venerdì, gennaio 10, 2014
Lpl pubblicherà in esclusiva, a partire da oggi, un ciclo di racconti inediti del noto scrittore Silvio Foini. (prima parte)

di Silvio Foini

II cielo si era rannuvolato durante le ultime ore della notte ed ora minacciava pioggia: era stata una primavera strana quella. Al caldo dei primi giorni di marzo, inconsueto per la verità, si era sostituito un brusco ritorno all'inverno ed il vento freddo aveva iniziato a soffiare dal lago piegando le giovani canne sulle rive. Nel piccolo paese prospiciente, i comignoli avevano ripreso ad emettere verso il cielo le loro grigie dita di fumo che si confondevano con le nubi basse e le montagne che, pur essendo molto vicine, s’intravedevano a stento. Le prime gocce crearono cerchi sull'acqua increspata e scura. Alle sette, la sveglia, posta sul comodino accanto al letto di Marco, suonò con quel suo trillo così odiato dal giovane.

Una mano sbucò da sotto le coperte. A tentoni la cercò e la raggiunse: un dito pigiò nervosamente il pulsante dello stop e nella povera camera, tornò il silenzio. Marco rimase qualche altro minuto a godersi il tepore delle coperte poi, con un sospiro, mise i piedi giù dal giaciglio, cercò le pantofole, imprecò non trovandole subito, quindi accese la piccola lampada sul comodino: non cominciava bene quella giornata, pensò. Rabbrividendo si avvicinò alla finestra e spalancò le persiane che cigolarono lamentose ruotando sui cardini arrugginiti. "Cribbio! - Esclamò gettando uno sguardo fuori - Piove ancora, balordo d'un tempo!”

Si vestì velocemente, raggiunse il gabinetto che stava fuori, sul piccolo ballatoio della cascina, accese una sigaretta ed aspirò una lunga boccata di fumo. Era martedì e verso le undici doveva arrivare il camion con il legname, giù alla segheria dove lavorava e ciò significava che avrebbe dovuto scaricarlo sotto la pioggia e lui, la pioggia l'odiava. Pensieri tristi facevano capolino nella sua mente ed un mal di schiena, regalo dovuto all'umidità dell’anno precedente si rifece vivo. Faceva presto il vecchio dottore a raccomandargli di riguardarsi! Che ci venisse lui in segheria invece che starsene e sputar consigli seduto sulla sua bella poltroncina di pelle nera con accanto ai piedi, la stufetta elettrica e il cappotto sotto il camice bianco! Poi c'era quella carogna del Bianchi, il padrone: “Ohe! Marco, muovi il culo che se la legna si bagna, mi marcisce e non la vuole più nessuno, nemmeno per bruciarla!” Quello, il Bianchi, di mal di schiena non ne voleva neanche sentire parlare: Marco prendeva una paga, quindi... Tornò nella stanza fredda e si gettò sulle spalle ossute una vecchia giacca di pelle nera, logora, sdrucita, puzzolente di resine, senza più tempo e senza più nemmeno un bottone. Mise in testa un cappellaccio che in tempo lontano era stato un Borsalino di feltro ed uscì sotto la pioggia che ora cadeva abbastanza intensamente da infradiciarlo a dovere durante il chilometro che lo separava dalla segheria.

Il cancello di ferro era ancora chiuso e Marco trovò riparo sotto il grande tiglio che sorgeva lì accanto, muto testimone della morte di tanti suoi simili che passavano sotto i nastri delle seghe, a pochi passi dalle sue radici. Diede un’occhiata all'orologio a cipolla che portava nel taschino del gilet: le otto meno un quarto. "Sto figlio di buona donna si è addormentato, vuoi vedere?" Si disse pensando a quel pancione del Bianchi. “Lui è a letto che dorme accanto a quella scrofa che ha per moglie ed io debbo stare qui sotto l'acqua ad aspettare i suoi comodi. Gli prenda un accidente!” Dovette attendere ancora quasi un'ora, poi notò un grosso camion con sul cassone un telo impermeabile che ricopriva qualcosa di cui non riuscì a riconoscere la sagoma: tutto poteva essere meno che il solito carico di legname! L'automezzo, traballando lungo la sconnessa strada che conduceva alla segheria, si arrestò sbuffando davanti al cancello chiuso e ne scese un tizio alto e biondo che parlava una lingua sconosciuta.

