martedì, febbraio 04, 2014
Luglio se ne era andato portando con sé i miei 47 anni. Precisamente il giorno sei. Averli compiuti mi dava una strana sensazione di arrivo: solo che non vi era alcuna meta. Arrivato dove, dunque? Qui, da nessuna altra parte che qui. 

di Silvio Foini 

Nel corso degli anni, un pensiero mi si era presentato, spesso e malignamente indicando quell'età come determinante per me. Li avevo raggiunti quei benedetti 47 anni e non era accaduto proprio nulla che potesse darmi pensiero. Adesso eravamo ad agosto ed avevo oltrepassato quel limite, esattamente da un mese e tutto era eguale a prima. Abitavo sempre nel mio piccolo e sconosciuto paese dove non accadeva mai nulla di particolarmente rilevante. Morivano gli anziani e nascevano meno bambini di coloro che imboccavano il viale delle Rimembranze sulla "Mercedes" nera dell'impresa di pompe funebri.
Facevo sempre lo stesso lavoro: il medico, avevo la stessa moglie di vent'anni prima e due figlie. La stessa macchina da sei e la stessa curiosa attrazione verso il mondo del paranormale.
Quest'ultima avrebbe dovuto essere in un contrasto stridente con la mia professione tutta scienza e certezze.
Pochi erano a conoscenza dei miei interessi in quella direzione, solo un paio di amici.
Nelle sere d'inverno ci si trovava davanti ad un camino a parlare di al-di-là, ectoplasmi, spiriti, folletti, premonizioni, apparizioni, reincarnazioni e così via.
Le nostre donne non volevano mai partecipare a quel genere di conversazioni: volevano dormire, la notte, asserivano.
Quello che si dannava l'anima più di tutti era Antonio, farmacista di un paese confinante col mio: era costantemente alla ricerca di "Prove" come diceva lui. Raccoglieva notizie fra i suoi clienti intorno a fatti fuor del comune accaduti loro personalmente o a parenti oppure a conoscenti o ad amici. Debbo dire che in 15 anni aveva raccolto una casistica notevole ed aveva un librone dove teneva registrati, con nomi e date, fatti che avevano avuto a che vedere con presunte morti, tunnel più o meno luminosi entro cui, alcuni asserivano essersi involati, giunti al limitare estremo della vita a causa di terribili incidenti o gravissime malattie e da cui, inspiegabilmente poi, erano stati rispediti nuovamente nei rispettivi corpi abbandonati temporaneamente o sull'asfalto di una strada o su un letto. Io cercavo sempre di smontare, pezzo per pezzo, le argomentazioni di Antonio, appigliandomi alla scienza e quando non trovavo, in essa, riscontri o obbiezioni, al caso: "Vedrai che fra qualche anno - sostenevo con sicurezza - si troveranno spiegazioni scientifiche anche per queste cose. Non è forse sempre stato così? Ciò che era misterioso ieri, oggi non lo è più!"

C'era poi Enzo, siciliano, ingegnere elettronico dirigente di una nota ditta che progettava computer "dell'ultima generazione" come diceva lui. Combattuto a volte fra la cultura pregna di superstizione in cui era cresciuto nei sobborghi di Palermo e gli studi altamente tecnici che aveva compiuti a Milano, scuoteva la testa ricciuta che incominciava ad incanutire e concludeva nel suo dialetto "... e chi minchia ne capisce....!"
Da parte mia, anelavo che qualcuno mi potesse fornire la chiave di volta per aprire le stanze del mistero della vita e di ciò che c'era, se poi c'era, oltre ad essa. A mia volta, da ben due dei miei pazienti avevo udito raccontare esperienze, a dir poco, curiose.
Da uno, in particolare, una giovane donna di 35 anni.
Si trovava in macchina con il marito sull'autostrada che da Milano porta a Vercelli. Aveva raccontato.
