di Babele che ospita al suo interno qualsiasi tipologia sociale: dal romantico consierge affetto da solitudine e innamorato della poesia, al giovane immigrato in cerca di fortuna in Occidente, proseguendo alle ricche e attempate signore di sangue blu, fino all’inquietante e spietato sicario.
Il film è un amalgama di soggetti diversi che si ritrovano per i motivi più surreali ad interagire e a collidere tra loro, sdrammatizzando l’allure riflessivo con il gusto del grottesco e del nonsense. Il risultato raggiunto da Anderson non può che assomigliare a una miscela esplosiva.
di Francesca Filippi
Pellicola irriverente, dalla trama sconclusionata e sovraffollata da personaggi sui generis, Grand Budapest Hotel firmato Wes Anderson, ha tutte le carte in regola per aggiungersi all’ambitissima lista dei film cult. L’ultima fatica dell’eclettico regista americano rivela un’attenzione scrupolosa nell’estetica di ogni singolo fotogramma, che sembra ispirarsi per la resa cromatica e chiaroscurale delle immagini, alla dimensione pittorica, così come lo studio maniacale e miniaturistico del dettaglio. Tutte le scene sono curate minuziosamente, in maniera quasi ossessiva. Anderson non sembra lasciare niente al caso, plasmando un vero e proprio “quadro in movimento” dal gusto spiccatamente retrò che risulti piacevole a vedersi dall’inizio alla fine.
Con lo stesso rigore perfezionistico, il regista costruisce architettonicamente le inquadrature, cercando di rendere la percezione spaziale a 360°. Più volte, all’interno del film, lo sperimentalismo cinematografico di Anderson ripropone in maniera quasi nostalgica le tecniche delle commedie mute utilizzate negli anni ’20, fra cui le scene accelerate e l’uso ricorrente delle didascalie. Questi appaiono come gli stilemi contraddistintivi di un regista assolutamente sovversivo e controcorrente, che si definisce spesso nelle interviste “very old fashioned”, ossia all’antica. Il malessere di vivere nella contemporaneità si ripercuote nei film di Anderson, riproducendo sulla pellicola riflessioni sul presente sviluppate attraverso il filtro del passato.
Anche Grand Budapest hotel si inserisce nell’elenco di questa categoria di film, meditativi e tutti da ridere al tempo stesso. L’impalcatura freudiana della pellicola (un racconto introspettivo dell’ultimo proprietario del Grand Hotel a un cliente della struttura) lascia spazio alla vivacità delle avventure che si sono affastellate in quest’immaginario angolo di mondo. Si innesca così un gigantesco ed esuberante flashback che ha come fulcro il leggendario Grand Hotel, situato sulla cima di un monte. E' una sorta di torre di Babele che ospita al suo interno qualsiasi tipologia sociale: dal romantico consierge affetto da solitudine e innamorato della poesia, al giovane immigrato in cerca di fortuna in Occidente, proseguendo alle ricche e attempate signore di sangue blu, fino all’inquietante e spietato sicario.
Il film è un amalgama di soggetti diversi che si ritrovano per i motivi più surreali ad interagire e a collidere tra loro, sdrammatizzando l’allure riflessivo con il gusto del grottesco e del nonsense. Il risultato raggiunto da Anderson non può che assomigliare a una miscela esplosiva.
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