"E’ tedesco"" Pensò Marco e per assicurarsene, girò dietro al camion per vedere la targa. Infatti, una grossa D sovrastava delle lettere e dei numeri in nero. "E io che cavolo gli dico a questo?" Si domandò il giovane che ormai grondava acqua da tutte le parti. Meno male che qualche attimo più tardi intravide il motocarro del padrone che arrancava nel fango verso di loro. I1 Bianchi scese dal trabiccolo e corse all’autista tedesco tendendogli la mano: "Benarrivato! Fatto buon viaggio?” Esordì gettando occhiate curiose in direzione del carico. Non gli importava certo nulla di come fosse stato il viaggio: gli importava delle condizioni in cui la merce che aspettava fosse giunta a destinazione. “Marco, non stare lì con le mani in mano! Muoviti, aiuta a scaricare la nuova sega! Non vedi che piove?” “Io... io è da un'ora che sto qui. Il cancello è chiuso e...” I1 corpulento padrone della segheria gli gettò un'occhiataccia e rovistò freneticamente nelle tasche del cappotto. “Per diana, dov'è finita la chiave?” Finalmente, dopo un’affannosa ricerca la trovò e la gettò a Marco che la prese al volo. “Apri, maledetto buono a nulla!” Latrò. Il giovane, bagnato all'inverosimile dalla pioggia, represse, a stento, uno scatto d'ira e s'avviò verso il battente del cancello di ferro. “Ti venisse un accidente, cretino che non sei altro!” Mormorò tra sé mentre infilava la grossa chiave nella serratura. Sospinse il pesante battente e faticò non poco a farlo girare sui cardini.

Qualche attimo dopo, il camion tedesco entrava nel vasto cortile della segheria. L'autista fece segno a Marco di tirare il telone verso di sé mentre egli faceva altrettanto e qualche momento dopo apparve la macchina: Marco la giudicò una specie di mostro dipinto di verde con una serie di pulsanti colorati che parevano occhi cattivi. Il nastro della sega fu quello che l'impressionò: non c'era certo il sole quella mattina, ma quella lama mandava bagliori sinistri! Lucida, perfetta, il filo doveva essere talmente tagliente da spaccare in due un capello!

“Beh? Mai visto una sega?” Abbaiò il Bianchi battendosi le palme delle mani sull'enorme pancia. “Questo si chiama progresso, caro mio! Se non ci si attrezza, si rimane a guardare la concorrenza mentre ti fa le scarpe!” Ci volle un'ora a scaricare la macchina dal cassone del camion e Marco ebbe modo di rimpiangere che il carico non fosse legname. Avevano quasi terminato quella penosa operazione quando il giovane, distrattosi un attimo, sfiorò con la mano destra il filo della lama: questo gli tracciò sul dorso una sottile linea rossa che inutilmente la pioggia tentò di cancellare. “Gesù santo! Questa cosa ce l'ha con me!” Gridò dando un balzo per il repentino dolore. “Sei tu che sei un cretino! Te lo dico sempre che ci lascerai le dita o le mani, prima o poi! Non sei capace di stare attento a dove le metti?” Lo apostrofò duramente il padrone della segheria battendosi l'indice sulla fronte e scuotendo quella sua testa a pera. Marco succhiò la ferita quindi vi tenne premuto sopra il fazzoletto e, piano piano, il sangue si arrestò. Posizionarono la macchina sotto una tettoia ed anche qui faticarono non poco a metterla in piano. “Alle undici arriva la legna dalla Svizzera. Ora io devo andare in banca con l'autista per effettuare il pagamento. Tu fatti aiutare a scaricare dal Giovanni. Ora, mentre passo su in paese, lo avverto.” Disse il Bianchi risalendo a fatica sul motocarro con cui era arrivato. Fece segno al camionista tedesco di seguirlo col suo mezzo poi imboccò la stradicciola che portava al paese. Marco rimase solo con la pioggia che seguitava a cadere e con la sua grande tristezza che gli infondeva la voglia di mettersi a piangere. Pensava malinconicamente alla sua vita passata, diversa certamente dal presente. Un tempo che pareva oramai avvolto nella nebbia dei ricordi: anch'egli aveva avuto una famiglia, una madre che gli rincalzava le coperte nelle fredde sere d'inverno e che gli voleva molto bene. Suo padre invece, lo ricordava poco. Era stato portato via dai tedeschi una sera e non era tornato mai più. Si chiamava Umberto. Come il Re. Poi, una mattina di aprile, erano venuti dei soldati a cercare qualcuno, dicevano un partigiano, che forse si era nascosto nella stalla e siccome non lo avevano trovato, indispettiti, avevano appiccato il fuoco. Lui era scappato terrorizzato a nascondersi fra il canneto del lago e, quando era tornato a casa aveva trovata morta la madre, stesa sul pavimento della povera cucina, in una pozza di sangue. Aveva pianto per due giorni in ginocchio, accanto a quel povero corpo finché non era arrivato Don Bruno a portarlo via. Ora odiava tutto ciò che veniva dalla Germania, turisti compresi, quelli che, d'estate, si riversavano in massa a villeggiare sulle rive di quel lago Maggiore teatro delle loro atrocità d'un tempo. “Malvagi!” Mormorava quando gli capitava d'incontrarli per le vie del paese, “Non ne avete ancora abbastanza?” Ora, era arrivata quella nuova macchina utensile, tedesca. Si guardò il dorso della mano: non sanguinava più ma bruciava ancora. Le passò accanto e vi sputò sopra: “Alla malora!” Imprecò.