L'andatura era sostenuta. Ricordava di aver gettato un'occhiata al contachilometri e di aver veduto la lancetta oscillare sui 160-165 km/h. Non ci aveva fatto caso. Era abituata a quella velocità: suo marito, non andava mai, potendo, troppo adagio. Poi, di colpo, un pneumatico anteriore della potente Alfa Romeo, era scoppiato. Il marito aveva perduto subito il controllo della vettura che, con una impennata terribile era volata, saltando lo spartitraffico, sulla corsia opposta di marcia. La mia giovane paziente sbiancava in volto raccontando quella esperienza. Ricordava uno schianto contro qualcosa di grosso e nulla più. Nessun dolore, nella maniera più assoluta. Si era trovata poi, come per incanto, ad osservare la scena più assurda cui le fosse mai capitato di assistere. Ella stessa vedeva la macchina capovolta con le ruote che ancora giravano nell'aria. Suo marito, sbalzato fuori dall'abitacolo, giaceva sull'asfalto senza dare alcun segno di vita: il capo in una pozza di sangue che si stava sempre più allargando. Poi vide il proprio corpo. Una gamba stava in posizione del tutto innaturale: piegata all'indietro, sotto il bacino. Aveva un braccio spezzato con una brutta frattura esposta: vedeva l'osso uscire dalla carne, bianchissimo. Si era avvicinata con curiosità: come poteva essere il suo quel corpo così martoriato se lei era lì accanto e stava benissimo?
Vide auto che si fermavano e passeggeri che scendevano e si dirigevano verso il luogo dell'incidente.
Dopo una ventina di minuti sopraggiunse un'ambulanza.


Un medico si chinò su di lei e le ascoltò il polso: "Vediamo l'uomo - aveva detto scuotendo il capo - Purtroppo questa è andata." La donna mi aveva riferito che le parole pronunciate dal medico le erano sembrate assurde, una condanna. Era corsa verso l'uomo che si stava ora occupando del marito e gli aveva gridato più volte: "Io sono viva! Non sono morta! Non vede che sono qui accanto a lei?" Il dottore non l'aveva sentita gridare. Nemmeno la vedeva. In quell'attimo fu preda del terrore più acuto. Vide che infilavano un grosso ago nel braccio di suo marito e gli attaccavano una flebo mentre lo caricavano nell'autoambulanza che partiva a sirene spiegate. Perché lei l'avevano lasciata lì? Perché le avevano gettato addosso quella vecchia coperta? "Si sono messi in testa che io sia morta! Che idioti sono!" Mentre la paziente proseguiva nel proprio allucinante racconto, vedevo che era sincera, che non tralasciava alcun particolare ma nemmeno ne aggiungeva. Sul suo viso passavano, in successione, espressioni che indicavano i sentimenti che le si agitavano dentro, nel più profondo dell'anima. Poco dopo si era sentita chiamare per nome. A quella voce si era voltata. Era molto molto familiare anche se da tempo, quasi 10 anni, non l'aveva più udita. Accanto a lei, sua madre le stava tendendo una mano. "Come quand'ero piccolina..." Aveva sottolineato la donna con un velo di pianto nei begli occhi azzurri. "Mamma... cosa fai qui? Non sei morta?" L'anziana donna, con un sorriso dolcissimo aveva risposto: "Sì Anna, lo sono. Per questo mi puoi vedere e parlare. Io sono qui, accanto a te." "Allora, anch'io... ha ragione quel dottore che si è portato via Tonino? Anch'io sono... sono..." La madre l'aveva presa per mano ed aveva assentito con un lieve cenno del capo. Giuro, mi erano venuti i brividi nell'ascoltare quella storia. Non ci avevo dormito per delle notti! Comunque la paziente mi aveva spiegato che dal momento in cui aveva toccato la mano che la madre le tendeva, dentro le era svanita ogni paura. Aveva gettato un'ultima occhiata a quel fagotto che giaceva scomposto sotto la pietosa coperta e che era stato fino a pochi minuti prima il suo corpo, quindi si era avviata lungo la carreggiata dell'autostrada per mano a sua madre.

