I colloqui segreti del padrino che vuol infliggere al pm Di Matteo “la fine del tonno” come a Falcone e Borsellino
Liberainformazione - Un mafioso del calibro di Totò Riina (per alcuni sarebbe ancora il capo di Cosa Nostra sebbene stia scontando l’ergastolo nel carcere milanese di Opera, mentre Matteo Messina Denaro ne sarebbe quello ancora latitante) si permette, in un raro accesso d’ira ,vero o finto, di minacciare di morte il pm di Palermo, Nino Di Matteo, che si occupa del processo sulla trattativa Stato-mafia (“Gli faccio fare la fine del tonno come a Falcone”), e il procuratore generale Roberto Scarpinato (“che prima era a Caltanissetta e ora è tornato a Palermo e si dà troppo da fare”).
Sul significato e sullo scopo di quelle parole, pronunciate da uno che sa bene di essere ascoltato, si sono spesi il Procuratore di Palermo Francesco Messineo (che ne sottolinea la pericolosità) e giornalisti competenti come Attilio Bolzoni, che ne ha messo in rilievo la funzione ricattatoria nei confronti di quanti, rimasti nell’ombra, hanno ancora da nascondere eventuali complicità nelle stragi del ’92, quelle di Capaci e di Via D’Amelio.
Infatti, le parole del vecchio boss sono state interpretate come una pronta risposta alle dichiarazioni del pentito Francesco Onorato, che, testimoniando nel processo, aveva detto (06-XI-2013) che solo Riina sta pagando per quelle stragi per le quali era stato “usato” . Altri quindi hanno analizzato il fatto, ma stonano alcune assenze, alcune sordità.
A manifestare la solidarietà a Di Matteo e agli altri pubblici ministeri impegnati nelle indagini e, ora, nel processo sulla “trattativa”, sono stati alcuni rappresentanti istituzionali (forse mancherà qualche nome alla lista): il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta; la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti; l’ANM, il sindacato della Magistratura; la presidente della Commissione Antimafia, Rosi Bindi.
Don Ciotti, a nome di Libera e tante associazioni , ha voluto testimoniare la vicinanza a Di Matteo scrivendogli in una lettera aperta “Devi sapere che non sei solo”. Opportuna sollecitudine, poiché, da sempre i magistrati che si occupano di mafia sanno che l’isolamento da parte delle istituzioni, ma anche dei media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, ad armare la mano della mafia. Giustificato, pertanto, anche l’immediato allarme che lancia l’ex pm Antonio Ingroia: “Quei magistrati sono soli. Ecco perché Riina può impunemente minacciarli”.
Così propone alla Bindi di aprire la Commissione Antimafia alla partecipazione (in sessione speciale sulle Stragi e sulla Trattativa) ai rappresentanti della associazioni antimafia e dei familiari della vittime. Si mobilita anche il movimento delle Agende Rosse, che programmano una quattro giorni d’iniziative in tutta Italia (a Palermo, Roma, Torino e Napoli), invitando le istituzioni locali a firmare un documento di solidarietà e a manifestare pubblicamente il loro essere a fianco dei magistrati minacciati.
Non si può accettare, infatti, che la lotta alla mafia sia questione di etichette politiche. Per questo sono le Istituzioni a doversi schierare in prima linea. Per questo si fa così pesante, così assurdo, il silenzio della Presidenza del Consiglio e degli alti vertici dello Stato, che rappresentano la comunità dei cittadini al massimo livello. Un tale silenzio rischia di comunicare qualcosa di più del “fastidio” che i vertici dello Stato sentono di fronte al sacrosanto diritto-dovere dei giudici di indagare nei meandri dei compromessi inconfessabili del potere, di inquisire i soggetti che se ne rendono protagonisti, di portare alla luce i comportamenti illegali o anche solo impropri.
Un tale silenzio è inaccettabile, perché siamo obbligati a schierarci in quella che è una vera e propria guerra, dichiarata o meno, che sempre le mafie mettono in atto contro le forze dell’ordine e la magistratura in quanto baluardi della legalità e primi avamposti dello Stato.
Un silenzio inammissibile.