Gli parve che quella cosa accanto a lui, avesse una specie di sussulto. Si fermò per un attimo ad osservarla quindi, con un'alzata di spalle, raggiunse lo spogliatoio dove indossò un maglione di lana ed un paio di logori pantaloni di fustagno. Si sentì meglio con indosso quei panni asciutti e prese a riordinare il laboratorio: fra poco sarebbe arrivato il Giovanni che gli avrebbe dato una mano quando sarebbe giunto il carico di legname dalla Svizzera. Stava spostando una lunga asse di pino da una catasta all'altra quando avvertì un rumore inconsueto nella segheria, si fermò e rimase con l'orecchio teso per sentire se mai si fosse ripetuto. Non udì nulla: eppure avrebbe giurato di aver sentito... ma no, cielo santo! Che gli veniva in mai mente? Una macchina non si avvia da sola... Eppoi non c'era ancora la spina nella presa della corrente!

“Tutta questa pioggia che ho preso mi marcisce il cervello!”Si disse ritornando a lavorare alla catasta di assi di pino che doveva spostare per far posto al nuovo legname. Guardò l'orologio: le nove e quarantacinque. Lo portò all'orecchio scuotendolo. Era fermo. “Mi pareva fosse più tardi – Considerò Marco prendendo fra il pollice e l'indice della destra la coroncina che serviva a dare la carica all'orologio. - Me ne sono dimenticato ieri sera, chissà se sono già le undici... Però il Giovanni deve ancora arrivare… Saranno le dieci e mezza.” Considerò fra sé regolando le lancette su quella ipotetica ora. Ancora quel rumore... Stavolta, ne era sicuro, un motore elettrico pareva cercare di avviarsi. Uscì precipitosamente dal laboratorio, attraversò di corsa il cortile e sotto la pioggia che ancora cadeva, raggiunse la tettoia al riparo della quale avevano installato la nuova macchina tedesca. Lo accolse il silenzio più assoluto, eccezion fatta per il ticchettio della pioggia sulla tettoia. Marco si guardò attorno: non c'era nessuno! Rimase ad osservare la macchina, immobile sul proprio basamento: “Eppure sei tu che hai fatto rumore.” Pensò accarezzandosi il mento ispido di barba “ Non me la dai a bere catorcio.” Girò sul retro e notò che il cavo d'alimentazione elettrica era svolto completamente e giaceva per terra teso in tutta la propria lunghezza, verso una presa di corrente che distava ancora quasi un metro abbondante dalla spina del cavo.

"Non riesci a mangiare, vero?" Le urlò Marco in preda ad un’ira che gli stava montando alla testa. Raccolse un grosso ramo che giaceva poco discosto da dove aveva i piedi e lo alzò minacciosamente. “Ti faccio a pezzi, rottame maledetto!” Gridò. Il cavo di alimentazione si tese spasmodicamente verso la presa della corrente: scintille bianche ed azzurre guizzarono sul terreno umido ed il motore di quella macchina prese a girare. Sembrava l'urlo di una bestia impazzita: Marco lasciò cadere il bastone che stringeva fra le mani e corse via, incurante della pioggia che seguitava a cadere. Raggiunta la sua misera dimora, si distese sul letto con la faccia nascosta nel cuscino di piume d'oca, quasi a cercarvi rifugio. Cosa Stava accadendo? Davvero stava impazzendo o... o quella cosa, là sotto la tettoia, nella segheria, lo odiava? Non era possibile: le macchine non odiano nessuno. Come potrebbero del resto? Forse era la sua fantasia o la sua mente che si stava ammalando come quella di suo padre? Aveva udito, in paese raccontar strane storie sul conto di quest'ultimo. Dicevano che quando si ubriacava, su all'osteria del Peppino, parlava da solo o meglio, parlava con le anime dei morti. A diversi avventori che si prendevano burla di lui, aveva raccontato cose che nessuno, all'infuori dell'interessato poteva sapere."Chi te lo ha detto?" Gli chiedeva qualcuno di questi sospettosamente.