Aveva notato che sull'asfalto non transitava alcuna macchina, eppure in quel tratto, la circolazione era sempre stata sostenuta. Aveva domandato il motivo alla propria accompagnatrice e questa aveva risposto: "Bambina mia! Questa è una strada speciale, riservata, per così dire. Voltati e guarda alle tue spalle." Aveva ubbidito ed aveva veduto, a qualche decina di metri di distanza, altra gente che procedeva nella loro medesima direzione. "Dove porta?" Aveva domandato ancora. "Di là." Era stata la laconica risposta di sua madre. Camminarono per un tempo indefinito: Anna raccontava che le era parso di averlo fatto per ore quindi, ad un certo punto, la strada sotto i loro piedi era... svanita. Non c'era più nulla sotto di loro. Nemmeno di lato e nemmeno sopra: erano arrivate. "Non avevo paura dottore - aveva seguitato Anna stavolta con un bel sorriso sulle labbra - Anzi, ero felice. Una gioia mai provata prima, in nessuna occasione. Io ero lì, con mia madre che mi teneva la mano e mi sorrideva. Non era più una donna anziana ora: era giovane e bella come la ricordavo quando avevo sette, otto anni. Era vestita con gli abiti che le avevamo messo quando era morta ma emanava una luce bianca e sfavillante. Mai visto nulla di simile! C'erano molte altre persone accanto a noi, tutte parevano essere molto felici. "Adesso che succederà?" Chiesi. "Fra poco ti lascerò la mano e tu andrai da sola dove... dove vorrà la tua anima, bambina mia. Sarà quella la direzione giusta e tu la seguirai." "Ti rivedrò?" "Certamente e se vorrai, sarà per sempre. Ora vai." “Mi sentii momentaneamente persa non appena non avvertii più il contatto della mano rassicurante di mia madre. - Raccontava Anna con un'ombra di ansia negli occhi - Ma fu una sensazione che passò immediatamente: mi trovai a camminare accanto ad un bel bimbo che poteva avere sei o sette anni al massimo ed io, istintivamente lo presi per mano. Mi guardò e sorrise: aveva un visetto grazioso e dolcissimo. Insieme procedemmo finché non entrammo in una luce che non trovo parole per descriverle: non era come la luce del sole, no. Era... era... mancano gli aggettivi, dottore. Era la luce e basta. Quando fummo al suo interno, io personalmente pensai: - Da qui non me ne voglio andare più. Questa luce è la gioia e la felicità - Mi sentivo finalmente viva, ma viva davvero! Capivo tutto quello che nei miei 35 anni mai avevo capito. Vedevo tutto ciò che non avevo veduto e soprattutto, sapevo tutto ciò che non avevo mai saputo. Avevo la vivida impressione di essere io stessa la conoscenza. Ogni cosa in me era armonia ed appagamento.