Liberainformazione - Un mafioso del calibro di Totò Riina (per alcuni sarebbe ancora il capo di Cosa Nostra sebbene stia scontando l’ergastolo nel carcere milanese di Opera, mentre Matteo Messina Denaro ne sarebbe quello ancora latitante) si permette, in un raro accesso d’ira ,vero o finto, di minacciare di morte il pm di Palermo, Nino Di Matteo, che si occupa del processo sulla trattativa Stato-mafia (“Gli faccio fare la fine del tonno come a Falcone”), e il procuratore generale Roberto Scarpinato (“che prima era a Caltanissetta e ora è tornato a Palermo e si dà troppo da fare”).Sul significato e sullo scopo di quelle parole, pronunciate da uno che sa bene di essere ascoltato, si sono spesi il Procuratore di Palermo Francesco Messineo (che ne sottolinea la pericolosità) e giornalisti competenti come Attilio Bolzoni, che ne ha messo in rilievo la funzione ricattatoria nei confronti di quanti, rimasti nell’ombra, hanno ancora da nascondere eventuali complicità nelle stragi del ’92, quelle di Capaci e di Via D’Amelio.
Infatti, le parole del vecchio boss sono state interpretate come una pronta risposta alle dichiarazioni del pentito Francesco Onorato, che, testimoniando nel processo, aveva detto (06-XI-2013) che solo Riina sta pagando per quelle stragi per le quali era stato “usato” . Altri quindi hanno analizzato il fatto, ma stonano alcune assenze, alcune sordità.
A manifestare la solidarietà a Di Matteo e agli altri pubblici ministeri impegnati nelle indagini e, ora, nel processo sulla “trattativa”, sono stati alcuni rappresentanti istituzionali (forse mancherà qualche nome alla lista): il presidente della Regione Sicilia, Rosario Crocetta; la presidente della Commissione Giustizia della Camera, Donatella Ferranti; l’ANM, il sindacato della Magistratura; la presidente della Commissione Antimafia, Rosi Bindi.
Don Ciotti, a nome di Libera e tante associazioni , ha voluto testimoniare la vicinanza a Di Matteo scrivendogli in una lettera aperta “Devi sapere che non sei solo”. Opportuna sollecitudine, poiché, da sempre i magistrati che si occupano di mafia sanno che l’isolamento da parte delle istituzioni, ma anche dei media e, di conseguenza, dell’opinione pubblica, è la condizione necessaria, anche se non sufficiente, ad armare la mano della mafia. Giustificato, pertanto, anche l’immediato allarme che lancia l’ex pm Antonio Ingroia: “Quei magistrati sono soli. Ecco perché Riina può impunemente minacciarli”.
Così propone alla Bindi di aprire la Commissione Antimafia alla partecipazione (in sessione speciale sulle Stragi e sulla Trattativa) ai rappresentanti della associazioni antimafia e dei familiari della vittime. Si mobilita anche il movimento delle Agende Rosse, che programmano una quattro giorni d’iniziative in tutta Italia (a Palermo, Roma, Torino e Napoli), invitando le istituzioni locali a firmare un documento di solidarietà e a manifestare pubblicamente il loro essere a fianco dei magistrati minacciati.
Non si può accettare, infatti, che la lotta alla mafia sia questione di etichette politiche. Per questo sono le Istituzioni a doversi schierare in prima linea. Per questo si fa così pesante, così assurdo, il silenzio della Presidenza del Consiglio e degli alti vertici dello Stato, che rappresentano la comunità dei cittadini al massimo livello. Un tale silenzio rischia di comunicare qualcosa di più del “fastidio” che i vertici dello Stato sentono di fronte al sacrosanto diritto-dovere dei giudici di indagare nei meandri dei compromessi inconfessabili del potere, di inquisire i soggetti che se ne rendono protagonisti, di portare alla luce i comportamenti illegali o anche solo impropri.
Un tale silenzio è inaccettabile, perché siamo obbligati a schierarci in quella che è una vera e propria guerra, dichiarata o meno, che sempre le mafie mettono in atto contro le forze dell’ordine e la magistratura in quanto baluardi della legalità e primi avamposti dello Stato.
Un silenzio inammissibile.
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