" Tua madre! E' lì, dietro di te. Non la vedi? E girati, fesso!" Ovviamente nessuno aveva mai veduto nulla, però... Che qualcosa di vero ci fosse in queste storie, venne da tutti quanti accettato allorché, dal piccolo paese in cui tutti si conoscevano e sapevano i casi di ognuno, scomparve una donna. La cercarono, inutilmente per giorni in ogni più recondito anfratto delle valli circostanti e nei paesi vicini. Niente di niente: la donna pareva essersi volatilizzata! A qualcuno venne in mente di domandarlo all'Umberto matto. Così lo avevano soprannominato. Matto. In quella fredda sera di gennaio, con trenta centimetri di neve fuori, davanti al camino dell'osteria del Peppino, l’Umberto si era messo seduto su uno sgabello di legno, con davanti un bel litro di quello buono ed aveva iniziato a bere fra il silenzio generale. Poi lo videro piangere. “Avanti, Umberto! Dicci che è capitato alla Camilla! Cosa vedi?” Con la voce impastata dall’alcol , tenendosi il capo fra le mani, aveva risposto in dialetto: “L'è mei da no!” (E' meglio di no!)

Solo dopo molte insistenze dei compaesani si decise a parlare e quel che disse fece venire la pelle d'oca a tutti, compreso il marito della donna che corse fuori dall'osteria ed andò a vomitare al lato opposto della strada. Per sommi capi, questo fu il suo racconto. L'Umberto aveva asserito che lo spirito della donna era presente in quel momento lì, in mezzo a loro e chiedeva che il suo corpo venisse recuperato da dove si trovava, vicino alla riva del lago, a qualche metro di distanza dalla sponda, là dove vi erano le sabbie mobili. Era entrata per qualche metro in acqua per recuperare un fazzoletto che si era portato via la risacca e non era più riuscita a ritornare a riva perché era finita dentro un banco di sabbia che l'aveva pian piano risucchiata.

"Sono morta con la bocca e il naso pieni di fango, è stato orribile! Vedevo su di me la luce del sole attraverso l'acqua del lago... poi non ce la ho fatta più a non respirare ed ho sentito l’acqua gelida entrarmi nei polmoni. E’ stato subito buio. Pregate per me!" Il mattino dopo, appena era spuntata una livida alba, livida come sola sa essere un'alba sul lago quando nevica, mezzo paese aveva raggiunto la sponda ed il punto indicato da Umberto e dopo un'affannosa ricerca condotta con una piccola barca di legno, uno dei volontari aveva notato qualcosa che pareva ondeggiare, seguendo il ritmo delle onde in superficie, appena sopra il livello della rena del fondo. Sembravano capelli. Non era più di settanta centimetri la profondità dell'acqua in quel punto ma nessuno s'azzardò a scendere dalla barca. Lì sotto v'era la morte in agguato! Riguadagnata la riva, gli uomini si armarono di due lunghi bastoni con dei rampini sulla cima e tornati in quel punto del lago, con molta fatica e dopo vari tentativi, riuscirono a portare a galla quel povero corpo ormai in avanzato stato di decomposizione.