Poi, sempre con quel meraviglioso bimbo per mano, guardai in una piccola stanza di rianimazione in un ospedale lontano, incommensurabilmente lontano, e vidi un giovane uomo lottare contro la morte. Era Tonino, mio marito. Entrai nella sua mente: come in un libro aperto, ne lessi i pensieri: com'erano infantili, nebulosi, strani! Vi lessi la disperazione che stava, quasi inconsciamente, provando nel timore di dovermi lasciare sola per le strade del mondo e dell'esistenza. Non voleva morire. Non voleva per me. Provai dolore. Nella stanzetta accanto alla vecchio piangeva: mio padre. Una piccola bimba stringeva al cuore un orso di pezza: mia figlia Ester. "Mio Dio, non posso stare qui! - Pensai angosciata - Hanno bisogno di me, laggiù!" Dentro di me qualcosa esplose con la potenza di mille bombe atomiche: la Sua Voce. "Sa dottore - si era interrotta Anna per farmi comprendere meglio - Non era una voce come la mia o la sua, o quella di altra gente, era come se parlasse l'universo con i suoi miliardi di stelle, di pianeti e di galassie." "Colui che tieni per la mano non potrà nascere se tu rimani qui, ora. E' tuo figlio, il tuo prossimo figlio Anna, torna ancora laggiù. Il tuo compito non è finito." La voce tacque ed io con gli occhi pieni di lacrime guardai il viso del bimbo che tenevo per mano e che mi sorrideva. "Certo che tornerò, tesoro mio. - Esclamai - Tornerò per tè. Tornerò perché tu nasca dal mio grembo e mi chiami mamma..." Non potei terminare quello che stavo dicendo. Tutto attorno si fece buio. – Continuò -Ero sola adesso. Mi mancava il respiro e mi facevano terribilmente male la gamba destra ed il braccio sinistro. Non potevo muoverli. Quando ci provai gridai dal dolore. Rividi il cielo azzurro sopra di me quando qualcuno mi tolse di dosso quella maledetta coperta gridando: "Questa donna è viva! Presto, fate venire il medico, si sta lamentando..." Persi i sensi e, quando rinvenni, provavo dolore dappertutto ed ero fasciata come una mummia egiziana. Mi misi a piangere, ma stavolta non era per il dolore: piangevo perché ero felice di essere viva.

Presto avrei rivisto mio marito e la mia bambina. C'era poi qualcuno che aspettava, da qualche parte dell'universo, di poter nascere..." "Silvestrino?" Domandai alla giovane seduta davanti a me, all'altro lato della scrivania. "Sì, Silvestrino. Quello che è venuto al mondo col suo aiuto tre anni fa. Era sotto Natale. Ricorda dottore?" Risposi: "Sì, molto bene. Ma scusi Anna... era proprio, anzi, è proprio lui quel bimbo che aveva già incontrato... là, insomma, nell' al di là?" "Sì dottore - era stata la risposta sicura e gioiosa della donna - Proprio lui. Il mio bambino." Ora, come può un uomo che ascolta una storia come questa, non domandarsi se possa essere vera o meno? In cuor mio avevo deciso: Anna mi aveva detto la verità. La leggevo nei suoi occhi e negli occhi del suo bambino, che io avevo aiutato a venire al mondo proveniente da... ma sì, dall'Al-di-Là! Nel mio cuore ormai si era formata una certezza: la vita continuava, dopo!

Riscontri medici non potevo averne. Solo cinquant'anni fa, gli antibiotici non li conoscevamo, ma non per questo essi non esistevano. Non sappiamo ancora, o meglio, non sapete ancora cosa veramente accade a ciascuno di noi quando lassù Lui spegne l'interruttore. Io invece ho avuto la fortuna di scoprirlo. Raccontarlo non mi sarà facile, ma ci devo provare. Per lo meno, penso che se ho avuto questa opportunità di fare l'andata e poi il ritorno, ciò sia avvenuto per Sua Volontà. Forse perché avrei dovuto raccontarlo ed aprire gli occhi a molta, gente che sta per compiere l'estremo passo e ne ha terrore. Il terrore nasce nel cuore dell'uomo allorché egli si trova davanti a qualcosa di sconosciuto e che teme. Quello della Morte è il più atavico. Se ne sono dette tante sulla Morte e se ne sono anche scritte tante. Ella è stata presentata comunque come termine di qualcosa che ci è stata data e che prima o poi, ci viene tolto: la vita. Non è così. Certo, affermarlo susciterà qualche ironico sorrisetto di compatimento da parte di molti, ma non è così! Ciò che era accaduto ad un altro dei miei assistiti invece, dopo una attenta osservazione, mi aveva convinto che si era trattato di una specie di allucinazione pre- mortem.

