Torture e maltrattamenti che talvolta hanno causato la morte nelle vittime sono “pratiche diffuse” nelle carceri libiche
Misna - A denunciarlo è un rapporto dell’Onu secondo cui i carcerieri fanno abitualmente ricorso alla tortura nei primi cinque giorni di detenzione e durante i primi interrogatori, per ottenere confessioni o altre informazioni. L’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) sostiene nel documento di aver certificato 27 decessi in stato di detenzione dalla fine del 2011 ad oggi e che, in molti di questi, “ci sono prove sufficienti ad avanzare l’ipotesi di torture come causa della morte”. Le pratiche – affermano gli esperti – permangono nonostante un forte impegno delle istituzioni libiche, ad alto livello, per contrastarle. Tra i fattori che ostacolano l’abolizione di tali esercizi, il rapporto cita “i lunghi periodi di detenzione sotto la custodia di uomini delle milizie armate”.
Secondo i dati della Missione di assistenza delle Nazioni Unite in Libia (Unsmil) nelle carceri libiche ci sono circa 8 mila persone recluse per la loro partecipazione al conflitto armato. In grande parte si tratta di prigionieri trattenuti senza le dovute garanzie processuali, senza avvocato e senza la possibilità di contattare i propri familiari.
La gestione delle milizie – rafforzate dalla rivoluzione e rovesciamento dell’ex guida libica Muammar Gheddafi è una delle principali cause di instabilità nel paese. I combattenti armati, che all’inizio dell’anno a Tripoli hanno assediato alcuni ministeri per diversi giorni e che oggi operano nel settore della sicurezza interna, si presentano come un vero e proprio potere, antagonista a quello dello Stato.
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