Umberto, da quel momento, fu solo l'Umberto. Nessuno si azzardò mai più a chiamarlo “II Matto!” Comunque, per quel giorno Marco non ritornò alla segheria. Rimase nella povera stanza con i suoi pensieri e le paure che stavano nascoste in fondo al cuore. Piovve per tutta la notte. A tratti, lampi accendevano il cielo nero e facevano comparire sul muro bianco davanti al letto di Marco strane figure danzanti nella luce blu. Quando gli riuscì di addormentarsi sognò di suo padre: usciva dalla sponda del lago, fradicio d'acqua e di alghe che gli pendevano dal capo, il viso ossuto, quasi un teschio in cui spiccavano gli occhi neri e grandi che ricordava e dalla bocca usciva un lugubre, lungo lamento. Tendeva le braccia verso di lui, verso suo figlio, il suo unico figlio mentre gli faceva cenno di avvicinarsi... Marco tentava disperatamente di fuggire ma i suoi piedi erano attanagliati dalle sabbie mobili del lago. Suo padre lo raggiunse e lo prese per mano: avvertì il contatto sotto forma di una forte scossa elettrica e sobbalzò nel letto. Aprì gli occhi ed all'improvvisa luce che produsse un fulmine ebbe l'impressione nettissima che il padre, fosse accanto a lui. Si rannicchiò sotto le coperte ma un secondo dopo, queste gli vennero bruscamente tolte di dosso. Balzò, al colmo della paura, fuori dal giaciglio e si precipitò verso la parete di fronte cercando, tentoni, l'interruttore della luce. Lo trovò e lo azionò diverse volte, ma... la luce non si accese nella misera stanza. “Probabilmente - Gli riuscì di pensare - Sono saltate le valvole del contatore della cascina. Meglio che vada a vedere.” Scalzo, con il pigiama di lana sola protezione del magro corpo, spalancò la porta della camera e scese giù per le scale di legno. Raggiunse il porticato di mattoni al piano di sotto ed accesa una candela, si avvicinò all'anta di legno che chiudeva il vano nel muro dove stava il contatore con le sue maledette valvole che saltavano al primo sbalzo di tensione. L'aprì e premette il bottone che reinseriva la corrente. Da lì vide la luce riaccendersi nella sua stanza. Risalì infreddolito la scala e rientrò nel tepore della sua camera. Aveva appena richiuso la porta alle spalle quando il suo sguardo si posò su alcune orme bagnate ben visibili sul pavimento di legno sconnesso. V'erano anche delle alghe. “Buon Dio! Chi diavolo c'è qui dentro?” Urlò per farsi coraggio al suono della propria voce. "Non penserete mica che abbia paura di qualche scherzo idiota, vero?" Aggiunse. Stette immobile ad ascoltare ma nessuno rispose: solo la fioca luce della lampadina al soffitto tremò un istante. “Alla malora tutto e tutti, morti, vivi! Voglio dormire, dannazione!" Si sdraiò nel letto che aveva mantenuto ancora un qualche tepore e si tirò le coperte fin sotto il mento. "Buonanotte." Disse a voce alta. Sprofondò in un sonno inquieto. Il nuovo giorno arrivò: la luce filtrava dalle imposte sconnesse della finestra ed era una luce dorata. “Toh! C'è il sole oggi - Si disse sbadigliando e stirandosi - Speriamo che duri.” Guardò la sveglia posta sul comodino... dov'era finita? Non stava più lì, accanto a lui, regolatrice del suo sonno. Si stropicciò gli occhi e si alzò. Nella penombra della stanza intravide qualcuno seduto sull'unica seggiola di legno e paglia che stava in fondo alla stanza, accanto alla porta. Gli riuscì di mantenere una insolita lucidità e mentre non perdeva di vista un istante la figura dai contorni poco delineati davanti a sé, spinse il battente delle imposte che si spalancarono di colpo andando a sbattere contro il muro esterno. Alla luce intensa che inondò la stanza, vide la spettrale figura di suo padre, tale e quale come l’aveva sognato quella notte. Ma si era veramente trattato di un sogno? Ora l’uomo era asciutto, lo si vedeva dai logori abiti militari che indossava. Solo attorno alle scarpe del tutto marcite dal tempo, due piccole pozze d'acqua. Lo guardava suo padre, tendendo in una parvenza di sorriso le sottilissime labbra sulle arcate dentarie mostrando i denti ingialliti. Marco si accorse di tremare. Questa volta non era il freddo né l’umidità del lago a fargli quell’effetto. In lui si era scatenato, incontenibile, un terrore ancestrale. Quello che l'uomo prova solamente quando la Morte gli sta accanto. Si vide perso, finito.

“Mio Signore e mio Dio! - Quelle parole gli uscirono spontanee e liberatorie - Ti affido la mia anima!” Gli fece eco una risata roca. Colui che stava seduto lentamente si levò dalla sedia scuotendo il capo: “Non raccomandare l'anima al cielo! Non sono venuto per portarti con me. - La voce di quella specie di fantasma suonò famigliare a Marco: ma sì, era proprio quella di suo padre! – “Io sono venuto da te, in carne ed ossa, per il volere di Colui che può far tornare i morti anche se riposano in fondo al lago e infatti è da là che io sono tornato. – Seguitò l’arcana presenza – “Un grande pericolo ti sovrasta figliolo, non solo pericolo per la tua vita ma anche e soprattutto per la tua anima.” Marco, non seppe mai dove trovò la voce per rispondergli mentre attorno ai suoi piedi nudi si stava formando una piccola pozza di orina. Non se ne vergognò.