Mancavano, secondo me, troppi particolari per poter definire il fatto paranormale. "Comunque - pensavo - prima o poi m' imbatterò in qualcosa che mi darà la conferma..." E quel qualcosa s'imbatté in me verso la fine di quell'anno. E non fu piacevole. Per niente! Mi accorsi che quello che avevo aspettato da anni inconsciamente, stava per accadere. Da qualche ora stavo guidando la mia ultima Mercedes di ritorno da un congresso a Roma. Ero nervoso per la lunga coda che si era formata in autostrada a causa del ribaltamento di un'autocisterna. Volevo rientrare a casa prima di mezzanotte, ma ora dubitavo di riuscirci. Avevo staccato più volte la mano destra dal volante di pelle della Mercedes: un fastidioso prurito mi induceva a grattare il palmo della mano sui pantaloni o sul bordo in rilievo del sedile. "Mi avrà punto qualche insetto. - Pensavo, bagnando il centro della mano con la punta della lingua. - Quando arriverò a casa darò un'occhiata." Arrivai verso le tre di mattina. Alzai la saracinesca del box e nel fare questo semplice movimento provai un certo dolore alla mano che mi ricordò il problema che mi aveva disturbato per più di metà viaggio. Avevo una copia delle chiavi dello studio nel vano portaoggetti dell'auto Entrai ed accesi la luce accanto al lettino da visita. Con una lente di ingrandimento osservai attentamente il palmo della mano destra, ma non vi scorsi nulla oltre ad una vecchia cicatrice che mi ero prodotto da bambino con un vetro infisso in cima ad un muretto da qualche pazzo, a difendere due ciliege! "Saranno le troppe ore di guida - considerai fra me - tra due giorni sarà tutto scomparso. " Rincasai rassicurato da quel pensiero.

Silenziosamente, per non svegliare mia moglie e le figlie che dormivano, mi spogliai e m'infilai sotto le lenzuola: erano le quattro meno dieci ed alle nove avrei dovuto aprire lo studio e decisi di andare subito a constatare di che si poteva trattare. Mi addormentai subito profondamente. Le feste di Natale trascorsero serene. Non avevo più accusato alcun disturbo alla mano. Fu una mattina di febbraio, verso le undici, che il dolore si ripresentò acuto come una pugnalata. Ero intento al rilevamento dei valori pressori di un'anziana donna: pompavo energicamente la sfera dello sfigmomanometro. Di colpo la lasciai cadere ed osservai la mia mano sotto lo sguardo incuriosito della donna. "Che vi siete fatto, dottò?" Domandò. "Niente, niente! Ho schiacciato troppo!" La rincuorai mentre dentro di me avvertivo salire un'ansia inconsueta. Uscita la paziente e prima di dire il consueto "Avanti!" tomai ad esaminare il palmo cercando di individuare, con ripetute pressioni del dito medio della mano sinistra, il punto esatto da cui si originava il dolore.

Al terzo tentativo ebbi successo. Potei constatare che fra i tendini, affossata in profondità, era riscontrabile una pallina dura: sembrava essere di pietra. "Ecco cos'è! - Pensai con sollievo per averla localizzata - Forse è un neuro-fibroma... Beh, lo farò togliere non appena mi darà troppo fastidio." Decisi con un'alzata di spalle. Non ne parlai in casa. Non desideravo allarmare Giulia, mia moglie, che giusto in quel periodo era venuta a sapere e proprio da me, che per il figlio di sua sorella Carla il piccolo Giorgio, non c'era più nulla da fare se non sperare che col tempo, migliorasse. Una banale caduta dalla bicicletta ed aveva battuto a terra il capo riportando un grave stato commotivo. In seguito era sopravvenuta una meningite che pareva aver compromesso la quasi totalità delle funzioni intellettive. Mio nipote aveva otto anni e mi era molto affezionato. Un collega, un neuropsichiatra infantile di Varese, non mi aveva lasciato molto da sperare. Ora stava per essere ricoverato in un istituto dove avrebbero tentato una certa riabilitazione. Giulia aveva sofferto per quel bimbetto che spesso e volentieri scorazzava nel nostro giardinetto giocando con le cugine più grandi, le mie figlie: impensierire ulteriormente Giulia, mi sarebbe spiaciuto. Tanto le cisti vanno e vengono. Nel caso sapevo già dove recarmi per farla togliere. Intervento ambulatoriale comunissimo e quotidiano nel vicino ospedale. Trascorse ancora qualche tempo. A volte mi dimenticavo persino di averla nel palmo della mano quella curiosa neoformazione e, a volte, invece mi doleva intensamente. Non mi preoccupai più del necessario fintantoché non incominciò ad ingrossare. Ora dava veramente fastidio: ero arrivato al punto di sentire formicolare le dita della mano: cominciava a premere sui tendini.

