lunedì, luglio 29, 2013
Discriminare in base all’orientamento sessuale è sempre sbagliato o vi sono dei casi in cui il legislatore può legittimamente farlo? La Congregazione per la dottrina della fede, in un documento del 1992, indica i criteri in base ai quali valutare la bontà di una proposta di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali.

di Bartolo Salone

Già nella “Lettera ai vescovi della Chiesa cattolica sulla cura pastorale delle persone omosessuali” (1986), la Congregazione per la dottrina della fede metteva in guardia sull’azione di gruppi di pressione che cercano di manipolare l’insegnamento della Chiesa e di mutare la legislazione civile al fine di imporre la loro particolare concezione, secondo cui l’omosessualità sarebbe una “realtà perfettamente innocua, se non totalmente buona”. Una delle tattiche usate da questi gruppi è proprio “quella di affermare, con toni di protesta, che qualsiasi critica o riserva nei confronti delle persone omosessuali, delle loro attività e del loro stile di vita è semplicemente una forma di ingiusta discriminazione”. In seguito a tale attività di lobbying sono state avanzate in diverse nazioni proposte di legge dirette a rendere illegale ogni distinzione fondata sulla tendenza sessuale, ad esempio in materia di assunzioni di insegnanti, di matrimonio, di adozione, di edilizia pubblica. Tali iniziative, a motivo dell’impatto negativo che possono avere sulla famiglia e sulla società, hanno sollecitato nel 1992 un primo intervento della Congregazione per la dottrina della fede, che in un documento dal titolo “Alcune considerazioni concernenti la risposta a proposte di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali” (d’ora in avanti solo “Considerazioni”) ha indicato alcuni principi che dovrebbero guidare tanto gli elettori quanto i legislatori e le autorità ecclesiali nel valutare simili iniziative.

Il problema centrale esaminato dalla Congregazione nel suddetto documento è quello relativo alla considerazione dell’orientamento sessuale rispetto al principio di non-discriminazione. Gli attivisti gay sono infatti soliti affermare, a sostegno di iniziative legislative come quelle sopra menzionate, che ogni distinzione basata sulla tendenza sessuale, finanche nel settore delle politiche familiari, sarebbe una “ingiusta discriminazione”, paragonabile a quelle fondate sul sesso, sulla razza, sull’origine etnica. Come è evidente, questo modo di argomentare finisce col rendere inammissibile ogni differenziazione basata sull’orientamento sessuale, anche laddove il buon senso suggerirebbe di tenerne conto, giacché ogni differenziazione in tal senso – si dice – finirebbe col contraddire il principio di uguaglianza nel suo “nocciolo duro”. In realtà, se non si vuole correre il rischio di applicazioni formalistiche e contraddittorie del principio di eguaglianza, bisognerebbe sempre partire dalla “natura delle cose”, poiché il principio di uguaglianza, ad essere onesti, è violato sia quando viene tributato un trattamento diverso a situazioni analoghe sia quando si trattano in modo uguale situazioni obiettivamente diverse. D’altronde, secondo l’insegnamento della Chiesa – in questo conforme alle acquisizioni del moderno costituzionalismo – il principio di eguaglianza deve essere contemperato dal principio di giustizia (che impone di tener conto delle differenze), pena in caso contrario il suo svuotamento in una forma di arido e inconcludente egualitarismo.