“Com’è possibile che tu sia veramente mio padre? Sei morto quando io ero piccolo... Che pericolo mi minaccia da spingerti a lasciare il luogo dove sei?" La figura si mosse e Marco avvertì chiaramente l'odore dell'acqua e delle alghe che ora pendevano rinsecchite da quel corpo rattrappito. L'uomo tornato dalle profondità del lago tacque un lungo istante prima di rispondere. "Alla segheria... dove lavori tu. E' lì il male perverso che dovrai contrastare, figlio mio.” “La sega a nastro vero?" Chiese Marco che ora stava lasciandosi alle spalle il terrore che l'aveva attanagliato sino a qualche minuto prima. "Sì! Quella macchina ha un'anima infernale dentro di sé! E' tornata qui per compiere la propria vendetta..." "Che cosa c'entro io?" Domandò Marco rabbrividendo al pensiero di ciò che aveva certamente osservato il giorno prima alla segheria. "Tu sei mio figlio e come tale, l'oggetto della sua vendetta. E’ meglio che ti racconti tutto dall'inizio. Non hai più paura di me? Mi riconosci come tuo padre?” “Sì! Anche se sono poco sicuro di ciò che sta accadendo.” L'uomo venuto dal lago sorrise: “Sei mio figlio, il figlio di colui che un tempo chiamavano l'Umberto Matto e ne conosci il motivo. Ti ho lasciato in eredità solo questa possibilità che avevo, quella di parlare con i defunti ed anche di vederli: ed é perciò che ora puoi ascoltarmi e vedermi quale io sono. Non aver timore di me! E' altro che ti deve far paura... purtroppo!" “ Posso toccarti? Voglio essere certo di non stare sognando.” Chiese Marco spostandosi verso un posto più asciutto sul pavimento. "No! Non ti avvicinare mai a me, ne ora, ne in seguito. - Rispose arretrando d'un passo l'uomo tornato dai remoti lidi dell' al di là - Io appartengo alla morte: moriresti all'istante. I nostri due mondi sono lontani... lontani, non s'appartengono più! Comunque io sono reale, nel corpo come tu mi vedi, e nello spirito. Ora vestiti e poi ascoltami.” Marco, tremante di freddo, ubbidì e, quand'ebbe terminato, si sedette a metà del letto e s'accinse a dare ascolto allo spirito. “Era il febbraio del 1943, avevi già compiuti otto anni, ricordi?” Incominciò la presenza. Marco annuì con un sorriso: ricordava quell'anno con tanta neve e la slitta che suo padre gli aveva costruito. “Ti rammenti di quell'uomo alto e biondo che bussò alla nostra porta mentre tua madre ti stava facendo il bagno nella conca di zinco? Era di domenica...” “Certo. La mamma era spaventata. Aveva detto: Tedeschi!” Il padre lo guardò con tenerezza. "Sì... Tedeschi. Quello era un tedesco, un soldato. Cercavano Giulio, il pescatore che era accusato di fare la staffetta da una riva all'altra del lago per conto dei partigiani dell'Ossola. Quel brutto ceffo entrò in casa e guardò dappertutto, anche nella cassapanca che tenevamo in camera nostra. Se ti ricordi, volle che lo accompagnassi in cantina per dare un'occhiata. Mentre risalivamo le scale che portavano in cucina, minacciò di uccidere te e la mamma se avesse avuto il solo sospetto che noi lo si nascondesse. Se ne andò irato promettendomi di tornare..." "Dove era nascosto Giulio?" Domandò Marco che non ricordava affatto di aver mai conosciuto quell’uomo. “Stava nel pollaio... col mitra in mano, pronto a vender cara la pelle se mai quel tedesco l'avesse scoperto.” "Faceva veramente la staffetta per i partigiani?" "Altroché. Era il capo di un gruppo che operava qui da noi, su questa riva del lago. Fingeva di pescare ed intanto percorreva tutte le sponde su e giù: osservava e comunicava gli spostamenti. Un giorno però, il comandante tedesco s'insospettì e lo fece spiare. Con un potente cannocchiale lo videro passare fogli di carta ad un altro pescatore in mezzo, al lago. Tutto era chiaro. L'attesero alla riva dove era solito attraccare con la barca ma, Giulio era furbo come le volpi delle nostre montagne: aveva notato curiosi riflessi brillare dalla cima del campanile di San Pietro e Paolo, la nostra chiesetta e non ci aveva impiegato troppo a comprendere di essere stato scoperto. Lasciò la barca e da quel formidabile nuotatore che era sempre stato, raggiunse la sponda lontana qualche chilometro da dove lo stavano attendendo i soldati del maggiore Mittner, quel farabutto! Quella sera tu dormivi già accanto a tua madre, Giulio venne a casa nostra e mi pregò di mettermi in contatto, al più presto, attraverso Don Bruno, col comandante partigiano che stava sui monti sopra Arona, dall'altra sponda del lago...” Marco interruppe il racconto del padre che si stava facendo via via, sempre più interessante e domandò: “Dove andò dopo Giulio?" "Si rifugiò su nell'Ossola a continuare la sua guerra. Mi pare di ricordare che raggiunse un paese che si chiama Premosello, in provincia di Novara. Io non lo vidi più, da quella sera, però sentii parlare di lui ancora per qualche tempo...” “Poi ti sei messo in contatto tu con i suoi amici?" Chiese Marco. “Sì. Don Bruno aveva una radio nascosta sotto il pavimento dell'altare... i crucchi non la trovarono mai. Sai, è ancora là! Fu così che presi io il posto di Giulio. Di me i Tedeschi si fidavano: qualcuno aveva detto loro che ero totalmente innocuo, tonto e matto. Ah! Ah! Sai le risate mentre passavo davanti al comando tedesco e salutavo il loro comandante togliendomi il cappello. Le cose per alcuni mesi funzionarono poi... - L'uomo venuto dalle profondità del lago si fermò per un attimo come a voler raccogliere le idee e Marco notò gli occhi farsi piccole fessure che sprigionavano lampi d'odio allo stato puro - Poi quel buono a nulla di un Gabriele, un mio vecchio compagno di scuola cui tua madre mi aveva preferito, per vendicarsi di me mise una pulce nell'orecchio del Mittner suggerendogli di fare spiare anche me. Sapeva benissimo che io non ero matto. Sapeva che mi ero sempre fatto solo i fatti miei e che sapevo benissimo farmeli: infatti tua madre aveva sposato me e non lui. Era sempre stato un ruffiano... di tutti. Fin da bambino. Così, nel mese di giugno del '44, pochi giorni prima dello sbarco alleato, finii in trappola. Prima che salissi in barca per andare a pescare, erano si e no le tre e mezza del mattino, mi arrestarono e mi trovarono addosso le prove che cercavano: un foglio con annotati i movimenti dei tedeschi in paese ed alcune mie impressioni sulle armi che avevano appena ricevuto.” “Non ti eri accorto di essere osservato, pa?”