Lo dissi a Giulia. "Perché hai taciuto fino ad ora?" Mi chiese guardando la grossa cisti che sporgeva dal palmo della mano.
"Perché non è nulla di speciale. Domani chiamo il mio collega, quel ragazzo che abbiamo conosciuto alla festa di laurea del figlio di Antonio, il farmacista."
"Chi, il Colombo? Il chirurgo plastico?"
"Si. E' meglio che la tolga lui. E' chirurgo ortopedico. La mano è una struttura molto complessa... non è da tutti operarvi sopra..."
"E' una cosa lunga?" S'informò Giulia.
"No! Dieci minuti con l'anestesia locale. Tre, quattro punti - minimizzai con un sorriso - e via, a casa."
"Perché non lo chiami ora? - M'invitò Giulia - Sono solo le ventuno e trenta e sarà a casa"
"D'accordo - acconsentii più che altro per farla contenta - Cercami il numero sulla mia rubrica. "
Qualche minuto più tardi il collega stava dicendomi al telefono: "... Bene, ti aspetto domattina. Vieni su all'Ospedale, sai dove sono, e daremo un'occhiata...” "Te ne sono grato, Marcello... " "Fammi ridere...! Ciao, ci vediamo!"
Guardai Giulia e mentre riagganciavo la cornetta al telefono le confermai: "E' per domani... Vado da lui alle otto e trenta, prima di aprire lo studio. Ha detto che mi visiterà subito. Se dovessi tardare vai tu ad aprire." "No - Rispose Giulia preoccupata - Vengo anch'io Norberto, mica mi fido troppo di te. Mi nascondi le cose, ho visto!"
"Se ci tieni, mi farà piacere la tua compagnia, moglie premurosa." Risposi scherzando un poco con lei.
Il collega palpò brevemente il palmo della mia mano.
"Non è nulla, stai tranquillo. Vuoi che te la tolga domattina?" Propose.
"Ma sì - risposi - che differenza fa. Non ho certo paura di un'incisione. Va bene. A che ora?"
"Vieni alle dieci. Sai già che devi essere digiuno. Stato generale?" Domandò professionalmente.
"Ottimo. Sto davvero bene... a parte questa menata..."
"Va bene, allora alle dieci domattina. Avvederci signora." Ci congedò il collega. Tornando a casa, in auto, eravamo entrambi sollevati: l'indomani mattina tutto sarebbe stato sistemato. Andai a lavorare e non pensai più alla mano che frattanto non doleva nemmeno.
Quella notte però non riposai affatto: c'era qualcosa dentro di me che non voleva affatto essere ignorato anche se non avevo paura ne della cisti, ne dell'intervento che potevo paragonare, al massimo, all'estrazione di un dente guasto.
L'ago che Marcello spinse delicatamente sotto la pelle del palmo della mia mano mi fece male. Non l'avrei creduto tanto doloroso.
Glielo dissi: "Non è l'ago, è il liquido anestetico... ecco, finito! Ora aspettiamo qualche minuto poi incidiamo. Vuoi guardare?"