Fatta questa premessa, si tratta allora di capire in che modo si pone la tendenza omosessuale rispetto ad altre caratteristiche del soggetto (come l’età, il sesso, la razza) ai fini della regolamentazione giuridica di alcune situazioni. La Congregazione per la dottrina della fede, nelle sue “Considerazioni”, osserva come la tendenza omosessuale non possa essere paragonata alla razza o all’origine etnica rispetto alla non discriminazione. Infatti, al di là delle apparenze, la condizione omosessuale, proprio perché inclina a compiere atti intrinsecamente immorali, deve considerarsi essa stessa “oggettivamente” disordinata, ragion per cui la tendenza omosessuale – a differenza della razza, del sesso, dell’etnia, ecc… – “richiama una preoccupazione morale”. Proprio in considerazione delle preoccupazioni morali suscitate dal fenomeno della omosessualità, “vi sono ambiti nei quali non è ingiusta discriminazione tener conto della tendenza sessuale”, come per esempio “nella collocazione di bambini per adozione o affido, nell’assunzione di insegnanti o allenatori di atletica e nel servizio militare”. La Chiesa stessa fa applicazione di tale principio quando esclude dall’ordinazione sacerdotale “coloro che praticano l’omosessualità o presentano tendenze omosessuali profondamente radicate o sostengono la cosiddetta cultura gay” (cfr. “Istruzione della Congregazione per l’Educazione Cattolica circa i criteri di discernimento vocazionale riguardo alle persone con tendenze omosessuali in vista della loro ammissione al Seminario e agli Ordini Sacri” del 4 novembre 2005, la quale, richiamando la distinzione tra omosessualità “transitoria” e omosessualità “strutturata” già presente nella dichiarazione “Persona humana” della Congregazione per la dottrina della fede del 1975, precisa che “qualora si trattasse di tendenze omosessuali che fossero solo l’espressione di un problema transitorio, esse devono comunque essere superate almeno tre anni prima dell’ordinazione diaconale”). Al di fuori di questi ambiti in cui non appare irragionevole porre delle differenze in base all’orientamento sessuale, “le persone omosessuali, in quanto persone umane, hanno gli stessi diritti di tutte le altre persone, incluso il diritto di non essere trattate in una maniera che offende la loro dignità personale”. E’ tuttavia lecito all’autorità pubblica, in linea di principio, limitare alcuni diritti (ad esempio, il diritto al lavoro o all’abitazione) “a motivo di un comportamento esterno obiettivamente disordinato”, e tale è da ritenere fra l’altro il comportamento omosessuale.

Vi è inoltre una seconda ragione che rende la tendenza omosessuale non paragonabile alla razza, al sesso e all’età in relazione al principio di non discriminazione: la tendenza omosessuale di un individuo in genere non è nota ad altri, a meno che egli identifichi pubblicamente se stesso come avente questa tendenza o almeno qualche comportamento esterno lo manifesti. Le persone omosessuali che dichiarano la loro omosessualità sono di regola proprio quelle che ritengono il comportamento omosessuale moralmente indifferente o addirittura buono e pertanto degno di approvazione pubblica. Mentre la maggioranza delle persone che, in linea con l’insegnamento della Chiesa e nel pieno rispetto delle esigenze della legge morale, cercano di condurre una vita casta di regola, non rendono pubblica la loro tendenza sessuale. Pertanto, una legislazione che, sotto il pretesto della non discriminazione, faccia dell’omosessualità una base per avere dei diritti finisce di fatto con l’incoraggiare una persona omosessuale “a dichiarare la propria omosessualità o addirittura a cercare un partner allo scopo di sfruttare le disposizioni di legge”: finisce cioè, al di là della sua apparente “neutralità”, con l’incoraggiare lo stesso comportamento omosessuale. Viene altresì rilevato che includere la tendenza omosessuale tra le considerazioni in base alle quali è in assoluto illegale discriminare “può facilmente portare a ritenere l’omosessualità quale fonte positiva di diritti umani, ad esempio in riferimento alla cosiddetta ‘affirmative action’ o trattamento preferenziale nelle pratiche di assunzione”.

Infine, nel valutare una proposta di legge sulla non discriminazione delle persone omosessuali dovrebbe essere riposta grande attenzione sulla responsabilità di difendere e di promuovere la vita della famiglia. Così, prima di assentire a proposte del genere, bisognerebbe porsi le seguenti domande: “Come influenzeranno l’adozione o l’affido? Costituiranno una difesa degli atti omosessuali, pubblici o privati? Conferiranno uno stato equivalente a quello di una famiglia ad unioni omosessuali, per esempio a riguardo dell’edilizia pubblica o alle prestazioni previdenziali?”. Ove siano in gioco beni così fondamentali, le stesse autorità ecclesiali sono tenute altresì a manifestare pubblicamente il loro dissenso, anche se in ipotesi la legislazione concedesse delle eccezioni alle organizzazioni e alle istituzioni della Chiesa (si pensi ad esempio al delicato settore degli affidi che vede impegnate numerose istituzioni ecclesiali e associazioni di ispirazione cattolica). Infatti, “la Chiesa ha la responsabilità di promuovere la vita della famiglia e la moralità pubblica dell’intera società civile sulla base dei valori morali fondamentali, e non solo di proteggere sé stessa dalle conseguenze di leggi perniciose”. Responsabilità condivisa, non dimentichiamocelo, da tutti i fedeli, e soprattutto da quelli impegnati in politica.


È presente 1 commento

Anonimo ha detto...

I gay non sono il problema + importante in Italia. Continuare a parlarne vuol dire sviare l'attenzione sulle cose serie. Cosa ci frega dei gay? Facciano quel che vogliono. Ca..i loro!

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