Umberto sorrise nel sentirsi chiamare in quel modo: quanto aveva sofferto per quel ragazzino che aveva dovuto lasciare un tempo. “No. Non me ne resi conto finché non mi ammanettarono.” “E dopo?” Incalzò Marco che non stava più nei panni per la curiosità di conoscere quei lontani avvenimenti. "Mi condussero davanti a quel maledetto comandante tedesco. Mi guardò un lungo istante con quegli occhi azzurri e cattivi poi mi mollò un manrovescio che mi spaccò il labbro in due. Vedi qui? Ne porto ancora il segno adesso. “Non si preoccupi - Aveva detto sorridendo malignamente - La faremo parlare... Oh se la faremo parlare! La faccio diventare matto io, italiano traditore, conosciamo certi metodi... Vero capitano Rainer?” L'Ufficiale delle S.S. cui si era rivolto, ironicamente sorrise compiaciuto ed annuì. “Ja! Questo traditore, entro domani avrà già parlato o sarà morto!” Gli sputai in faccia. Il tedesco si deterse il volto con la mano guantata di nero: “Così sarà ancor più piacevole per me. Traditore!” Mentre suo padre stava facendo una pausa nel raccontare quei terribili fatti lontani, Marco gettò un'occhiata alla sveglia: al vedere le lancette nere con la punta a freccia segnare le dodici meno un quarto, trasalì.

“Oddio! - Esclamò - Avrei dovuto andare al lavoro... Il Bianchi, stavolta, mi licenzia!” “Non ti crucciare per questo. Marco – L’aveva rassicurato il padre - Vedrai che non lo farà. Non lo farà davvero. Aspetta che abbia terminato di dire quello che devo e capirai perché.” Marco si sentì tranquillizzato da quella promessa e si dispose ad udire il resto della storia. “Dunque - Riprese suo padre - Mi condussero alla cascina del Romualdo, lo ricordi vero? Era il ciclista del paese. La cascina era stata posta sotto sequestro dal comandante Mittner che vi aveva ricavato delle celle sicure in cui rinchiudeva i prigionieri e poi aveva allestito una stanza appositamente per gli interrogatori, come li chiamavano loro. Verso le due e mezza, mi tirarono fuori dalla stanza in cui mi avevano gettato legato mani e piedi, e mi condussero all'interrogatorio. Il capitano della S.S. Bruno Rainer mi stava attendendo a gambe divaricate dondolando nervosamente sulle punte dei suoi stivali neri e lucidi. Mi fecero sedere su di una vecchia seggiola di legno quindi mi legarono le braccia dietro lo schienale. Strinsero talmente le corde che dopo nemmeno tre minuti, non mi sentivo più le mani. "Allora, eroe, ora ci devi dire i nomi dei tuoi complici e dove li possiamo trovare. Se ci accontenti subito, verrai deportato in Germania come prigioniero, altrimenti... non credo che potrai vedere il sole tramontare su questo lieto giorno. Parla, ti ascolto.”