"Certo! Sono chirurgo anch'io anche se non pratico tutti i giorni." Risposi tranquillo. Non sentii alcun dolore mentre con lo sguardo seguivo la lama lucente del piccolo bisturi che incise a mezzaluna attorno alla cisti. Con una pinza Marcello sollevò il tessuto epiteliale circostante la neoformazione quindi proseguì nella resezione del nodulo biancastro.
"Toh! - Esclamò mostrandomelo - Pare il nocciolo di una ciliegia. Fatto male?"
"No, non ho sentito che un piccolo fastidio quando l'hai tolto. Sei in gamba Marcello!"
"Ma va! E' una cosa che faccio, a dir poco, dieci, quindici volte al giorno. Ora ti cucio." Ago e filo suturarono la piccola incisione che poi venne pennellata col disinfettante e fasciata con rara perizia.v "Vieni qui fra otto giorni che ti tolgo i punti."
Ringraziai il collega e con Giulia che fece da autista, tornai a casa.v Trascorsero alcune ore e l'effetto dell'anestetico fini. Mi pareva di aver nel palmo della mano un tizzone ardente che pulsava seguendo il ritmo del cuore.
"Ti ha fatto molto male papa?" Domandò Norma, la mia figlia maggiore, studentessa universitaria al III anno di medicina.
"Oddio, picchia di brutto, cara bambina mia."
"Ti do un analgesico? Una Nisidina è quella che occorre pà."
L'aveva nel sangue la medicina quella mia cara ragazza. Fin da piccola aveva sempre risposto alla solita idiota domanda che gli adulti rivolgono ai ragazzini: "Che farai da grande?" "Il medico. Come il mio papà. " E non aveva mai mutato idea. Inutile dire quanto io ne andassi fiero.
Assunto l'analgesico, il dolore parve scemare per qualche ora, poi tornò. Mi parve anche più intenso di prima. Quella notte non riuscii a dormire ma non fu solamente per causa sua. Ora l'avevo veduto coi miei occhi ciò che era cresciuto dentro la mia mano: aveva un aspetto del tutto innocuo. Eppoi l'aveva detto anche il collega che mi aveva operato che si trattava di nulla. Dovevo solo attendere l'analisi istologica del campione inviato ad un laboratorio: l'avrebbero eseguita in due giorni.
Infatti, puntuale come un orologio arrivò il referto: "Antico neurofibroma di origine benigna." Praticamente nulla.
Mi trovai a sorridere di me per la paura che avevo provato. Qualche tempo dopo, non si vedevano più nemmeno i segni dei punti di sutura. Però... però c'era un sogno ricorrente, una specie di incubo. Un tipo strano, vestito di grigio, col cappello Borsalino calato sugli occhi, si presentava nel mio studio, mi diceva qualcosa che non mi riusciva mai di ricordare e quando, prima di uscire, mi salutava stringendomi la mano, questa mi faceva molto male, la osservavo e nel palmo c'era una cosa nera e dura come l'acciaio che non mi riusciva di togliere. Lentamente ingrandiva, occupava tutto il palmo finché questo spariva alla vista. Mi svegliavo di solito a quel punto del sogno, sudato ed ansimante. Accendevo la luce sul comodino, guardavo la mano, ma non vi scorgevo nulla. La spegnevo dandomi dell'idiota e riprendevo a dormire.
Era trascorso quasi un anno da quando avevo scoperto quella cisti. Eravamo vicini alle festività dei Santi e dei Defunti quando una notte rifeci ancora quel brutto sogno. Stavolta l'uomo in grigio si tolse il cappello e potei vederne il volto. Bello, lineamenti nordici molto marcati, biondo quasi bianco, occhi celesti, grandi e una voce molto musicale. Questa volta, curiosamente parlava in maniera molto esplicita ed in italiano. Nessuna inflessione dialettale: "Sa', dottore, adesso non posso proprio più aspettare. Deve venire con me..." Risposi agitatissimo e molto innervosito: "Io non verrò con lei da nessuna parte. Non vede quanto ho da fare? Non vede quanti malati..."
