mercoledì, gennaio 08, 2014
Il decreto-legge, varato dal Governo il 28 dicembre dell’anno appena trascorso, ridisegna il sistema del finanziamento dei partiti, introducendo delle innovazioni davvero significative. Non ultima quella del riconoscimento dei partiti politici. Ecco in breve le principali novità. 

di Bartolo Salone 

E’ appena iniziato in Commissione Affari costituzionali del Senato l’esame del decreto legge n. 149 del 2013 sul finanziamento ai partiti, varato dal Governo lo scorso 28 dicembre. Il decreto, che dovrà essere convertito in legge entro sessanta giorni dalla sua emanazione (cioè entro il 28 febbraio) a pena di decadenza, ridefinisce il sistema dei finanziamenti ai partiti e movimenti politici comunque denominati, purché presentino candidati per il rinnovo degli organi rappresentativi (Camera, Senato, Parlamento europeo, Consigli regionali), dettando norme davvero innovative anche sul versante della trasparenza e della democraticità interna.

Per quanto attiene al finanziamento pubblico dei partiti politici (nell’ampia accezione prima riferita), l’innovazione di maggior rilievo consiste nell’abolizione del rimborso delle spese elettorali, introdotto dal legislatore del 1999 in sostituzione del finanziamento diretto, abrogato per via referendaria il 18 aprile 1993. La cosa singolare è che il nuovo decreto qualifica fin dalla sua rubrica il rimborso elettorale in termini di “finanziamento diretto”: la classe politica pertanto prende atto (e lo fa in un testo normativo) del fatto che i rimborsi elettorali, come in passato sostenuto da autorevoli voci, in realtà riproducevano in forma mascherata quel sistema di finanziamento pubblico a cui il popolo italiano aveva detto chiaramente di no nella consultazione elettorale del ’93. Nell’abolire ogni residuo di finanziamento diretto, tuttavia, il Governo ha ritenuto opportuno introdurre un sistema di contribuzione volontaria fondato sulle libere scelte dei contribuenti. Tale sistema prevede invero due diverse modalità: la destinazione ad uno (e uno soltanto) dei partiti politici, a scelta del contribuente, di una quota pari al 2 per mille del proprio IRPEF e la possibilità (sia per le persone fisiche che per le persone giuridiche private) di portare in detrazione, ai fini dell’imposta sul reddito, una percentuale delle erogazioni liberali effettuate in favore di partiti. Si tratta, come evidenziato da alcuni, di una nuova forma di finanziamento pubblico “indiretto”, che passa tuttavia per il controllo diretto, dal basso, dei cittadini. E’ difficile prevedere oggi se, in termini monetari, il nuovo sistema risulterà più vantaggioso per i partiti rispetto al precedente: di sicuro varrà a responsabilizzare la classe politica, chiamata a rispondere immediatamente dinanzi alla cittadinanza dell’uso dei contributi ricevuti dalla collettività. D’altro canto va aggiunto, a scanso di equivoci e contro alcune polemiche prese di posizione, che il nuovo sistema di finanziamento indiretto in sé non tradisce la volontà popolare, visto che il corpo elettorale, nel referendum del ’93, era stato chiamato ad esprimersi su un sistema, profondamente diverso, di contribuzione diretta.

Sarebbe però troppo riduttivo fermarsi a questo punto nell’esame della nuova normativa, come invece sono solite fare, piuttosto sbrigativamente, alcune analisi giornalistiche. Il decreto-legge in commento, infatti, non si limita a riconoscere l’importanza, per il corretto funzionamento del sistema politico, di forme di contribuzione pubblica (sebbene indiretta), ma pone altresì un tetto ai finanziamenti privati: questi non potranno superare, con riferimento ad un singolo partito, i 300mila euro annui per le persone fisiche (e i 200mila per i soggetti diversi dalle persone fisiche). Il nuovo sistema di finanziamento, colto nella sua globalità, pertanto si fonda su due principi, tra loro strettamente correlati: contribuzione indiretta volontaria (fondata sulla libertà di scelta del contribuente) e limite ai finanziamenti privati. Principi interagenti verso un obiettivo comune, che è quello di garantire ai partiti i mezzi finanziari necessari all’espletamento del loro fondamentale compito costituzionale quale riconosciuto dall’art. 49 della nostra Carta fondamentale, evitando al contempo i pericoli di un eccesso di contribuzione privata, che farebbe di fatto dei partiti politici uno strumento nelle mani di uomini d’affari o di grandi gruppi industriali e finanziari.

Particolare attenzione va poi rivolta alle nuove norme sulla trasparenza e sui controlli economico-contabili. I partiti, alla stregua del decreto n. 149/2013, sono infatti tenuti ad assicurare la trasparenza e l’accesso alle informazioni relative al proprio assetto statutario, agli organi associativi, al funzionamento interno e ai bilanci, anche mediante la realizzazione di un proprio sito internet. Inoltre, nei siti di partito e in un’apposita sezione del portale internet ufficiale del Parlamento italiano vanno pubblicati gli statuti e il rendiconto di esercizio dei singoli partiti nonché i dati relativi alla situazione reddituale e patrimoniale dei titolari di cariche di governo, dei parlamentari nazionali e dei parlamentari europei eletti in Italia. E’ fatto altresì obbligo ai partiti di consolidare i loro bilanci con quelli delle fondazioni e associazioni da loro controllate e di far certificare i loro rendiconti da revisori esterni. L’inottemperanza agli obblighi di trasparenza e di pubblicità predetti comporta la perdita dei benefici fiscali previsti dalla legge e, in particolare, del diritto al 2 per mille del gettito IRPEF indicato annualmente dal contribuente nella sua dichiarazione dei redditi.

Ma l’aspetto più dirompente della novella disciplina attiene senza ombra di dubbio alle norme sulla registrazione e sul riconoscimento dei partiti politici. Fino ad oggi, infatti, i partiti politici sono rimasti, a dispetto della loro innegabile funzione pubblicistica, delle semplici associazioni di fatto. Il decreto in commento, invece, per la prima volta nella storia repubblicana, consente ai partiti di ottenere il riconoscimento della personalità giuridica, mercé il loro inserimento in un apposito registro pubblico. Condizione per il riconoscimento è che i partiti si diano uno statuto che preveda un ordinamento interno di tipo democratico e che definisca, in particolare, il numero, la composizione e le attribuzioni degli organi deliberativi, esecutivi e di controllo, le modalità della loro elezione, la cadenza delle assemblee congressuali nazionali o generali, i diritti e i doveri degli iscritti, le modalità di partecipazione degli iscritti alle attività del partito nonché le garanzie delle minoranze e la rappresentanza di entrambi i sessi in seno agli organi di partito. Formalmente il riconoscimento è una mera facoltà e non un obbligo per il partito; tuttavia, l’iscrizione nel registro dei partiti politici riconosciuti è precondizione per il conseguimento dei benefici e delle forme di finanziamento previste dalla legge. In tal modo, il finanziamento pubblico indiretto viene a dipendere dalla disponibilità dei partiti a garantire al loro interno il metodo democratico e la partecipazione effettiva degli iscritti alle attività da essi promosse. Ne risulta così accentuata la funzione che l’art. 49 della Costituzione rimette ai partiti di consentire l’effettiva partecipazione dei cittadini alla determinazione della politica nazionale. Un aspetto, questo, davvero dirompente, destinato sicuramente a cambiare il modo di far politica, ma che stranamente sta passando in secondo piano nell’attuale dibattito sulla nuova disciplina, che vedrà impegnato l’opinione pubblica nei prossimi mesi.


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