Tentai disperatamente di negare una prima volta e mi arrivò sul viso un colpo di scudiscio che mi fece accendere mille luci nel cervello. Capii che era finita per me. Capii che se anche avessi fatto quei nomi, di lì non sarei uscito con le mie gambe ed allora decisi di morire senza tradire i miei compagni. “Maledetto crucco!” Gli vomitai in faccia sprezzante.” Puoi anche farmi a pezzi, ma da me, non saprai mai nulla! Certo che li conosco e che so dove stanno nascosti... Non attendono altro che di farvi fuori!” Si scagliò su di me che non potevo nemmeno difendermi e mi riempì di colpi violentissimi: quando terminò, perché esausto, la mia faccia non avrebbe dovuto più nemmeno essere chiamata tale. Provai a muovere la mandibola inferiore ma questa non rispondeva più: penzolava inerte. Vedevo i contorni delle cose e delle figure dei miei aguzzini come confusi nella nebbia e pensai di stare per morire. Entrò il comandante, il maggiore Mittner e vedendomi sanguinante finse compassione. “Ma capitano Rainer! Avevo detto che desideravo che il prigioniero venisse interrogato, non massacrato!” Mi si avvicinò, si chinò verso di me e guardandomi negli occhi mi chiese: “Fa molto male, herr Umberto?" Poi, mentre si rialzava, mi colpì violentemente con un pugno proprio alla mascella.

Mi parve che questa schizzasse via dalla faccia! Persi i sensi ma subito li recuperai: un secchio d'acqua gelata mi scosse e mi lamentai penosamente. “Vuoi deciderti a parlare o dobbiamo avvalerci della sapiente opera del capitano Rainer? Sa fare molto, molto di meglio! Garantisco!” Sentii la voce del comandante tedesco pronunciare quelle minacciose parole. “Potete fare quello che volete - Ebbi la forza di biascicare - Tanto si muore una volta sola!” “Bene così allora Herr Umberto! - Sbottò il tedesco - Ve la siete cercata voi una morte atroce quale è quella sotto la tortura. Capitano Rainer, il prigioniero è vostro. Cercate di fargli dire qualcosa, prima di fargli fare la fine che spetta ai traditori della grande Germania.” Uscito il comandante Mittner, sentivo che i tedeschi stavano facendo dei preparativi per qualcosa che mi avrebbe riguardato da lì a poco. Persi ancora una volta i sensi e mi fecero rinvenire col sistema che avevano già adottato precedentemente.

“Così i suoi compagni non attendono altro che il momento di farci fuori. E’ così, non è vero? Lo ha detto lei. Per ora però faremo fuori lei e non sarà certo una cosa tanto piacevole. Glielo assicuro.” Rideva quel cretino mostrandomi ciò che teneva in mano: un tubo d'acciaio lungo quasi mezzo metro. “Lo vede questo? - Mi chiese battendolo sul palmo guantato della mano sinistra - Questo ha la possibilità di far parlare anche i morti se convenientemente usato. Oh, non s'immagini nulla di speciale: la sodomizzerò delicatamente, molto delicatamente. Sfortunatamente non ho sottomano della vaselina, ma faremo comunque un bel lavoretto, stia tranquillo. Le faremo sciogliere quella linguaccia!” “Avanti! - Ordinò ai due giganteschi S.S. - Procediamo che il tempo vola e stasera devo andare a pranzo dal podestà di questo fottuto paese." Mi slegarono le braccia e mi trascinarono verso un tavolaccio di legno. Tentai una disperata difesa ma fu inutile: mi sfilarono i pantaloni e mi misero nudo, disteso sul legno a pancia in giù. M'incatenarono le mani ed i piedi e tirarono finché le catene furono ben tese. Ora ero alla loro mercé, alla mercé di quei maledetti assassini che ridevano... ridevano… Avvertii il contatto gelido dell'acciaio fra i glutei...


Sono presenti 2 commenti

Anonimo ha detto...

Finalmente! Ben tornato.

Anonimo ha detto...

E' un racconto che fa vanire la pelle d'oca , perché purtroppo la ferocia degli uomini verso i propri simili (MA NEMICI) è purtroppo storia , ma hai saputo raccontarla addolcendola con descrizioni paesaggistiche fantastiche come solo tu sai fare .Complimenti , ancora una volta.-

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