"Nessuno è insostituibile, dottore. Dopo di lei, verrà un altro al suo posto."
"E dove dovrei seguirla, se è lecito?"
"Non lo immagina?"
"No di certo!" "Eppure non dovrebbe esserle difficile da intuire. Le avevamo già preparato il lasciapassare qualche mese fa..."
"Ma che cavolo sta dicendo?" Domandai sul punto di perdere davvero la pazienza.
"Via dottore! Vuoi farmi credere di ignorare quello che aveva? E sì che mi sono dato da fare per farglielo intendere. Dottore, le avevamo messo in mano - e qui, rafforzò la voce - il biglietto di andata ma lei, lei lo ha stracciato. Ora però è arrivato il tempo. Di solito concediamo qualche altro po' dopo il primo avviso, ma poi..."
Persi la pazienza e sbottai:" Ma vada a quel paese! Fuori da questa stanza e senza darmi la mano, prego!"
Si era alzato dalla sedia davanti alla scrivania ed aveva detto sorridendo: "Non serve, dottore. Ha già quel che deve avere dentro di sé. Ci vediamo, dottore. Facciamo per Pasqua?"
"Vaffanculo!" Gli gridai mentre usciva. Mi risvegliai madido di sudore e quasi terrorizzato. Accesi la luce sul comodino: un'ombra nera era visibile sotto la pelle del palmo della mia mano. Mi alzai cercando di non fare rumore, ma Giulia che dormiva al mio fianco si era già svegliata. "Che c'è?"
La guardai disperato: "La mano! C'è una macchia nera sotto la pelle..."
"Ti fa male?"
"No, ma... ho fatto un brutto sogno...
"Fammi vedere. Andiamo in cucina, la luce è più forte." Propose spaventata.
Provammo a lavare la mano per vedere se si trattasse solo di una qualche macchia. Non lo era. Nulla poteva pulirla. Mi sentii perso e mi venne da piangere. "Stavolta non so se Marcello potrà togliermi, questa... questa cosa."
Giulia tentava di rassicurarmi: "Saranno dei capillari rotti! Ma che medico sei? Non ci avevi pensato?"
Esaminai quella possibilità, ma la scartai subito: mai sofferto di fragilità capillare.
"No, Giulia - affermai convinto - Questa è brutta. Me lo sento. Si sta riformando.
Domani mi farò una piccola biopsia e l'analizzerò da solo. Sono ancora in grado di leggere un vetrino al microscopio."
"Va bene! Sei il solito che pensa subito al peggio - mi accusò irritata - in tutte le cose. Ora torniamo a dormire. Sono certa che non è nulla. Vedrai Norberto, lo so." Non dormii di proposito: avevo il terrore che tornasse a farmi visita l'uomo in grigio col Borsalino calato sugli occhi. Il mattino che finalmente arrivò mi trovò intento a sterilizzare un sottilissimo ago e a preparare il mio vecchio ma potente microscopio. Sospinsi l'ago stringendo i denti per il dolore, dentro la nocciolina scura che si era formata nella mano esattamente dove era stata asportata la cisti. Aspirai quel tanto sufficiente per poter prelevare un campione di tessuto. Estrassi l'ago e tamponai il piccolo foro d'uscita con ovatta imbevuta di disinfettante poi preparai il vetrino con il poco materiale che fuoriuscì dalla punta dell'ago.
Colorai il preparato e sigillai il vetrino. Erano le 7,30 quando lo posi sotto l'obbiettivo più potente come ingrandimento. Ora, non mi restava che guardare, ma non ne avevo il coraggio. Sapevo già, o almeno, immaginavo quello che avrei veduto.

Continua.........

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